F.S. Fitzgerald: bello, dannato e incompiuto
Quando Francis Scott Fitzgerald frequentava il Ritz di Parigi, negli anni Venti, Georges era un giovane chasseur, uno dei tanti bell boy incaricati di accompagnare i clienti in stanza e occuparsi dei loro bagagli. A quel tempo, lo scrittore americano faceva parte di quella folta colonia di artisti e intellettuali che avevano scelto la capitale francese come rifugio creativo e luogo d’eccessi. Molti anni più tardi, quando la Grande guerra era ormai alle spalle e Georges era divenuto capo barista del Ritz, le domande dei clienti su Fitzgerald iniziarono a moltiplicarsi: tutti sembravano interessati a ricostruire idealmente le tracce dello scrittore in quel luogo simbolico.
Eppure Georges, che si vantava di ricordare con precisione ogni frequentatore abituale dell’hotel in quegli anni, non riusciva a richiamare alla mente il volto né la presenza di Fitzgerald. Chiese a un assiduo frequentatore del bar, Ernest Hemingway, del quale era divenuto amico, chi fosse davvero questo Fitzgerald che tutti sembravano cercare. «Era uno scrittore americano che lavorò all’inizio degli anni Venti e visse per qualche tempo a Parigi e all’estero», sarà la risposta di Hemingway riportata in Festa Mobile, il memoriale pubblicato postumo nel 1964, in cui dava di Scott un’immagine patetica di uomo senza spina dorsale. «Ha scritto due libri molto belli e un altro che è stato interrotto. I migliori conoscitori della sua opera dicono che sarebbe stato bellissimo. Ha scritto anche dei bei racconti». «È curioso che non abbia alcun ricordo di lui», commentò Georges. «È tutta gente morta», fu la replica di Hemingway, lapidaria e tranchant.

Il motivo per cui Georges non avrebbe ricordato bene la figura di Fitzgerald (sempre che l’aneddoto riportato da Hemingway sia vero) è molto probabilmente dovuto al fatto che lo scrittore, con la moglie Zelda Sayre, avesse soggiornato solo saltuariamente al Ritz che, sì, fu parte del suo mondo parigino, ma più come simbolo di lusso e punto d’incontro culturale che come vera e propria residenza.
Scott non solo non ebbe mai una casa di proprietà, puntualizza Sara Antonelli, studiosa dell’opera di Fitzgerald, nel recente Domani correremo più forte (Feltrinelli, 2025), ma fu ostinatamente senza fissa dimora. A un’abitazione stabile preferì talvolta un albergo, ma soprattutto case e appartamenti da affittare in città ogni volta diverse. «Ovunque si fermasse, la sosta non era mai duratura e veniva solitamente interrotta da viaggi o vacanze da passare in un altro albergo o in altre case in affitto. Acquistò diverse automobili, ma case no, mai». Già, perché Scott e Zelda vivevano praticamente con le valigie in mano.
Un uomo con il portachiavi
Non a caso il saggio di Antonelli inizia con un’immagine del portachiavi di Fitzgerald. Un piccolo sacchetto portamonete in pelle cui erano appese tredici chiavi di fogge diverse, alcune lunghe e altre corte, alcune rotonde e altre sottili. «Le chiavi più grandi, una minoranza, aprivano le porte di una o più case o appartamenti, mentre le più piccole, più numerose, erano compatibili con le serrature e i lucchetti di schedari, bauli e valigie, come pure indica la targhetta su cui sta scritto “Valigia Nuova. Valigia Nera”, in cui Fitzgerald aveva messo al sicuro le carte e i manoscritti che conservava in un magazzino preso in affitto a Baltimora fin dal 1935».
Il sacchetto portamonete fu ritrovato da Frances Kroll, l’ultima segretaria di Scott, sulla scrivania del suo bungalow a West Hollywood il giorno della sua morte, il 21 dicembre 1940. Sarà recapitato all’esecutore testamentario, il giudice John Biggs jr. che, a sua volta, lo consegnerà all’Università di Princeton, l’alma mater dello scrittore.

«Il portachiavi di Fitzgerald è un oggetto illuminante», annota Sara Antonelli. «Rivela uno scrittore che, a dispetto di un’esistenza vagabonda, fu così persuaso del suo valore da aver tenuto traccia delle versioni manoscritte della propria opera, delle bozze dei romanzi, delle lettere private e di lavoro, delle fotografie e di qualunque altro documento utile a ricostruire la sua vita e la sua carriera, con grande metodicità e fin dall’inizio. (...) Ambizioso e insofferente, Fitzgerald coltivò il proprio talento dirigendosi ogni volta verso un nuovo obiettivo senza mai perdere di vista le sue preziose valigie. Fu un uomo errante, ma costantemente ancorato alle carte, ai libri e alla scrittura. Un uomo con il portachiavi. Le chiavi appartenevano a lui, ma il contenuto delle valigie era già nostro».
La particolarità del libro di Sara Antonelli risiede soprattutto nel doppio binario interpretativo attraverso cui viene analizzata la figura di Fitzgerald: la vita vissuta e quella letteraria, due dimensioni che, se in ogni artista tendono a sovrapporsi, nel caso di Fitzgerald risultano del tutto inscindibili. Un esempio emblematico è l’episodio raccontato nel capitolo “Roma: Scena del crimine”, un fatto realmente accaduto che lo scrittore avrebbe poi rielaborato in un paio di capitoli nel romanzo Tenera è la notte. Antonelli ne ricostruisce, per la prima volta, i dettagli grazie al ritrovamento di documenti conservati nell’Archivio Centrale di Stato, sorprendentemente rimasti ignoti ai principali studiosi di Fitzgerald. Studiosi che – essendo soprattutto americani – tendono a ritenere che il mondo conosciuto si esaurisca tra le coste del loro continente bagnate dai due oceani. Oltre: Hic sunt leones.

Le disavventure di Scott “Fitgerat, Fitzgerat, Fihgerat”
Questa è la storia. Siamo a Roma nell’inverno del 1924. Alla vigilia di Natale Papa Pio XI aprirà la Porta Santa nella Basilica di San Pietro: la città è invasa da pellegrini e turisti. Tra questi ci sono Francis Scott Fitzgerald e la moglie Zelda Sayre, che, apparentemente suggestionata dalla lettura del romanzo Roderick Hudson di Henry James, ambientato proprio a Roma, vuole riviverne le atmosfere. I Fitzgerald arrivano nella capitale verso metà novembre e prendono alloggio all’Hotel Quirinale, uno degli alberghi più eleganti e prestigiosi della città. La sua vicinanza al Palazzo del Quirinale – allora residenza reale – lo rendeva una scelta privilegiata per ospiti illustri. Inoltre, grazie al passaggio interno che lo collegava al Teatro Costanzi (oggi Teatro dell’Opera), era l’albergo ideale per artisti e personalità del mondo culturale. Il suo ristorante era rinomato al punto che, tra il 1922 e il 1932, rifornì dei pasti lo stesso Papa Pio XI.
Ma si trattava di una sistemazione temporanea. Scott preferiva affittare un appartamento, anche perché viaggiavano con la figlia piccola e la bambinaia francese. L’imminente apertura dell’Anno Santo rese però impossibile trovare un alloggio, e così furono costretti a trasferirsi all’Hotel des Princes & Bavaria, in piazza di Spagna.
È in questo contesto che si consuma un episodio tanto grottesco quanto poco noto. Nella notte tra il 30 novembre e il 1° dicembre 1924, un certo “Scott Fitgerat” viene fermato in centro dai carabinieri. Il nome apparirà storpiato in tutti i documenti ufficiali – una volta è Fitgerat, un’altra Fitzgerat, un’altra ancora Fihgerat – ed è forse anche per questo motivo che il fascicolo è rimasto sepolto per decenni nell’Archivio Centrale di Stato, tra gli atti della Polizia giudiziaria relativi ai “misfatti” commessi a Roma e provincia tra il 1922 e il 1924.
Secondo il rapporto ufficiale del 4 dicembre, documentato in una cartellina rosa della Direzione generale di Pubblica sicurezza (Affari generali, Polizia giudiziaria, busta 1508, fascicolo 13055.513), Fitzgerald – definito “pubblicista ventottenne” – viene fermato alquanto brillo alle 4 del mattino nei pressi del cinema Imperiale. Condotto alla caserma di piazza San Lorenzo in Lucina, “diede in escandescenze” e fu ammanettato.
Dopo un’apparente chiarimento, lo scrittore chiese di vedere l’appuntato Ruffo che l’aveva arrestato e gli sferrò un pugno in faccia, fratturandogli il naso (25 giorni di prognosi). A quel punto Fitzgerald fu trattenuto in camera di sicurezza e, la mattina seguente, consegnato – con occhi neri e lividi – a un incaricato del consolato americano allertato da Zelda. L’episodio, che Antonelli racconta con una dovizia di rocamboleschi particolari, si chiuse con una denuncia a piede libero e nessuna conseguenza giudiziaria, solo qualche livido, molte scuse e Fitzgerald libero di continuare il soggiorno romano, prolungato poi a Capri.

Forse per l’umiliazione, Scott non ne fece mai menzione diretta nelle sue lettere. Tuttavia, l’episodio romano – una volta “letterarizzato” – venne trasfigurato in Tenera è la notte come momento chiave della crisi del protagonista, Dick Diver. Scrive Sara Antonelli: «il fascicolo non si è mai imposto all’attenzione dei ricercatori, molto probabilmente perché nessuno l’ha mai cercato e, forse, perché il nome della persona fermata – Scott Fitgerat – è fuorviante e contraddittorio». Forse anche perché la vicenda non venne riportata dalla stampa dell’epoca. A Roma, in quei giorni, l’attenzione era rivolta ad altre emergenze: la caccia a un assassino di bambine che sconvolgeva la città e le indagini sull’omicidio Matteotti, che relegarono in secondo piano l’incidente che aveva coinvolto uno sconosciuto, seppur battagliero, “pubblicista” americano.
Di Gatsby non ne posso più
Al suo rientro in Francia, Fitzgerald era alle prese con l’imminente pubblicazione di Il grande Gatsby (vedi su Doppiozero). In una lettera all’editor di Scribner’s, Maxwell Perkins, ammise la propria ansia: «Sono sopraffatto dalla paura e dai cattivi pensieri. Pensa se alle lettrici non piacesse (…) Diciamocelo, non sono più così sicuro di me stesso. Di questo libro non ne posso più neanche io». Era insoddisfatto del titolo e della mancanza di un personaggio femminile forte. Le vendite iniziali furono deludenti, ma la critica accolse il romanzo con entusiasmo. T.S. Eliot scrisse di averlo letto tre volte, e dichiarò che nessuna opera recente, inglese o americana, lo aveva tanto colpito. Anche Gertrude Stein, che Fitzgerald aveva conosciuta nel maggio 1925 presentatagli da Hemingway, espresse giudizi lusinghieri.

Erano anni quelli in cui Fitzgerald cercava ancora un difficile equilibrio tra ambizione letteraria e necessità economiche. Aveva trovato una fonte di reddito regolare nei racconti pubblicati sul Saturday Evening Post, che gli garantiva compensi generosi e una vasta platea di lettori. Ma si trattava, come osserva Adam Gopnik in un articolo pubblicato sul New Yorker (“As Big as the Ritz: The Mythology of the Fitzgeralds”, 27 aprile 2020), di un compromesso impegnativo: «Il Saturday Evening Post è l’Ozymandias delle riviste americane – un tempo la più potente di tutte, ora ridotta a una reliquia sepolta nella sabbia – ma Fitzgerald era un autore del Post tanto quanto, e con altrettanto orgoglio, lo era P.G. Wodehouse. Il tocco del Post si adattava perfettamente all’arte di Wodehouse, come la Riviera si adattava a Matisse, ma la coscienza sociale di Fitzgerald – impiantata in lui come un pacemaker da Edmund Wilson a Princeton – lo infastidiva di tanto in tanto e lo spingeva a non voler essere considerato soltanto uno scrittore del Post».
Pancetta affumicata ammuffita
Negli anni Trenta, ormai segnati dalla crisi economica e personale, Fitzgerald si trasferì a Hollywood, dove lavorò come sceneggiatore, tra frustrazioni professionali e un crescente isolamento. Fu in questo periodo che iniziò a scrivere quello che sarebbe stato il suo ultimo romanzo, The Love of the Last Tycoon. Una storia ambientata proprio nel mondo degli studios, che affrontava il potere, le illusioni e le maschere del cinema americano. Era un ritorno alla grande ambizione artistica, e al tempo stesso una riflessione sulle occasioni mancate e sulle promesse deluse della modernità.
Ma non tutti colsero la portata di quel tentativo. Ernest Hemingway – che pure con Fitzgerald aveva condiviso l’ebbrezza degli anni parigini e il disincanto che era arrivato in seguito – stroncò il manoscritto postumo senza pietà. In una lettera a Perkins, definì Gli ultimi fuochi (questo il titolo italiano) “pancetta affumicata ammuffita”, e paragonò il suo vecchio amico – proprio colui che lo aveva introdotto allo stesso Perkins – a un battitore di baseball con il braccio paralizzato. Un giudizio ingeneroso e ingiusto. Il romanzo era ancora in fase embrionale quando Fitzgerald morì d’infarto il 21 dicembre 1940, a soli 44 anni, nella casa di Los Angeles della giornalista Sheila Graham, sua compagna negli ultimi anni.
Il titolo di lavorazione del romanzo era Stahr, A Romance, dal nome del protagonista. Tuttavia, erano in lizza diverse opzioni per la scelta definitiva, tra cui The Love of the Last Tycoon: A Western. Secondo Matthew J. Bruccoli – uno dei massimi esperti dell’opera di Fitzgerald – era proprio questo il titolo che Scott avrebbe molto probabilmente scelto. Anche Sheila Graham ne aveva parlato con l’editor Maxwell Perkins: poche settimane prima della morte, infatti, Fitzgerald le aveva chiesto un parere su quella nuova formulazione, pensando di adottarla come definitiva.
Bruccoli aveva dalla sua un indizio decisivo: una pagina autografa di Fitzgerald con l’indicazione “Titoli”, in cui una serie di varianti – fra cui Stahr e The Last Tycoon – risultavano cancellate, lasciando come unico sopravvissuto proprio The Love of the Last Tycoon: A Western. “Western” nel senso lato del termine, non di cow-boy e indiani, ovviamente, ma di storia ambientata in California, nell’estremo Ovest del paese.
Irving Thalberg: il mio nome è Stahr
Fitzgerald aveva l’abitudine di trasfigurare nei suoi romanzi episodi vissuti e persone incontrate, come nel caso appena visto della scena romana poi rielaborata in Tenera è la notte. Allo stesso modo, anche la figura letteraria di Monroe Stahr, il protagonista del suo ultimo progetto narrativo, è chiaramente ispirata a una persona reale: Irving Thalberg, il leggendario produttore della MGM, considerato uno dei padri fondatori del sistema hollywoodiano. Le sue produzioni – e la morte prematura – erano già di per sé fitzgeraldiane.

Fitzgerald aveva cominciato a lavorare al romanzo nel 1939, proprio mentre la MGM – con cui era sotto contratto, e per la quale aveva curato, tra l’altro, l’adattamento cinematografico di Three Comrades di Erich Maria Remarque e collaborato alla sceneggiatura di Via col vento – lo licenziava. Il motivo del divorzio? Semplice, spiega Bruccoli: Fitzgerald era un pessimo sceneggiatore perché era un solitario, e mal sopportava il gioco di squadra. Ma soprattutto perché è impossibile portare su pellicola uno stile letterario.
L’enfant prodige dell’Età del Jazz era finito a Hollywood perché aveva bisogno di lavorare. Aveva bisogno di soldi per le spese dell’ospedale psichiatrico della moglie Zelda – affetta da una grave forma di schizofrenia, che l’aveva costretta a frequenti ricoveri dal 1930 in poi – e per la retta scolastica della figlia Scottie, iscritta al collegio di Vassar. I diritti d’autore di Di qua del Paradiso, di Tenera è la notte, di Il grande Gatsby erano già stati dilapidati: a Parigi, sulla Costa Azzurra, a New York, per vivere la stessa vita spericolata e dorata dei suoi personaggi.
Fitzgerald aveva incontrato Thalberg nel 1927 a Hollywood, quando la United Artists gli aveva bocciato Lipstick, una sceneggiatura originale. I due si incrociarono di nuovo nel 1931, durante un party dato da Thalberg in cui Scott si fece notare per la sua consueta sbronza allegra. L’unico altro contatto tra i due risalirebbe al 1934, a una telefonata in cui un Fitzgerald alticcio aveva tentato di vendere al produttore i diritti cinematografici di Tenera è la notte.
Due anni dopo, nel 1936, Thalberg moriva improvvisamente a soli 37 anni. Tre anni più tardi, nel 1939, Fitzgerald scriveva a Maxwell Perkins accennando a un’idea per un nuovo romanzo. Quel progetto – che avrebbe poi preso forma come The Love of the Last Tycoon – fu probabilmente ispirato, almeno in parte, proprio da Thalberg che Fitzgerald aveva incrociato, ma molto ammirato da lontano. Una presenza carismatica e silenziosa, la cui parabola sembrava fatta su misura per diventare materia letteraria. Purtroppo, non sapremo mai come sarebbe stato quel romanzo nella sua forma compiuta. Forse Stahr avrebbe oscurato Gatsby.
