Biennale di Architettura: Laboratory of the Future 

Intorno alla 18° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia si è registrato, da subito, un curioso rumore di fondo prodotto dai soliti Soloni del web e da qualche accademico italico che, indispettiti, s’interrogano sulla presunta scomparsa dell’architettura in quella che è, indiscutibilmente, la più importante mostra di architettura del mondo.

Si moltiplicano le affermazioni forti sulla morte del progetto e sul fatto che questa disciplina sia diventata un surrogato dell’arte contemporanea in occasioni pubbliche come queste.

La stessa lamentela correva, due anni fa, riguardo l’edizione curata da Hashim Sarkis, che, curiosamente, aveva registrato il record di presenze nella storia delle Biennale di Architettura, complice la fine della pandemia, i maligni dicono, ma forse anche un necessario cambio di paradigma curatoriale.

L’elemento che colpisce è il crescente iato tra le critiche domestiche, raramente sostanziate da un vero discorso approfondito e definito nei suoi caratteri ma piuttosto assorbito dal mugugnare social o da elementari narrazioni giornalistiche della prima ora, e alcune recensioni molto più strutturate uscite su alcuni dei più importanti quotidiani e magazine internazionali nelle settimane seguenti l’apertura.

Credo che sarebbe molto più interessante guardare a queste due ultime esperienze come a un paesaggio unico e inedito, che si collega idealmente all’edizione curata da Alejandro Aravena nel 2015, in cui, per la prima volta, si affrontò il radicale e necessario allargamento dell’orizzonte con una lettura consapevole e politica di quello che ormai si stava portando avanti in altre aree del mondo, lontane dall’asse Europa-Nord America-Giappone che aveva monopolizzato mostre, pubblicazioni e accademie negli ultimi decenni del secolo passato.

Da quella mostra, brillantemente intitolata “Reporting from the Front”, si era posta con chiarezza la questione della dimensione politica e sociale del progetto, oltre una visione novecentesca il cui lo stile e le buone forme sembravano essere l’unica prospettiva culturale possibile.

Mentre l’edizione precedente, curata da Rem Koolhaas, aveva avuto il merito di chiudere un secolo e la lunga epica delle avanguardie moderne e post-moderne, il lavoro di Aravena introdusse una serie di virus concettuali e culturali anomali che allargarono il quadro e riportarono al centro la delicata questione del ruolo sociale e politico dell’architetto in un presente soggetto a una radicale metamorfosi, oltre l’ego sfinito delle archistar globali e la richiesta per un nuovo stile capace di rassicurare il mercato degli investitori e della critica.

“Laboratory of the Future”, curata da Lesley Lokko e aperta a fine maggio, tenta di forzare ulteriormente questa prospettiva e lo fa usando l’Africa come paradigma di una condizione apparentemente laterale, sconosciuta ai più al di là dei soliti luoghi comuni, ma che, invece, potrebbe avere la forza di farci interrogare su come, il continente più antico e insieme più giovane del mondo, stia confrontandosi con tutta la sua forza e contraddizioni, alle grandi sfide che il presente ci pone, partendo dal cambio climatico, fino alla necessità di una equità sociale ed economica sempre più assente.

La domanda che sorgeva con l’edizione di Aravena, che venne sollevata con ancora maggiore forza nel lavoro di Sarkis, e che si ripropone in maniera ancora più chiara con la mostra appena aperta, è sul ruolo e la capacità dell’architettura di poter affrontare sfide che sembrano superiori alle sue reali possibilità. È vero che il mondo delle costruzioni pesa almeno il 30% delle emissioni globali e che è uno degli attori principali di consumo di suolo e di risorse, ma è altrettanto illusorio pensare che l’architettura, da sola, possa dare risposte risolutive. 

La condizione di rete e intersezione tra le discipline è propria del nostro tempo ed è la risposta all’isolamento individuale e culturale in cui i nostri saperi erano stati incatenati nel ‘900. 

Questa condizione di partenza giustifica il fatto che il progetto, da solo, non possa più produrre manufatti di senso sociale e simbolico se non si nutre di un confronto concettuale e poetico con altri mondi e conoscenze che lo possano traghettare in un tempo di profonda e drammatica metamorfosi.

Coloro che ancora invocano la ricerca di un nuovo stile s’illudono e sono figli malinconici di un tempo superato, mentre questa Biennale dovrebbe aiutare a interrogarci sul ruolo che la forma, come potenziale reagente poetico verso la realtà, potrebbe ancora avere per produrre luoghi e manufatti da abitare in maniera differente per affrontare un futuro presente carico di paure e interrogativi urgenti.

Per questa ragione la mostra della Lokko non è risolutiva né rassicurante, non ci porta soluzioni né indica autori capaci di produrre opere che svoltino questo tempo confuso e in crisi. Si tratta di una scelta consapevole, dichiarata dalla prima frase posta all’ingresso del padiglione centrale dei Giardini, che introduce a una Mostra che non vuole educare quanto, piuttosto, accogliere prospettive, ricerche, sperimentazioni e punti di vista aperti e generazionalmente differenti.

Il nostro compito è quello di bonificare i terreni inquinati dal secolo precedente di una modernità titanica e feroce, per consegnare un suolo libero perché le prossime generazioni impiantino semi generati da un pensiero diverso, che ancora ha da venire.

Senza la bonifica non esistono semina e nuovi raccolti.

Forse una Biennale, oggi, deve essere un laboratorio poetico e problematico che generi interrogativi e apra a mondi differenti, piuttosto che offrire progetti e risposte granitiche pronte a sfaldarsi alla prima tempesta. Questa è una mostra curata e voluta da una intellettuale e una educatrice dell’architettura, che crede nella forza del pensiero e delle parole come punto di ripartenza. 

Questo diventa il punto di maggiore forza e, forse, di fragilità consapevole di questa edizione in cui la prospettiva politica sulla realtà ha preso il sopravvento e ha indirizzato chiaramente la selezione degli autori e autrici, evitando ogni confine di senso tematico e di scala come era stato per l’edizione precedente.

Questa mostra pone seriamente il ruolo e il senso della forma, che per l’architettura è centrale, perché la forma costruita diventerà luogo abitato da generazioni differenti nei decenni a venire, incidendo pesantemente sulla qualità della nostra vita. Ma lavorare sulla produzione di forme oggi vuole dire necessariamente confrontarsi con il contenimento del consumo di suolo e risorse, oltre che su luoghi che siano sempre più aperti, generosi e flessibili per un tempo inquieto e fluido nei desideri prodotti dalle sue comunità.

Invece la relazione tra forma e astrazione è ancora oggi fortissimo e ci offre una fragilità concettuale che disorienta, ma che è anche specchio della cultura architettonica contemporanea, polarizzata tra un pensiero teorico sempre più debole e il mercato che detta regole e tempi delle reali occasioni di trasformazione.

Questa mostra solleva sottilmente il tema della debolezza dell’autore in un mondo sempre più performante, tecnicizzato e dai tempi eccessivamente compressi. Che spazio e occasioni esistono per progettisti che accendano un vero corpo a corpo sensuale e visionario con il lavoro di architettura nel presente?

Non è un caso che la Lokko abbia selezionato alcuni tra gli autori resistenti e dal talento unico come David Adjaye, i giovani AMAA, Flores i Pratts, ZAO, Atelier Masomi, Ibrahim Mahama, Hood Design Studio, immersi in una geografia irregolare di giovani “practitioners”, ovvero di mediatori sociali e culturali, sorta di civil servant contemporanei il cui ruolo è quello d’individuare nuove strategie e pratiche progettuali capaci di confrontarsi con un tempo nuovo e inquieto che chiede soluzioni altre, inclusive e capaci di costruire comunità attive tra i viventi.

A chi si lamenta dell’assenza di architettura ricordo la frase di Hans Hollein che “tutto è progetto” perché ogni spazio e manufatto pensato che accogliere la nostra vita è stato immaginato, prodotto e ha la capacità d’influenzare la nostra vita.

Oggi il tema è quello di rigenerare e ripensare l’immenso patrimonio costruito che abbiamo ereditato dai due secoli precedenti. Questa mostra porta al centro il progetto come pratica poetica e sociale, sta forse a noi riflettere su che ruolo vogliamo abbia l’architettura nei prossimi anni: specchio di una pericolosa nostalgia modernista o motore di una rinascita necessaria dei nostri paesaggi?

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Praticare lo spazio. I padiglioni nazionali. (di Alessandro Virgilio Mosetti)

The Laboratory of the Future è una biennale dal finale aperto che ricostruisce i profili di un paesaggio futuro (disciplinare e spaziale) rinvenibile in tracce; la mostra è lo spazio (inquieto) dove si presentano molte vie che possono essere intraprese per tentare di comprendere lo stato dell’arte di una disciplina pluri-tematica e per costruire strategie e pratiche adattive (e non risolutive) in risposta alle urgenze dettate da tempi inquieti.

L’esito di quanto esposto non può che essere quindi coerente con il presupposto individuato da Lesley Lokko in apertura di questa biennale: l’architetto definito come “practitioner” è una figura antica e nuova che in un certo qual modo lo si potrebbe intendere come l’evoluzione di specie dell’“architetto sismografo” di Hans Hollein che da “registratore di vibrazioni” diventa “agente di cambiamento”. L’architetto-practitioner proietta nello spazio le proprie sensibilità architettoniche/artistiche attraverso tecniche del progettare ad alto grado di sperimentazione, trasversali e trans-disciplinari.

Le energie spese in ricerca e progetto non necessariamente si finalizzano in un progetto compiuto di architettura. Il laboratorio del futuro ritratto da questa biennale porta in scena i momenti embrionali di azioni (il cui esito è riposto in un futuro a breve o lungo termine) rivolte alla comprensione e alla trasformazione dello spazio nel quale abitiamo.

Su questo punto si comprende l’operazione introdotta nel Padiglione Italia da Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri a cura di Fosbury Architecture. Il progetto collettivo evidenzia esemplarmente come ciò che è esposto in mostra sia una cristallizzazione operata attraverso nove allegorie allestitive di nove pratiche spaziali-progettuali in compimento simultaneo nelle nove aree di progetto-contesto al di fuori dello spazio della mostra. Il padiglione diviene quindi uno spazio di una rappresentazione voluta e progettata che riflette continuamente sullo scarto tra progetto di allestimento e progetto della pratica spaziale a cui il primo fa riferimento, facendo emergere, al di là della valutazione delle nove singole azioni, l’affascinante scontro tra una realtà rappresentata-allegorica e una realtà esterna dove le nove pratiche-progetti giungeranno a esito. Qui, la smaterializzazione a cui giunge il progetto Sot Glas a cura di Ana Shametaj e Giuditta Vendrame suggerisce come parlare di progetto e di architettura obblighi sempre più ad un cambio di prospettiva anche rispetto ai documenti che da sempre lo hanno saputo comunicare/rappresentare. I documenti di progetto divengono spazi abitati, prototipi consultabili e nei quali testare azioni “in vitro”.

Su questo filone narrativo, il progetto Ball Theatre a cura di Muoto (Gilles Delalex e Yves Moreau) per il Padiglione della Francia ripensa lo spazio espositivo come “una cassa di risonanza e un luogo di ascolto” messo a disposizione per performance di corpi e voci. Un atteggiamento simile a quello ricercato nel Padiglione della Germania dal progetto Open for Maintenance curato da ARCH+, Summacumfemmer, Büro Juliane Greb. Dando spazio al tema della transizione socio-ecologica legata all’industria delle costruzioni, lo spazio interno al padiglione si presenta come un magazzino-laboratorio dove sono ospitate azioni performative e talks che trasformano le parole chiave del progetto curatoriale “inclusione, cura, manutenzione, riparazione, rigenerazione” in azioni e installazioni spaziali.

 

Decolonise. Con tutte le dovute cautele che richiede l’argomento, il claim posto in ingresso all’Arsenale richiama la centralità del tema all’interno dell’apparato narrativo di questa biennale. In opposizione alla decolonizzazione pensata in accezione di “restituzione” si delinea la possibilità di pensare ad azioni concrete che facciano emergere dall’interno di spazi indigeni quelle stesse pratiche progettuali virtuose in termini di mitigazione/adattamento alle sfide climatiche, ambientali e alle urgenze sociali. Il passaggio da “decolonizzazione come restituzione” che presuppone un moto da un esterno ad un interno “indigeno” alla decolonizzazione come processo di emersione di una cultura indigena dal suo “interno” è essenziale per comprendere i progetti curatoriali/allestitivi presentati da numerose Partecipazioni Nazionali.

A partire dall’elemento “suolo”, un forte senso di materialità pervade (anche olfattivamente) lo spazio interno di numerosi padiglioni ai Giardini sia che all’Arsenale. Se lo “stato di fatto” del nostro rapporto con il suolo (e il suo iper-consumo) può essere narrato esemplarmente dal progetto Foodscape a cura di Eduardo Castillo-Vinuesa per il Padiglione della Spagna (in particolare modo nei cinque racconti video inclusi nel progetto di allestimento), l’elemento “terra” e la sua malleabilità diviene il mezzo narrativo (a volte allegorico) attraverso il quale ricondurre l’esperienza dell’architettura di oggi e del futuro alle origini di una pratica spaziale antropica-indigena sostenibile nei confronti dell’ambiente.

Leone d'Oro come migliore Partecipazione Nazionale, il Padiglione del Brasile con il progetto Terra [Earth] a cura di Gabriela de Matos e Paulo Tavares interpreta attraverso il pavimento in terra compattata il legame tra antropico e naturale attraverso il racconto delle modifiche che l’uomo ha impresso all’ambiente: le pratiche spaziali, forme di design contemporanee che vengono presentate nel padiglione si riallacciano a quelle ancestrali degli indigeni Quilombola in un’evocazione di un sapere costruttivo e di una gestione delle risorse naturali virtuosa. Qui, il forte odore del tappeto di terra bagnata e dei volumi di supporto al progetto di allestimento, anch’essi di terra compattata, ricostruisce una atmosfera indigena nella quale ci si sente inaspettatamente a casa, nuovamente in una dimensione collettiva e famigliare.

La stessa qualità accogliente e domestica di uno spazio modellato nel suolo (anche in tempi di guerra) è percepibile all’interno della linea di fortificazione ucraina modellata nel terreno dello Spazio Esedra ai Giardini che diventa uno spazio di ritrovo collettivo. Il progetto site specific si pone in continuità con il progetto Before the Future curato per il Padiglione dell’Ucraina da Iryna Miroshnykova, Oleksii Petrov e Borys Filonen presso la sede dell’Arsenale. Per il medesimo padiglione, nella sede dell’Arsenale, lo spazio espositivo si riduce in una cripta-bunker o uno spazio di sussistenza senza prese di luce: uno spazio nel quale con la consapevolezza di ciò che la guerra comporta è possibile riflettere sulla fortuna dell’esperienza di uno spazio aperto e condiviso.

Permanendo in un paesaggio notturno senza vie di uscita, il progetto Unbuild Together: Archaism vs. Modernity a cura di Studio KO 20 per il Padiglione della Repubblica dell’Uzbekistan riscopre le potenzialità tecnologiche e culturali di una modalità costruttiva tradizionale arcaica, come quella del muro portante in mattoni di terra essiccata della tradizione uzbeka legata alla cultura costruttiva delle fortezze qala, oggi in rovina. Architetture di terra perdute rivivono nello spazio del padiglione attraverso un progetto di allestimento che è un percorso labirintico tra due nastri di muri che si allontanano e riavvicinano definendo stanze, anfratti e piazze nel quale incontrarsi.

In altri casi, si procede nel senso di un vero processo di decolonizzazione a partire dal ripensamento degli stessi spazi espositivi ad uso dei padiglioni nazionali e delle strutture edilizie che li delimitano; il medesimo discorso, se variato di scala, offre nuove possibilità di ripensare il rapporto di contiguità che la mostra intrattiene come organismo vivente (ma dormiente per parte dell’anno) con il tessuto urbano di Venezia. Ci sono padiglioni che lavorano su sé stessi elaborando progetti di allestimento che riutilizzano materiali dismessi; oppure si rilevano padiglioni che decidono di chiudersi come nel caso del Padiglione dell’Israele) o che si aprono a dismisura laddove c’era un muro, tentando approcci con la città fuori dal recinto.

Su quest’ultimo punto, il Padiglione dell’Austria, curato dal collettivo di architettura AKT e da Hermann Czech, espone una riflessione sull’usabilità-accessibilità pubblica degli spazi espositivi della Biennale di Venezia oltre il loro utilizzo espositivo a cadenza annuale. Alcuni progetti pilota fungono da dispositivi connettivi al fine di ricucire ciò che sta dentro e fuori il recinto “del vivaio” dei padiglioni (ma la mostra non è per eccellenza lo spazio di una rappresentazione distaccato per necessità di astrazione dal contesto che le è prossimo?). L’escamotage è quello di sorpassare le barriere fisiche che separano gli spazi interni da quelli esterni con collegamenti verticali (scale) e orizzontali (camminamenti). Si tratta di un tema di discussione “antico” (con una propria tradizione veneziana) che si avvale anche del contributo di Unfolding Pavillion con il progetto Open Giardini a cura di Daniel Tudor Munteanu e Davide Tommaso Ferrando: investigando i perimetri delle sedi espositive si cercano punti di rottura e di contatto tra lo spazio scenico della mostra e quello della città. Seguendo questo tema teorico e pratico, assume senso il “taglio” del muro di confine tra il Padiglione della Svizzera e il Padiglione del Venezuela. Il progetto Neighbours a cura di Karin Sander e Philip Ursprung unisce i due padiglioni in uno sguardo estroverso tra due interni; il “recinto” è aperto rendendo evidente e spazialmente percepibile la relazione di prossimità tra i due spazi, tra due culture architettoniche differenti per origine, geografia e impostazione culturale. Il dialogo è ovunque possibile e non è legato ad una sola relazione di vicinato: laddove fatichi a concretizzarsi in un atto spaziale è possibile facilitarlo con azioni-progetti mirate.

Finale. Il progetto di allestimento per il Padiglione del Belgio con il progetto In Vivo curato dall’associazione Bento e Vinciane Despret, sperimenta nuovi campi di applicazione per materiali edili organici di nuova concezione. La sala centrale del padiglione è occupata da un telaio spaziale in legno a formare un recinto. La struttura è rivestita da elementi parietali di un materiale compattato di origine organica (la parte vegetativa dei funghi) che schermano uno spazio domestico nel quale fantasticare sul futuro che ci aspetta. 

Lo spazio, silenzioso e carico di materialità tattile e odorosa, potenzia un progetto curatoriale che prende atto del fatto che le risorse per il sostentamento dell’umanità, e del suo abitare, siano (già) finite.

Quest’ultima presa di posizione svela un’inquietudine necessaria: direziona l’immaginazione a nuovi orizzonti progettuali, alla definizione di escamotage virtuosi che possano avvalorare una disciplina come quella architettonica che vibra nel tentare di percorrere più strade e di adattarsi ad una condizione di contesto che sfugge costantemente di mano.

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