Variazioni Munro
L’avanzare lieve e quasi impercettibile dell’imprevisto che sconvolge le tranquille esistenze dei suoi personaggi, deviandone i destini in maniera irreversibile, è il marchio della narrazione della Munro, scomparsa questo 13 maggio. Tutto può mutare a causa di un frammento, di un dettaglio assolutamente minimo: un odore, un ricordo, una parola, un suono. E così l’illusione di un continuum, se pur pallido ma rassicurante, viene sconvolto. Come un’abile musicista, la Munro è un’esperta della variazione, è maestra dell’impercettibile cambiamento tonale e ritmico che devia una melodia, o il procedere di un racconto, da un andamento prevedibile verso la creazione di un’opera originale.
Avanzo la supposizione che, ove ci sia un tale imprevisto, il minimo di un istante che rompe un andamento piano e monotono sia la voce del femminile (in senso artistico, non di genere), quella capace di rilanciare il nuovo di un movimento melodico o di scrittura. Per natura, prima ancora che per cultura, una donna è prossima alla variazione e all’imprevedibile: le metamorfosi del suo corpo – il seno che improvvisamente cresce in adolescenza, il trauma del ciclo, l’evento della maternità, le incursioni della menopausa – la allenano, fin quasi da subito, al miracolo della trasformazione che, pur se mai padroneggiata, le è in qualche modo familiare. Così come accade, ad esempio, nel racconto Lichene della Munro dove si assiste alla metamorfosi del dettaglio erotico del corpo femminile che, da modello, da pattern di un godimento seriale un po’ mortifero di un ex marito, si trasforma in lichene, primitiva forma di vita, dietro la tenda di Stella, quasi come “covata” dietro il suo velo. Laddove si tratta d’improvvisazione e di variazione, non v’è dubbio che un genio femminile s’insinua nel ritmo delle cose e della materia di cui sono fatte.
Nella scrittura della Munro, il cambiamento tonale e ritmico è dato da un leggero colpo d’ala del destino che rompe la monotonia di una melodia divenuta monocorde. In questa trasformazione la voce risuona per la capacità di rilancio in una improvvisazione nuova, un po’ come accade nelle invenzioni di una vocalist del jazz. Per inciso, un racconto, più che un romanzo, nel suo cogliere un frammento, un istante di vita, è analogo alla brevità del singolo brano musicale.
E a proposito della fine, di un racconto come di una vita, ecco un pensiero della Munro che sarebbe perfetto per questo momento in cui ci lascia: “La fine è importante, ma mi interessano di più i cambiamenti che avvengono lungo la strada. È proprio ciò che accade nell’interpretazione di un pezzo jazz dove i cambiamenti melodici avvengono lungo tutto il chorus, a differenza di altri generi come il pop o il rock dove è il finale ad essere marcato dalla variazione. Con Munro, insomma, si tratta sempre di questioni d’improvvisazione.
Accostare il lavoro di Munro all’improvvisazione vocale illumina un poter sostare, un prolungare, un “saperci fare” con la cifra inconscia della voce umana, con ciò che la fa essere evento irripetibile: la voce non potrà mai essere, a differenza di uno strumento, ben temperata. Chi improvvisa, non può che ascoltare e assecondare un effetto inconscio che insiste sulla voce.
Le Variazioni Munro non procedono tanto diversamente da quel che avviene in una seduta analitica dove è sempre questione dell’irruzione di una connessione imprevista, e non eludibile, che immediatamente fa cambiare livello e prospettiva alla “solita vecchia storia” che il soggetto ama raccontarsi, a volte con sintomatico accanimento.
Le variazioni Munro procedono, come quelle Goldberg di Bach, da minime rotture che impercettibilmente mettono il cuore del lettore in allarme, in attesa, come accade quando un orecchio è sorpreso da un inatteso bemolle che si manifesta, magari non cercato dalla voce, e che costringe la vocalist a cambiare scala tonale: ed è su questa che, ora, bisogna continuare ad improvvisare. Lo stile della Munro, per me, è uno stile in bemolle: il bemolle, infatti, è la minima variazione che una nota può subire e che introduce come una sospensione, un trattenere il fiato, un’allerta, un’inquietudine. Ciò che era familiare cambia di segno e diventa spaesante, proprio come accade ai sottili cambiamenti di rotta che avvengono nelle storie della Munro e che solo dopo, alla fine del racconto, in après coup, ti accorgi che una progressione di minuzie e dettagli minimi – depistaggi compresi – li avevano preparati. Anche qui, analogamente a ciò che un analizzante trova alla fine del suo percorso d’analisi.
Dolores Bayle, personaggio della Munro, è una bambina handicappata che sconvolge uno scontato e antiquato saggio musicale interpretando, con tocco inaspettato, La danza delle ombre felici di Gluck, una “musica fragile, gaia e cortese” che, per il fatto stesso che sia Dolores a interpretarla e anche magistralmente, diventa qualcosa di sconcertante per gli astanti, qualcosa di “fuori luogo”, qualcosa di cui le madri degli altri bambini “non hanno voglia di parlare”. La danza delle ombre felici – nell’opera di Gluck Orfeo e Euridice – è quella che evoca la calma serenità e la lieve gioia in cui è immersa Euridice prima dell’incontro con Orfeo che la viene a cercare nel regno dei morti. Euridice canta dell’”asilo di placide calme” dove ha trovato una “torpida cura” per la tristezza ormai lontana ed ora finalmente il “sen respira soave voluttà”: ella evoca quindi un paradiso, forse un po’ artificiale, lontano dalla gioia intensa e dal dolore straziante che, di lì a poco, l’incontro con Orfeo le procurerà. Con la scelta di questo brano musicale, quale titolo del racconto e dell’intera raccolta, sembra che la Munro ci voglia dire che nessun paradiso – né dell’aldiqua e neppure dell’aldilà – ripara dall’imprevisto e dal turbamento.
Per inciso una piccola sottolineatura: la voce di Orfeo, voce dell’impensabile in quanto scendere nell’ade non era permesso ai vivi, è nell’opera di Gluck affidata a un contralto, cioè a una voce femminile.
Ultima considerazione. Non conosco i paesaggi dell’Ontario e della Colombia Britannica che la Munro descrive (conosco solo un po’ l’Alaska), ma quando leggo le descrizioni della Munro mi pare di ascoltare i suoi paesaggi più che vederli: li sento come mondi in cui non è il colore a dominare, ma il suono:
“…il ghiaccio sbatteva contro i pilastri del ponte e sgretolandosi produceva il frastuono di sempre, creando quei torrentelli d’acqua in mezzo alle fenditure”
L’acqua che fluisce tra le fenditure mi ricorda l’aria che passa nella strettoia di una gola umana, diventando suono. I paesaggi della Munro, al mio orecchio, suonano come paesaggi vocali, sonori. Paesaggi in cui la pennellata di realismo descrittivo è come una maschera posata sopra il suono del ghiaccio che scricchiola: un suono in bemolle che evoca il trionfo dell’ineffabile.
Come nella voce. E come nell’inconscio.
La melodia (elemento femminile) senza un ritmo (elemento maschile) sarebbe un fluire senza figura, un mare vocalico senza riva, senza arresto in un punto limite: il ritmo argina il fluire, impone un taglio quando esso diventa monotono o incomprensibile e lo rilancia, evitando che il canto affoghi nel mare del vocalico. Se il ritmo è taglio, castrazione dell’andamento melodico, la capacità di fare del ritmo una variazione che rilancia un movimento melodico, è arte femminile. Il ritmo come semplice scansione dell’uguale, come pattern ripetitivo, non le appartiene: appartiene casomai alla serialità di un certo godimento erotico che si impunta proprio sul taglio in sé del corpo (come quello fotografico, nel caso del racconto Lichene) che ripete all’infinito il particolare seriale e lo colleziona.
Alla scrittrice imperitura, vorrei dire: hai dato alla malinconia un altro colore, un altro andamento, un’altra musica.