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Mohamed Bourouissa, fotografo delle banlieue

18 Giugno 2025

La fotografia è davvero strana: può essere sfuggente, cangiante o così metamorfica da cambiare significato anche solo spostandola da una collocazione a un’altra. Di quest’ultima mutante capacità è un esempio evidente la serie Shoplifters (2014) dell’artista franco-algerino Mohamed Bourouissa, nato nel 1978 e apprezzato a livello internazionale, tanto da aver esposto in musei come il Pompidou di Parigi e lo Stedelijk Museum di Amsterdam. Con tale opera, e anche con l’inedita serie Hands (2025), si apre Communautés. Projects 2005-2025: la sua più grande personale mai realizzata in Italia (Fondazione MAST, Bologna, a cura di Francesco Zanot, fino al 28 settembre 2025). Proteso a riflettere su temi che affrontano il rapporto sempre più complesso tra individui e società, con Shoplifters l’autore, grazie a un semplice “spostamento” di luogo, sovverte e rovescia il senso di un gruppo di fotografie. Che cosa fa infatti Bourouissa? Riproduce e propone in mostra esattamente le stesse immagini, sgranate e realizzate con una Polaroid, che aveva visto esposte in un minimarket di Brooklyn. Il proprietario, come monito contro altri eventuali furti, aveva infatti creato e messo in vetrina una collezione di ritratti di persone sorprese a rubare nel suo negozio e fotografate assieme alla loro povera refurtiva: due detersivi, uova, biscotti, formaggi, cibi in scatola… Già solo per aver cambiato la sede della loro esposizione (dalla vetrina del minimarket a una Fondazione come il MAST) l’autore modifica radicalmente il messaggio di tali immagini: da crudeli e colpevolizzanti (come volevano essere nelle intenzioni del negoziante) si rovesciano infatti in una forte denuncia contro la violenza e la miseria di una società dove i più umili non solo sono costretti a rubare “quattro uova” per sopravvivere, ma vengono pure fotografati ed esposti agli sguardi di tutti i passanti per fungere come monito contro nuovi furti. Tali immagini ignobili, nate per scopi “dissuasivi”, si trasformano così in un’opera forte e sovversiva, capace di denunciare la violenza della nostra società e le sue diseguaglianze sociali, dove un’ampia parte della popolazione vive in condizioni di povertà ed esclusione sociale anche a causa di lavori sottopagati e precari. Difficile allora non provare empatia di fronte agli sguardi di questi ladri per necessità, spesso anziani e di colore, un po’smarriti e angosciati; difficile non avvertire la durezza di quel negoziante, esasperato però dalle ripetute ruberie perpetrate nel suo negozio. A Brooklyn si mostravano e si mettevano alla gogna dei poveretti con la loro refurtiva; al MAST si mettono in luce i bisogni e il disagio sociale.

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Shoplifters Series of 19 color photographs, inkjet print, variable sizes© Mohamed Bourouissa ADAGPCourtesy of the artist and Mennour, Paris.

Tutte le opere di Bourouissa esplorano infatti, con modalità ogni volta diversa, i rapporti di potere che dominano le comunità emarginate o sottorappresentate: un lavoro, il suo, portato avanti come artista schierato sempre dalla parte dei marginali, spesso interagendo con loro e coinvolgendoli nei progetti stessi. Con Pèriphérique (2005-2008) – la prima opera che gli ha dato ampia visibilità nel mondo dell’arte – il nostro autore mostra la vita nelle banlieue francesi dopo le rivolte dell’autunno 2005. Sommosse – ricordiamolo – che erano partite dai sobborghi più poveri e socialmente degradati alla periferia di Parigi, nell’Île-de-France, per poi espandersi a quelli di altre città francesi, tra cui Marsiglia, Strasburgo, Lione e Tolosa, fino a essere arginate solo con la proclamazione dello stato di emergenza e del coprifuoco. Tali rivolte avevano evidenziato come le banlieue fossero state ridotte a squallidi ghetti, a dormitori per immigrati del Maghreb e dell'Africa Occidentale, mai pienamente integrati nella società francese e divenuti una sottoclasse per la quale disperazione e discriminazione costituivano la norma. Per raccontare fotograficamente tali sommosse, ma anche per denunciare il degrado sociale e la vita quotidiana nelle banlieue, Bourouissa ha volutamente creato delle “belle” fotografie, frutto di studiate messe in scena. Opere in cui cita – rovesciandone ancora una volta il senso – soprattutto quadri della pittura neoclassica e romantica del periodo coloniale francese, da Ingres a Delacroix. Ma con quali effetti, su noi che oggi le guardiamo?

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Hands #27 Photo Louis Rémi © Mohamed Bourouissa ADAGPCourtesy of the artist.
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Hands #34 Photo Louis Rémi© Mohamed Bourouissa ADAGPCourtesy of the artist.

Certo l’impressione visiva immediata, più che rimandarci a tali quadri ottocenteschi, ci evoca gli esiti della staged photography e del suo indiscusso maestro, il canadese Jeff Wall. Però, attenzione: nella maggior parte dei casi tali fotografie, costruite come perfette scenografie, mettono in scena situazioni già in precedenza ideate: gli autori impegnati nella staged photography, infatti, invitano i protagonisti a fare gesti o a prendere le posture volute, proprio come se fossero gli attori di un tableau vivant. Ma nel caso di Bourouissa non è propriamente così. Egli infatti, con quelle stesse persone delle banlieue, con cui da giovane aveva magari dipinto sui muri del quartiere, ricostruisce situazioni che conosce, che loro stessi hanno vissuto o stanno vivendo. Così facendo, li coinvolge direttamente nelle sue opere e restituisce loro un ruolo non più di semplici figuranti, bensì di protagonisti in prima persona, di testimoni delle loro azioni passate o della loro realtà attuale. E noi in questo modo ci sentiamo interpellati, coinvolti, invitati a conoscere e a interrogarci su un mondo che non conosciamo. Quanto a Bourouissa, qui non svolge certo la parte dell’artista distaccato: piuttosto, fa “comunità” con i suoi soggetti, si mette in gioco in un rapporto paritario di complicità e dialogo, evitando di proporsi come un creatore artistico esterno. Lui ci racconta la realtà della banlieue ricreandola assieme a chi vi abita, così da realizzare stranianti e splendide immagini, tanto più spiazzanti anche grazie alle volute citazioni artistiche ottocentesche cui rimandano. Dall’esotismo del Nord Africa di Eugène Delacroix si passa così alla cruda e quotidiana realtà della vita da immigrati di quelle mitizzate persone del Maghreb. Per sottolineare poi in modo metaforico, ma immediato, come tali persone siano talmente ghettizzate da ritrovarsi come premute dietro una rete invalicabile, con la serie inedita Hands (2025) Bourouissa recupera immagini di serie precedenti o porzioni di esse per comporre stratificati tableau luminescenti sul cui fondo s’intravede una vera e propria griglia metallica, simbolo di controllo e oppressione. Ispirate da una frase del drammaturgo francese Antonin Artaud – «La griglia è un momento terribile per la sensibilità e la materia» – tali opere, in cui sovrappone quasi uno sull’altro volti, dettagli di corpi e di mani, creano un forte senso di tensione, evocano una sorta di «lotta silenziosa che oppone espressione individuale e coercizione sociale» – come scrive il curatore Francesco Zanot. Una lotta sottolineata anche dalla forza e dall’ambiguità di simili opere, giocate tra presenze che emergono ma paiono al contempo venire reinghiottite dal magma visivo che si scontra con la coercizione delle barriere metalliche.

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Horse Day, 2014Color photograph, Photo by Lucia Thomé © Mohamed Bourouissa ADAGPCourtesy of Mennour Archives, Paris.

Cuore dalla mostra è però l’opera Horse Day (2013-2019), dove risulta ancora più evidente come Bourouissa sia un artista interdisciplinare, capace di combinare la ricerca artistica con il potere trasformativo dell’impegno sociale così da creare situazioni d’incontro e condivisione. In un sobborgo di Philadelphia, il nostro autore scopre una sorta di “scuderia sociale”, di “maneggio alternativo”, frequentato da una comunità di afroamericani: il “Fletcher Street Urban Riding Club”, nato per offrire ai giovani del quartiere un’alternativa all’emarginazione, coltivando la loro passione per l’equitazione. Bourouissa, come suo solito, non si limita a guardare e fotografare: scherzosamente si potrebbe dire che “si dà all’ippica”, coinvolge infatti la comunità dei giovani “cavalieri” e organizza una gara equestre con tanto di premi da lui creati e parata di cavalli addobbati nei modi più creativi dai frequentatori del maneggio. L’idea di fondo è quella di mettere in discussione, o di decostruire, il tipico immaginario del cowboy bianco, coltivato dai vecchi film sulla mitica conquista del West: un genere nel quale erano esclusi eroi “di colore”. I buoni infatti erano tutti rigorosamente “visi pallidi”, non sempre belli ma immancabilmente bianchi, tanto da non abbronzarsi neppure sotto il sole cocente del West; giusto i latini, i meticci, i messicani dato che risultavano un po’ brunetti potevano fare la parte degli infidi e dei truffatori; mentre i nativi, i “pellerossa”, venivano “giustamente” massacrati…

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Ride Day #2, 2019Silver print on car body parts, print on Sublichrome, galvanized steel, rivets, car paint, spray paint, varnish, horse blanket, digital print on horse blanket, horse bit, stirrup and steel frame227,3 x 633,7 x 66,7cm© Mohamed Bourouissa ADAGP Courtesy of the artist and Mennour, Paris.

Sempre all’insegna di un’arte partecipativa, l’autore, con la sua troupe improvvisata, crea e poi filma sia la competizione-performance, sia i suoi preparativi, tra scherzi e gare a chi decora meglio il suo cavallo, tra gualdrappe fatte con cd luccicanti sotto il sole o lunghi nastri di plastiche colorate e svolazzanti. Due dei protagonisti, tanto per ridere un po’, si chiedono pure: «Ma John Wayne sarà stato davvero bianco? Nooo, era nero, ne sono sicuro!». E poi via, parte la gara e il filmato procede a sua volta al galoppo, con musiche da vero western glorioso. Il risultato è un’opera destabilizzante, che decolonizza e smonta l’immaginario americano dell’epica conquista del West, con le sue vaste praterie. Osservando il viso di uno dei suoi giovani attori riflesso sul cofano di un’auto, l’artista si rende però conto – così racconta lui stesso – di come la nostra visione degli afroamericani, nonostante ogni nostro sforzo antirazzista, risulti comunque distorta e deformata: il nostro immaginario, infatti, rimane almeno in parte, inconsapevolmente razzista; oppure, tutto all’opposto, assume una posa esaltatoria nei confronti degli afroamericani e autocolpevolizzante nei nostri confronti. Con risultati però forzosi e artificiosi. Perché non c’è nulla a fare: il nostro immaginario nei confronti dei neri è infatti segnato da secoli di una storia divisiva e discriminatoria.

A partire da tale constatazione, ed essendo lui sempre disponibile a sperimentare linguaggi artistici diversificati, Bourouissa crea allora delle vere e proprie “sculture fotografiche”. In bianco e nero stampa infatti, su portiere e cofani di auto, varie immagini dei suoi “cavallerizzi” o di frequentatori della scuderia. Il tutto creando contorti e stratificati assemblaggi, dove convivono veri decori dei cavalli, ritratti fotografici e lamiere di carrozzerie. Così facendo, eleva i suoi soggetti a figure iconiche, a inaspettati cavalieri del West, che paiono emergere dal passato come ombre e ricordi per imprimersi in una contemporaneità post-atomica, fatta di automobili accartocciate e obsolete, pronte per essere sostituite da droni e quant’altro l’intelligenza artificiale riuscirà mai a inventare. Se il documentario di Horse Day ci racconta la “verità” di uno spettacolo tra arte e antropologia, tra gioco e politica, gli assemblaggi che lo accompagnano rivelano nuovamente come la fotografia possa non solo essere ben incorniciata, ma anche divenire una scultura, possa offrirci sguardi nuovi sospesi tra passato e presente, tra nostalgia di un mito e messa in discussione del mito stesso. E magari ridarci pure l’illusione che sì, davvero, John Wayne era un nero.

In copertina, La République, 2006, C-print, 137 x 165 cm © Mohamed Bourouissa ADAGP, Courtesy of the artist and Mennour, Paris.

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