Dazi e caos europeo

8 Settembre 2025

Il 28 luglio ascoltavo “Prima Pagina”, la rassegna stampa di Radio 3. Era il giorno successivo all’incontro tra Donald Trump e Ursula von del Leyen sulle nuove regole delle relazioni commerciali tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, in corso di negoziazione. Il giornalista che conduceva la trasmissione non si scomponeva per quello che riportavano i quotidiani italiani. Leggeva ad alta voce e basta, a beneficio di chi era in ascolto. Leggeva commenti – molte critiche e altrettanti encomi – ed analisi che presentavano l’esito dell’incontro come un accordo. Ascoltavo e non riuscivo a farmi una ragione di ciò che ascoltavo. Sentimento che quella mattina ha provato chiunque avesse – per ufficio, interesse personale o altro – una conoscenza elementare dell’architettura istituzionale dell’Unione europea. Perché affermare che c’era stato un accordo? Per ragioni procedurali un accordo non poteva esserci stato.

L’Unione europea ha ricevuto dai paesi membri – a un certo punto della sua storia – la delega a negoziare le regole delle relazioni commerciali. E nell’assumerla ha stabilito una procedura decisionale che, nelle intenzioni, è in grado di garantire che gli interessi nazionali, grandemente eterogenei, siano rappresentati con equilibrio nei negoziati. Quale fosse questa procedura – da tempo codificata – non sembrava però chiaro alla gran parte dei commentatori e analisti che si esercitavano sui quotidiani del 28 luglio. La foto di Trump e von der Leyen che il giorno precedente conversano, seduti in qualche angolo del resort privato del Presidente degli Stati Uniti in Scozia, mediatizzava la negoziazione attraverso il simbolismo della stretta di mano. Nient’altro. E c’era ben poco da commentare, oltre la scelta, irrituale e inopportuna, del luogo in cui era avvenuto l’incontro.

Il tavolo negoziale era imbastito altrove, e a quel tavolo l’Unione europea era rappresentata dalla Commissione europea, nella figura del Commissario per il commercio internazionale Maroš Šefcovic, – e per ufficio dalla von der Leyen. La negoziazione era condotta sotto la supervisione di un altro organo, il Trade Policy Committee (TPC), del quale fa parte un rappresentante per ogni stato membro. Il mandato conferito alla Commissione europea di avviare la negoziazione sulle regole degli scambi commerciali con gli Stati Uniti si sarebbe concluso con la firma di una ‘dichiarazione congiunta’: il punto di partenza (e non di arrivo) della procedura di approvazione prevista dall’architettura istituzionale dell’Unione europea. La dichiarazione congiunta avrebbe dovuto, infatti, essere trasformata nel testo di un possibile accordo, da sottoporre al Consiglio europeo – il principale pilastro dell’ordinamento istituzionale dell’Unione europea – per essere valutato ed eventualmente approvato, respinto, emendato. L’iter di un accordo commerciale non termina, però, con l’approvazione del Consiglio europeo. Si deve compiere un altro passo ancora: per avere valore giuridico – e vincolare i paesi membri – gli accordi commerciali devono essere approvati anche dal Parlamento europeo.

L’autistico dibattito andato in scena sui quotidiani italiani che ho sentito raccontare a “Prima pagina” il 28 luglio era sconcertante: rumore, confusione e poco altro. Non c’era stato alcun accordo – e neppure una dichiarazione congiunta. E poi l’iter di approvazione dell’accordo non poteva concludersi secondo i tempi dettati dagli Stati Uniti, in tre giorni. Perché parlane e scriverne in quel modo, allora? Certo, gli accordi commerciali sono un tema poco esplorato nel discorso pubblico – offuscato dall’astratta e ideologica retorica liberista che è lì a confondere le idee sin da quando ha preso forma. Ma se gli eventi li fanno emergere dalla penombra nella quale sono stati spinti – ed erano settimane che dalla penombra erano usciti – e si è costretti a parlarne, perché farlo con tanta approssimazione?

La vicenda ha seguito il suo corso, e il 31 luglio gli Stati Uniti hanno introdotto unilateralmente dazi al 15 per cento sulle importazioni dall’Unione europea, in vigore dal 7 agosto. Platealmente disinteressati alla procedura di ratifica degli accordi commerciali che l’Unione europea deve seguire e altrettanto platealmente disinteressati alla negoziazione in corso. Il tema è comunque subito scivolato via dall’affollato palcoscenico mediatico italiano e internazionale, già ingombro com’era dai ben altri drammatici detriti e dilemmi etici. Poi, il 21 agosto è ritornato improvvisamente sulla scena, quando è arrivata la notizia che, sì, finalmente dal tavolo negoziale era uscita l’attesa dichiarazione congiunta.

Soffermandosi sul suo contenuto, uno dei più autorevoli giornalisti italiani, Ferruccio De Bortoli, ha espresso in modo lapidario la sua valutazione sulle pagine del “Corriere della Sera” (23 agosto): “... una capitolazione commerciale che andrebbe spiegata ai cittadini.” Si lascia anche andare a un amaro sarcasmo non solo sul contenuto della Dichiarazione congiunta, ma anche sull’enfatico entusiasmo con la quale Ursula von der Leyen e Maroš Šefcovic hanno pubblicamente presentato l’esito della negoziazione, e scrive: “Mancava solo, da parte europea, un sentito ringraziamento per tutti i favori concessi e il rammarico di non aver chiesto prima, ai predecessori di Trump, il privilegio di poter pagare qualche dazio in più. L’incontenibile gioia di essere tassati per far contento (lo sarà mai?) il nostro principale alleato occidentale.” La Dichiarazione congiunta del 21 agosto, in effetti, è solo un elenco di ‘condizioni’ dettate dagli Stati Uniti all’Unione europea – alcune già in essere, come i dazi, altre già anticipate all’opinione pubblica, come i vincoli quantitativi e qualitativi sui traffici commerciali. È però un fatale errore presentarla come una ‘capitolazione. Non lo è ancora perché la Dichiarazione congiunta non è un accordo. L’iter di approvazione di un eventuale accordo basato sui suoi contenuti non è neanche iniziato: la bozza di accordo non è stata preparata e non è ancora né su tavolo del Consiglio né sugli scanni del Parlamento. Nell’interpretare la Dichiarazione congiunta come una ‘capitolazione’ si assegna alla Commissione europea un ruolo e un potere che non ha, e si legittima l’idea, sbagliata, che essa avesse l’autorità di concludere un accordo.

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Nelle stesse ore nelle quali veniva presentata la Dichiarazione congiunta nei modi appena descritti, il Parlamento europeo depositava un ricorso alla Corte di giustizia contro il Consiglio europeo, che il 27 maggio scorso aveva approvato il Security Action for Europe (SAFE) – strumento finanziario necessario per realizzare l’iniziativa ReArm Europe 2030 – escludendo dalla decisione il Parlamento europeo. Di fatto, era un ricorso contro la Commissione, la quale, invocando l’urgenza del provvedimento – in tutta evidenza inesistente considerando che la spesa prevista si dovrà realizzare in cinque anni –, aveva invocato una procedura di approvazione accelerata. Non una forzatura occasionale delle regole, bensì la manifestazione di una generale strategia di rafforzamento del potere della Commissione europea. Così il Parlamento europeo aveva valutato la sua decisione, ostinatamente difesa da Ursula von der Leyen. Un abuso di potere, su un tema – il riarmo – di enorme rilevanza reale e simbolica.

La mediatizzazione della Dichiarazione congiunta, presentata come l’inizio di una nuova era nella collaborazione economica tra Unione europea e Stati Uniti, rende di fatto superfluo procedere nell’iter di approvazione. D’altra parte, non è facile giustificare l’approvazione formale di un accordo i cui termini sono in gran parte già operativi per decisione unilaterale degli Stati Uniti. E non è neanche necessario. Se si tratta di riconoscere – come si legge nella Dichiarazione congiunta – “the concerns of the United States” e mostrare “our joint determination to resolve our trade imbalances” – non occorre fare altro che accogliere senza proteste o contromisure le decisioni unilaterali degli Stati Uniti. D’altra parte, perché completare l’iter?  Il Parlamento europeo si può permettere una palese ‘umiliazione politica’ approvando un accordo con i contenuti della Dichiarazione congiunta, dettati uno per uno dagli Stati Uniti? Certamente non se lo possono permettere i governi dei singoli paesi sullo sfondo del consenso elettorale che hanno raggiunto, in gran parte dei paesi europei, le culture politiche antieuropeiste.

In questa nebbia di false narrazioni, di capitolazioni immaginarie e reali, di pseudo-accordi e decisioni unilaterali non resta che ricorrere al solito rito per ritrovare la strada. Se hai la fortuna di avere tempo – per età o altre ragioni – e qualche libro fondamentale lo hai conservato, non resta che tirarlo giù dallo scaffale, sedersi in poltrona e iniziare a sfogliarlo, rileggendo qualche frase che vedi sottolineata. Ti puoi ritrovare tra le mani Traffici e mercati negli antichi imperi (Einaudi 1978), esito della ricerca che Karl Polanyi ha condotto e coordinato nella seconda metà degli anni Cinquanta quando insegnava negli Stati Uniti; oppure, National Power and the Structure of Foreign Trade (1945) di Albert O. Hirschman. Ma hai solo l’imbarazzo della scelta tra libri che potresti aprire e che ti confermerebbero una semplice verità: non sono i mercati competitivi a regolare il commercio internazionale. Non lo sono mai stati nella storia delle relazioni tra stati, tra stati e imperi, tra imperi e imperi, e non lo sono mai stati nella storia del capitalismo. Sono le regole negoziate e continuamente rinegoziate tra stati nazionali (o unioni di stati nazionali) – con accordi informali o formali – a vincolare e orientare il commercio internazionale. Gli stati nazionali non possono perderne il controllo, e usano tutti gli strumenti a disposizione – dai dazi ai vincoli quantitativi ai tassi di cambio ed altro ancora – per mantenerli in equilibrio. E l’asimmetria di potere economico, militare e mediatico – della quale gli Stati Uniti si sono costantemente avvalsi – è lì ad esercitare un ruolo decisivo quando gli stati negoziano, impongono o violano accordi e pratiche commerciali, alla luce del sole o nell’ombra.

Mentre leggi ti torna alla memoria qualche episodio della lunga e suntuosa storia del protezionismo americano – del modo che da sempre gli Stati Uniti hanno di interpretare le relazioni commerciali e che, certamente, non è iniziato con la prima (e seconda) presidenza Trump. Ti torna alla memoria uno dei ‘Padri fondatori’ degli Stati Uniti, Alexander Hamilton – un eroe nel pantheon dei liberali e dei federalisti europei. Mentre finiva la Guerra di indipendenza, all’inizio della sua carriera politica – sarebbe diventato Ministro del Tesoro nel 1789, nel governo del primo presidente George Washington – rivendicava già il protezionismo come un paradigma irrinunciabile per uno stato nazionale. Paradigma che diventerà parte costitutiva dell’eccezionalismo americano, nella formulazione con cui Washington lo codifica negli anni della sua Presidenza. Ed è ancora lì a servire l’obiettivo di sempre: ‘America first!’.

Negli Stati Uniti il paradigma protezionista prenderà via via forme diverse. Ed è una storia di decisioni unilaterali, fino a quella forse più nota e clamorosa, sulla quale si dovrebbe tornare a riflettere perché è stata una cesura che ha segnato un’epoca, quella in cui ancora viviamo: la fine della convertibilità Dollaro-Oro come stabilita agli Accordi di Bretton Woods nel 1944 decisa unilateralmente dall’amministrazione Nixon il 15 agosto 1971. Decisione che ridefiniva la base economica del dominio geopolitico degli Stati Uniti, aprendo una nuova era nelle sue relazioni commerciali e nel suo modello di crescita economica. Sullo sfondo della storia economica e politica degli Stati Uniti non c’è niente di nuovo nel protezionismo dell’Amministrazione Trump, nella brutalità imperiale con la quale cercano ora – come hanno sempre fatto dalla fine della Seconda guerra mondiale – di rimodulare a proprio vantaggio i traffici commerciali internazionali. Di nuovo c’è che, per la prima volta nella loro storia, temono di non riuscire più a mantenere il dominio economico e mediatico. Sempre più difficile farlo – oramai forse impossibile – in un contesto geo-economico che sta radicalmente cambiando, mentre nuovi paesi – in virtù della loro dimensione demografica e della forza che la loro economia ha raggiunto – cercano, trovandolo, il proprio spazio nella divisione internazionale del lavoro e nel sistema degli scambi commerciali.

Non c’è niente di nuovo neppure nel caos in cui si trova il cantiere dell’Unione europea. Caos che è, poi, all’origine dello sconclusionato negoziato in corso con gli Stati Uniti e dell’incoerente retorica con la quale si prova a giustificarne l’esito. Un cantiere ridefinito nella sua missione, in fretta e furia, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989: era arrivato il momento di invertire la rotta, ora si trattava di de-costruire l’edificio che si era sin lì costruito, di archiviare il ‘sogno europeo’. A lavoro praticamente compiuto – svuotate di senso le istituzioni europee, corrotta la lingua con la quale viene raccontata la sua azione – non si sa, però, come chiudere il cantiere, a chi fare la ‘consegna lavori’. Non si sa come giustificare la metamorfosi dell’Unione europea, l’abbandono dei principi sui quali si fondava il suo progetto. E come giustificare che non la ‘transizione ecologica’, bensì il riarmo – che è, poi, il riarmo degli stati nazionali – è ora la sua ragione di esistenza.

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