Zoe Leonard: il fiume del nostro scontento

31 Gennaio 2024

Immagini sottotono che vanno sottopelle, rimangono nel ricordo come un’eco difficile da dimenticare. Parliamo delle fotografie del progetto Al Rio/to the River di Zoe Leonard (Liberty, New York, 1961), una delle più importanti artiste della sua generazione, attualmente in mostra (fino al 9 marzo 2024) alla Galleria Raffaella Cortese di Milano, con cui collabora dal 2001. Si tratta di una selezione significativa e ragionata delle più di cinquecento immagini che compongono l’intero progetto presentato nel 2023 presso il Museum of Contemporary Art di Sidney e, nel 2022, al MUDAM di Lussemburgo e al Musée d’Art Moderne di Parigi. Il progetto è dedicato al fiume che, per quasi duemila chilometri, segna la frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico: un lungo fiume con due nomi e (forse) due cuori: Rio Grande, come lo chiamano gli americani e Rio Bravo (cioè “fiume selvaggio”) come invece è denominato in Messico. Lunga, lunghissima frontiera d’acqua che Zoe Leonard ha fotografato in anni di lavoro (dal 2016 al 2021), fra El Paso, in Texas, e Ciudad Juárez in Messico, per poi raggiungerne la foce, nel Golfo del Messico dove sfocia. Certo, un tema incalzante ma anche scontato, quello della frontiera tra Stati Uniti e Messico, perché proposto quasi quotidianamente dai media, impegnati a ricordarci il dramma costante dei migranti che dal Centro America cercano (spesso invano) di superare il confine statunitense, difeso da un muro poderoso di più di mille chilometri, da migliaia di guardie di frontiera e soprattutto dal deserto del Texas, dove molti di loro, disidratati e sfiniti, muoiono di fame o di sete o per il morso di un serpente. 

Dunque un tema purtroppo prevedibile, si potrebbe dire. Senonché la nostra autrice affronta tali luoghi e situazioni divisive in modo nuovo, con un meditativo e diretto bianco e nero. Si confronta certo con la questione della frontiera e degli aspetti ambientali, sociali e politici che ne conseguono, solo che lei si mette dalla parte di questo grande fiume, prende per così dire le sue parti. Dunque il grandioso Rio: un elemento naturale, legato al paesaggio e alla vita di contadini che per secoli l’hanno attraversato liberamente, ma che poi è stato trasformato in un confine, ridotto a elemento di separazione, a qualcosa d’innaturale, perché “ingabbiato” dall’uomo che ne ha modificato il flusso, riprogettato il corso. Già dagli anni Trenta, infatti, e poi negli anni Sessanta, in buona parte il fiume è stato infatti irreggimentato e trasformato in una sorta di canale rettilineo che di conseguenza non può più modificare il percorso, creare meandri, esprimere la sua incontrollabile vitalità. Anni fa, a New York, Zoe Leonard aveva fotografato da vicino tronchi di alberi feriti e deformati da grate o strutture metalliche: entità vegetali che, per quanto ingabbiate crudelmente, riuscivano però a crescere ancora, a espandersi malgrado tutto, inglobando le gabbie che le imprigionavano. Oggi invece, sporgendosi dal Puente Colombia, eccola offrirci una veduta del fiume potente e proteso verso l’infinito, ma al contempo costretto in una linea retta, in un gigante offeso dall’ambizione umana di dominare e sfruttare la natura, così da sottolineare la sua nuova, aggressiva e offensiva identità di precisa, immodificabile frontiera. Se, a uno sguardo non consapevole, l’immagine si offre in apparenza come una veduta paesaggistica serena e agreste, di fatto è già indicativa di un qualcosa di nascosto, di sottilmente inquietante. Il Rio Grande che lei ci mostra, infatti, non svolge più la sua antica funzione d’interazione e connettività con la pianura circostante, non crea più isole e anse con vegetazione sparsa, dove gli uccelli potevano creare i loro nidi, non può più modificare il suo corso con il volgere delle stagioni, tra il tempo delle siccità e delle piene.

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Zoe Leonard, From the Puente Colombia, 2017/2022. Photo Andrea Rossetti/Héctor Chico. © artist e Galleria Raffaella Cortese.

In una serie d’immagini – Prologue section – l’autrice fotografa il fiume dall’alto e da vicino, dedicando la sua attenzione solo all’acqua, ai suoi gorghi e mulinelli, alla sua consistenza, alla sua “pelle” corrugata e traslucida. Già il titolo della serie è indicativo: lei è partita da lì, il Prologo è costituito dal suo rapporto intimo e diretto con l’acqua; poi ha seguito il fiume come un amico obbligato a trasformarsi in un’entità duale, divisiva, contrapposta e contraddittoria: un confine permeabile per il passaggio delle merci, ma non per le persone, fermate, bloccate, imprigionate o rispedite indietro. L’acqua, sembrano dirci le sue immagini, dovrebbe essere prima di tutto un elemento naturale, che è in relazione con la nostra vita, con il suo habitat, tra flussi, scorrimenti, debordamenti. Devo ammettere a questo punto un coinvolgimento personale. Abituata da anni a osservare l’Adige dal ponte tra Rovereto e Isera, cioè in un punto dove il fiume è stato ristretto, modificato e in parte canalizzato come il Rio Grande, è come se io, in quelle immagini di Zoe Leonard, rivedessi tra America e vecchia Europa, la stessa acqua impetuosa, impossibilitata a espandersi tra anse e meandri, ma costretta soltanto a scorrere furiosa e rapida verso la pianura. Le piene e le secche dell’Adige (sempre eccessive, in seguito alle canalizzazioni) mi opprimono, mi allarmano ogni volta, anche se il mio incanto per quel fiume non diminuisce. E lo stesso senso di oppressione e fascinazione lo provo di fronte alle immagini che Zoe Leonard ha dedicato invece al “suo” fiume. Perché? Perché tali fotografie – un po’ come quelle che lei aveva dedicato agli alberi di New York – sono segnate sì da un qualcosa di malinconico e crudele; al contempo però si fanno portatrici della forza, della resistenza e dell’insistenza stessa dell’acqua del fiume nel voler continuare a scorrere. 

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Zoe Leonard, Prologue section 6, 2017/2022. Photo Andrea Rossetti/Héctor Chico. © artist e Galleria Raffaella Cortese.

Ancor più sottilmente inquietanti, seppur prive di ogni sottolineatura drammatica, sono le più di trenta immagini di piccole dimensioni della serie From the Ebanos Crossing, raffiguranti un elicottero della polizia di frontiera degli USA, che sorvola e controlla il territorio vicino alla riva del fiume. Sebbene lei si trovi abbastanza lontano, il suo sguardo è come calamitato da questo elicottero, simile a un uccello del malaugurio che gira alla ricerca di una preda. Anche qui, le sue fotografie non mostrano nulla di direttamente tragico, ma basta la presenza dell’elicottero che scivola vicino, sopra gli alberi, per poi riapparire alto nel cielo, senza mai scomparire, a suggerirci un disturbante e minaccioso effetto di sorveglianza cui è difficile sottrarsi. E infatti lei segue fotograficamente il volo dell’elicottero come per un proprio moto spontaneo, non riesce a dimenticarlo, preferisce sfuggire alla logica della bella inquadratura, per sottolineare invece l’esperienza di persona con gli occhi sempre fissi in alto, perché dall’alto sembra che qualcuno continui a guardarla minaccioso. Anch’io, anni fa, quando ero in visita a un isolato sito archeologico dell’Irlanda del Nord (era prima che fosse siglato il trattato di pace del Venerdì Santo), mi trovai inaspettatamente, improvvisamente sorvegliata da un elicottero dell’esercito britannico che volteggiava insistente sopra di me, come per capire se fossi un soggetto pericoloso. Ebbene, nonostante la mia evidente “innocenza”, non riuscivo a distogliere lo sguardo dall’elicottero, a sentire violata la mia intimità, ad avvertire un senso irragionevole di paura e inquietudine. Non lo fotografai proprio perché temevo il peggio, ma continuai, come Zoe Leonard, a seguirlo con lo sguardo, come calamitata dalla sua presenza che spezzava l’incanto del paesaggio, ne cambiava la percezione e lo trasformava in un teatro di guerra, nascosto eppure incombente. 

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Zoe Leonard, From the Los Ebanos Crossing, 2019-2021. Photo Andrea Rossetti/Héctor Chico. © artist e Galleria Raffaella Cortese.

Che l’intento dell’autrice sia quello di creare una sorta di contrasto-contraddizione tra la natura, il fiume e la logica antitetica della frontiera, appare evidente anche in altre immagini. In From the Puente el Porvenir lei ci mostra, proprio nel centro dell’inquadratura un albero solitario. Davanti ad esso si estende un terreno desertico, solcato dalle impronte precise di pneumatici che paiono andare e venire proprio di fronte a lui; alle sue spalle invece si staglia il muro invalicabile di metallo che divide Messico e Stati Uniti. In From the Middle of the Bridge, siamo sul ponte che scavalca il fiume, il quale in effetti si apre sullo sfondo, per fluire da lì verso l’orizzonte. Ma in primo piano, osservato frontalmente, ecco stagliarsi un modesto cartello incorniciato, segnato nel mezzo da una semplice linea verticale. A destra appare la scritta “Limite de los Estados Unidos Mexicanos”; a sinistra invece “Boundary of the Unided States of America”. Dunque ci troviamo proprio lungo la linea mediana del fiume, come se metà di noi fosse ancora in Messico e l’altra metà negli Stati Uniti. Immagine silenziosa, dimessa, eppure con un che di perturbante. Vedendola verrebbe da citare La banalità del male di Hannah Arendt, tanto questo cartello appare preciso come un comando violento che però s’impone con fare anonimo, umile e trascurabile, però inaggirabile. Sappiamo infatti che questa semplice, un po’ malconcia linea verticale costituisce davvero una terribile linea di separazione che continua a determinare la morte o l’arresto di migliaia di persone nel tentativo disperato di entrare negli Stati Uniti e cambiare la propria vita. 

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Zoe Leonard, From the middle of the bridge, 2017/2022. Photo Andrea Rossetti/Héctor Chico. © artist e Galleria Raffaella Cortese.

Nelle foto di Zoe Leonard non c’è retorica: lei non va alla ricerca dei drammi umani creati da questa frontiera sempre più militarizzata, controllata da telecamere a infrarossi, droni e radar. Si limita volutamente a registrare con precisione gli aspetti visibili del fiume, del confine e del paesaggio umano o naturale che lo circonda: monumenti, muri, posti di blocco, punti fluviali di passaggio, ponti circondati da matasse di concertine (nuovo tipo di filo spinato costituito da piccole lame taglienti che richiede poco tempo per la messa in loco ma ha un effetto deterrente maggiore), campi sorvolati da stormi di uccelli… «Ho sempre cercato di raggiungere una forma semplice di linguaggio, come quella di Hemingway», ha dichiarato l’artista in una sua intervista ad Artforum in cui citava anche Paul Strand e Walker Evans quali suoi autori di riferimento. Come nei lavori degli autori da lei citati, anche il linguaggio di Zoe Leonard è asciutto, aderente alle cose, riflessivo, evocativo sì ma senza fughe romantiche o drammatiche. Un linguaggio contemporaneo, certo, ma anche legato al passato della fotografia: lei fotografa quasi esclusivamente in bianco e nero, senza cercare di rendere perfette le sue immagini con interventi di post-produzione, anzi lasciando deliberatamente alcune imperfezioni nella stampa. Inoltre, come facevano molti fotografi negli anni ‘60-’70, segna con un’inattuale, sottile riga nera il bordo di ogni inquadratura: crea così una sorta d’instabile e contradditorio dialogo temporale tra passato e presente. Anti-formaliste, anti- estetizzanti, esposte con semplici chiodini senza cornici, con un formato normale, né troppo grande né troppo piccolo, le sue immagini – sostiene il critico e curatore Urs Stehel – sono opere di «Fotografia Povera, o meglio un tipo di Arte Povera della fotografia». Nel loro voluto minimalismo fanno riflettere anche sul medium stesso, sul suo essere un’inquadratura del mondo, sia in senso letterale sia metaforico. Tale voluto “poverismo” ci ricorda che, come sosteneva Maurice Merleau-Ponty, «non c’è visione senza schermo». Uno schermo – quello fotografico – che l’autrice ci mostra evitando ogni illusionismo. Anche grazie alla riga nera dell’inquadratura, è come se lei ci dicesse: “queste sono solo fotografie”. Ma c’è di più. Proprio nel loro essere immagini semplici, dirette, documentarie, le sue opere mettono in luce l’enigma della visibilità e della fotografia: la sua impossibilità a “raggiungere” davvero la realtà e al contempo la sua capacità di «essere superficie di una profondità inesauribile» (sempre Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile). Un aspetto, quest’ultimo, evidenziato anche dall’allestimento rarefatto, quasi meditativo, della mostra della Galleria Raffaella Cortese. Vi troviamo infatti una serie d’immagini, accostate le une alle altre, spesso scattate dallo stesso luogo, forse addirittura dal medesimo punto di vista, che suggeriscono minimi cambiamenti nel fluire del tempo. Una temporalità che si rifiuta di presentarsi sotto la forma dell’attualità, ma si dilata, diviene simile a un’attesa sospesa nel ritmo dell’esperienza. Assieme ad esse, ma non vicine, sono esposte foto singole, spesso frontali, circondate dal bianco delle pareti, dunque una superficie neutra che agisce come un vuoto. E proprio tale biancore privo di contenuti porge alla vista le immagini facendole emergere da un silenzio senza enfasi. Tali fotografie funzionano come punti di sosta che sono anche punti interrogativi: ci chiedono di fermarci davanti a loro e, nella loro voluta semplicità, nel loro sottrarsi a ogni suggestione o rimando visivo, si offrono mute allo sguardo. Ebbene, è proprio questo loro apparente mutismo, questa loro datità, a trasformarle in presenze fatte per essere osservate con insistenza, nella stratificazione insondabile dei loro significati. Sono soglie verso un pensiero possibile. Un pensiero a cui noi siamo invitati e che loro ci indicano con insistenza, senza però dire nulla.

Zoe Leonard Al Rio/To the River
Galleria Raffaella Cortese, via Stradella 1-4-7, Milano
fino al 9 marzo 2024
Catalogo in inglese composto da due volumi, uno con le immagini di Zoe Leonard, l’altro con testi a cura di Tim Johnson, Haje Cantz Verlag, 2022, pp. 592, € 74. 

In copertina, Zoe Leonard, Beside Boundary Marker I, 2020/2023. Courtesy of the artist and Galleria Raffaella Cortese. Photo Héctor Chico/Andrea Rossetti.

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