Vienna, 1919-Berlino, 1989: il paradigma neoliberale
“How the city of ideas created the modern world” recita il sottotitolo di Vienna di Richard Cockett (Yale University Press, 2023), e chiunque abbia preso in mano il libro penserà a più di una sfera intellettuale che nelle sue manifestazioni di eccellenza lo riportano alla Vienna dei primi decenni del Novecento, e delle quali, immagina, parlerà. Quando poi inizierà a leggerlo, pagina dopo pagina sarà un crescendo di stupore nello scoprire quanto numerose fossero le sfere artistiche e scientifiche nelle quali in quegli anni Vienna si è distinta. Il libro racconta anche un’altra storia, meno nota, ma affascinante e importante: come quelle idee nate a Vienna la diaspora dei suoi intellettuali, che inizia con l’ascesa al potere del Nazifascismo in Austria nel 1934, le abbia poi diffuse in altri Paesi – nel Regno Unito e negli Stati Uniti in particolare. E come esse, ibridandosi con altre idee, siano maturate fino a diventare tanto influenti da tracciare il sentiero verso il nostro presente.
Leggendo il libro, lo stupore maggiore potrebbe essere, però, scoprire quante e quanto contrastanti e influenti siano state le idee sulla relazione tra capitalismo e democrazia che dobbiamo al milieu intellettuale viennese. E tra le tante tracce che il libro propone – e fa intersecare nello spazio e nel tempo per esplorare il magnifico paesaggio intellettuale della città – seguirò proprio questa, che ci condurrà all’origine dei difficili giorni che la democrazia sta vivendo in Europa.
Se è un economista ad avere in mano Vienna di Cockett si può essere certi che, nel leggere il sottotitolo, il suo pensiero andrà alle ultime righe della Teoria generale di John M. Keynes (1936) – forse il testo di economia più noto del Novecento: “But, soon or late, it is ideas, not vested interests, which are dangerous for good or evil.” Mentre le scriveva Keynes credeva che a prevalere sarebbero state le ‘idee buone’ – e considerava parte del lavoro intellettuale impegnarsi perché accadesse. Ma è morto troppo presto (1946) per accorgersi che, se il mondo – come riteneva – “is governed by little else [than] the ideas of economists and political philosophers”, il controllo dei dispositivi che regolano la genesi e la diffusione delle idee – in particolare di quelle sulla democrazia e sul capitalismo – sarebbe diventato progetto politico. E che, pertanto, non era affatto scontato che le idee buone avrebbero prevalso.
Le idee che negli anni Venti del Novecento prendono forma a Vienna sulla relazione tra capitalismo e democrazia possono essere classificate sulla base di due paradigmi. Da una parte, il paradigma neoliberale – Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek sono i più noti tra i numerosi intellettuali che parteciperanno alla sua costruzione. Dall’altra, il paradigma liberal-socialista, al quale Otto Neurath darà un grande contributo e che più di ogni altro Karl Polanyi esplorerà nei decenni successivi nei suoi fondamenti teorici e premesse storiche.
Raccontare delle radici viennesi di entrambi i paradigmi, come fa brillantemente Cockett, aggiunge altri interessanti tasselli al già meraviglioso mosaico intellettuale della città. Allo stesso tempo, spinge a chiedersi quali siano le idee sulla democrazia e sul capitalismo che hanno infine prevalso. La risposta è già nel titolo del capitolo finale del libro: “A Viennese Apotheosis: The Ascent of the Austrian School”. Un esito che dopo la Seconda guerra mondiale, e per alcuni decenni ancora, era sembrato impensabile – mentre le democrazie europee seguivano un sentiero che andava nella direzione opposta a quella del progetto neoliberale.
La marcia verso l’egemonia del paradigma neoliberale, che diventerà trionfale negli anni Novanta, inizia quando, sul finire della Seconda guerra mondiale, Hayek pubblica The Road to Serfdom (1944), chiamando a raccolta gli intellettuali neoliberali dispersi tra Europa e Stati Uniti. Lo fa in vista di un conflitto intellettuale e politico che ritiene decisivo: quale modello di capitalismo per l’Europa dopo la fine della guerra – quale modello per fa svanire la paura della democrazia? Che si era manifestata tra l’élite liberale difronte alle politiche pubbliche attuate dal governo socialdemocratico di Vienna, che inizia nel 1919 e termina nel 1934. Un’esperienza che Cockett racconta in modo avvincente nei capitoli 3 e 4 del libro, muovendosi tra la teoria e la prassi della “Red Vienna”. E quando hai finito di leggerli puoi solo pensare che ciò che prendeva forma fosse un progetto politico che portava a compimento la ‘rivoluzione liberale’ come ‘rivoluzione democratica’.
Una parte dell’élite economica e intellettuale austriaca, orfana delle gerarchie sociali e dei privilegi economici che l’Impero asburgico garantiva, non tollera il progetto progressista che si manifesta a Vienna. Della democrazia radicale – del suo orientamento redistributivo del reddito e della ricchezza, della sua attenzione al benessere individuale e al soddisfacimento dei minimi esistenziali, dell’obiettivo di garantire senza condizioni all’eccesso alla formazione e ai servizi sanitari e altro ancora che il lettore troverà nel libro di Cockett – l’élite austriaca ha paura e si organizza per contrastarla. E lo fa iniziando dalla sfera delle idee: proponendo un’interpretazione del capitalismo che nega ogni valore all’azione collettiva. Fabbrica una teoria economica con la quale crede di aver dimostrato che quasi tutte le azioni collettive possono essere decomposte in azioni individuali regolate da ‘mercati competitivi’ – che sarebbero gli unici dispositivi attraverso i quali gli individui si possono pienamente e liberamente esprimere; gli unici dispositivi che garantirebbero il raggiungimento dell’ordine sociale ed economico.
Erano idee sulla relazione tra capitalismo e democrazia, quelle dei neoliberali del Mises-Kreis, che non potevano trovare ascolto a Vienna, mentre si compiva una rivoluzione democratica. E ancora meno lo avrebbero trovato dopo l’ascesa al potere in Austria e in Europa del Nazi-fascismo, che la democrazia aveva brutalmente cancellato, in tutte le sue forme. Mentre la Seconda guerra mondiale si avviava al suo epilogo, i neoliberali ritornano però sulla scena intellettuale, con le loro idee, temendo che la storia della democrazia europea potesse rincominciare – come poi è avvenuto – da dove si era interrotta: dal modello di democrazia radicale che si era manifestato a Vienna dopo la Prima guerra mondiale, nella sua forma più compiuta in Europa.
Si trattava di un modello di democrazia (e di capitalismo) che stava già diventando concreto progetto politico. Nel Regno Unito con il celebre Rapporto Beveridge (1942), che prefigurava lo ‘stato sociale’ e l’estensione dell’offerta di beni pubblici, con le teorie che mostravano la possibilità di mitigare l’instabilità del capitalismo attraverso l’intervento pubblico, con il ritorno dello ‘sguardo etico’ sulle economie disastrate dalla guerra. E lo diventerà nella Germania del “mercato sociale” di Adenauer e in tutti i maggiori paesi europei – lentamente, faticosamente, convintamente. E sarà “sogno europeo”.
Era un esito che, tra i ‘grandi viennesi’, Joseph A. Schumpeter – in Capitalismo, socialismo e democrazia (1942) – aveva previsto, rassegnandosi. Un esito che gli intellettuali neoliberali non erano, però, disposti ad accettare, e sul finire della Seconda guerra mondiale si organizzano per contrastarlo. Sostenendo che il radicalismo democratico è l’anticamera del comunismo (e, quindi, della schiavitù), si ibridano con le culture politiche reazionarie degli Stati Uniti, trovando l’appoggio dei ‘cold war intellectuals’, che si stavano già schierando per combattere la loro battaglia. E The Road to Serfdom di Hayek diventa il manifesto della lunga marcia che i neoliberali intraprendono, e che li porterà a conquistare il Regno Unito negli anni Ottanta e poi, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’intera Europa.
Possiamo seguire l’appassionante racconto di Richard Cockett su Vienna ‘città delle idee’ e fermarci lì. La risposta a una domanda che nel libro non c’è, ma che la sua lettura fa comunque sorgere, il lettore sarà però spinto a cercarla: perché è accaduto, quale sentiero l’Europa ha seguito per giungere nel 1989, a Berlino, ad accettare la tesi della “fine della storia”? E la storia che si voleva finita era quella iniziata a Vienna nel 1919 – non altre; era quella del compimento del progetto democratico.
Ciascuno può scegliere la strada che preferisce per andare alla ricerca di una risposta, ma tutte le strade passano attraverso il paesaggio che abbiamo imparato a chiamare dibattito pubblico. Un paesaggio che le democrazie liberali non si sono mai preoccupate di mappare e valutare nelle sue manifestazioni storiche e spaziali – nei suoi caratteri qui-ora. Credendo che non fosse necessario hanno continuato a mantenere una sconfinata quanto astratta fiducia nel ‘libero confronto delle idee’, credendo nel rassicurante quanto ingenuo mito proposto da Karl Popper ne La società aperta e i suoi nemici (1945). Come se la dialettica ‘congetture e confutazioni’ operasse in modo spontaneo e con meccanica precisione tanto nel dibattito pubblico quanto in quello scientifico.

Il Capitolo 9, The World Reimagined: War Work and the Open Society, mette in luce come nelle democrazie liberali si rappresenta il dibattito pubblico: si mappano le idee e poi le si osserva mentre si scontrano, si ibridano, evolvono, si affermano o scompaiono dalla ribalta. Il dibattito pubblico come una continua conversazione collettiva condotta rispettando le regole dell’argomentare razionale e sincero – l’ideale habermasiano che diventa realtà. Ma è una rappresentazione che in controluce lascia intravedere il disinteresse per gli effetti reali delle idee che diventano scelte politiche – effetti che nel dibattito pubblico restano sospesi su un orizzonte mai messo a fuoco.
È avvincente il viaggio che Cockett ci fa compiere in questo capitolo, attraverso le idee di una costellazione di grandi intellettuali viennesi. Ma ad un certo punto, proseguendo nella lettura, la vista si apre su un paesaggio che inquieta: compaiono – in una posizione decisiva – il giornalismo e la scienza (sociale) come forze che modellano la formazione dell’opinione pubblica. E vi compaiono come strutture con uno smaccato (ed anche rivendicato) orientamento ideologico. Ci si ritrova a leggere delle enormi somme che per decenni think-tanks (‘gruppi di pressione intellettuale’) come la Foundation for Economic Education (FEE) e il Volker Fund investono per sostenere la diffusione delle idee della Scuola austriaca negli Stati Uniti e in Europa. Delle altrettanto ingenti somme che mettono a disposizione (assieme alla Banca d’Inghilterra!) per finanziare la cattedra di Hayek all’Università di Chicago. Si legge del sostegno dato a think-tanks internazionali, come la Mont Pelerin Society (1947) – che avrà un ruolo decisivo nella diffusione e consolidamento del credo neoliberale nella comunità scientifica internazionale – o come l’altrettanto influente Institute of Economic Affairs (1955), ancora oggi attivo a Londra.
Sono soltanto poche righe quelle che Cockett dedica in Vienna al ruolo svolto dai think-tanks nella diffusione e legittimazione del paradigma neoliberale. Ma non è per reticenza: il tema della funzione dei think-tanks nel processo di formazione dell’opinione pubblica lo aveva già affrontato molti anni fa in un altro libro: Thinking the Unthinkable. Think-tanks and the Economic Counter-revolution, 1931-1983 (HarperCollinsPubliahers, 1994). Una ricostruzione magistrale per precisione e completezza dell’ascesa del paradigma neoliberale nel Regno Unito – condotta, certo, con compiacimento – che dimostra il fondamentale ruolo che i think-tanks – quelli già ricordati, ma altri ancora, come il Centre for Policy Studies o l’Adam Smith Institute – avevano avuto nell’orientare l’opinione pubblica.
Sul finire della Seconda guerra mondiale, mentre la democrazia si apprestava a tornare sovrana, gli intellettuali neoliberali si sono organizzati come una tecno-struttura per diffondere le loro idee, consapevoli che conquistare l’egemonia – ovvero imporre le loro idee sul capitalismo e la democrazia – avrebbe richiesto alcuni decenni. Un compito che hanno intrapreso con ottimismo, coscienti delle risorse economiche che avrebbero avuto a disposizione e certi che la democrazia si governa con le idee. Cockett sembra credere, allora come oggi, che le idee dei neoliberali sulla democrazia e il capitalismo fossero quelle ‘giuste’ e che siano diventate egemoni nell’opinione pubblica al momento ‘giusto,’ mentre il capitalismo stava entrando in crisi e aveva bisogno di un nuovo modello di regolazione, profondamente diverso da quello dei decenni precedenti. E finalmente nel Regno Unito Hayek aveva preso il posto di Keynes come mentore della relazione tra democrazia e capitalismo.
Certo, si può raccontare l’ascesa del paradigma neoliberale come una ‘apoteosi’ se ci si ferma al gioco delle idee; ma la si può raccontare anche come una ‘tragedia’ se si sposta il focus – come si dovrebbe, come la democrazia, anche la più debole, alla fine impone di fare – sulle conseguenze che l’applicazione di quelle idee ha avuto. Se la tua mente non è stata fatta prigioniera dalla teoria economica neoliberale – e credi ancora nel significato dell’evidenza empirica e sei rimasto fedele ai principi del razionalismo critico – l’ascesa del paradigma neoliberale ti apparirà in una luce diversa. Riuscirai a mettere a fuoco il ruolo che hanno avuto i think-tanks neoliberali – strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica, reti di intellettuali ideologicamente orientate, capaci di spostare il dibattito pubblico su un piano nel quale non si incontra mai l’evidenza empirica. E gli intellettuali neoliberali ti appariranno per quello che sono, dei ‘serial evangelists’ – così li ha chiamati Peter Clarke, recensendo il libro di Cockett del 1994 sulla London Review of Books (Vol. 16, n. 12). Che hanno imposto nel discorso pubblico il racconto di un capitalismo immaginario, in grado di sostituirsi alla democrazia in quasi tutte le sue più rilevanti sfere d’azione, rendendola superflua. Un esercizio di egemonia perfettamente riuscito.
Termini la lettura di Thinking the Unthinkable persuaso che non è affatto scontato che nelle democrazie siano le idee buone a prevalere, come credeva Keynes mentre da Eton passava al King’s College di Cambridge e ancorava il suo sentimento alla filosofia morale di George Edward Moore; e come si credeva nel milieu intellettuale di cui era parte. Come hanno continuato a credere le élite intellettuali delle democrazie europee, nonostante l’evidenza empirica indicasse, oltre ogni dubbio, il ruolo che l’ideologia attraverso i gruppi di pressione intellettuale ed economica stava assumendo nella genesi e nella diffusione delle idee sulla democrazia e il capitalismo.
Non si può comprendere la storia della democrazia europea – e le sue crisi – senza capire quanto forte sia stata la paura della democrazia che si è manifestata dopo la Prima guerra mondiale, a Vienna e altrove in Europa, mentre si estendeva, fino a diventare universale, il suffragio elettorale. E mentre si consolidava una teoria sociale come strumento della democrazia. Paura che si è di nuovo manifestata dopo la Seconda guerra mondiale, difronte alla prospettiva che sarebbe rinata una democrazia ancora più consapevole e radicale dopo le tragedie e i dilemmi morali dei decenni precedenti. Infine, non la si piò comprendere senza chiamare in causa la disarmante superficialità che hanno mostrato le democrazie europee perdendo ogni interesse per la cura dell’unico pilastro sul quale si reggono, i fondamenti istituzionali del dibattito pubblico. Interesse che hanno poi perso del tutto nel 1989, a Berlino, mentre cadeva il Muro e iniziava una decisiva battaglia intellettuale – che la democrazia, impreparata, ha poi perso.
