Milano da rifare

11 Aprile 2023

La storia delle città è sempre stata costruita sulla necessità di definire intorno al luogo fisico un’aura potente, spesso superiore alla realtà che la costituiva, che faceva crescere simbolicamente e politicamente il peso che il suo nome acquisiva nell’immaginario collettivo.

La narrazione spesso superava il luogo reale e la leggenda che avvolgeva questi luoghi in alcuni specifici momenti storici era la perfetta espressione del potere che la stava costruendo.

Spesso le narrazioni, le cronache, le mappe e le viste che viaggiavano liberamente per i continenti erano false o, almeno, sovradimensionate, ma l’obiettivo era la costruzione di un monumento teorico, ideale, che avrebbe rafforzato il prestigio politico ed economico dei suoi committenti. 

Le città, le regioni e gli Stati sono sempre stati in naturale competizione tra di loro e la comunicazione (per come la chiamiamo noi oggi, ma prima erano cronache, racconti, stampe, mappe, filmati, libri) era una delle armi più sottili e potenti per affermare il proprio ruolo.

Questa dimensione è cresciuta in maniera esponenziale in questi ultimi decenni, quando il passaggio è avvenuto dalle nazioni alle singole aree metropolitane, veri stati nello stato, enti quasi autonomi che hanno cresciuto a dismisura il proprio potere magnetico al punto da cannibalizzare i territori limitrofi. Il secolo appena passato ha celebrato il definitivo travaso di popolazione delle campagne alla città. Adesso che questa condizione si è affermata definitivamente, la competizione avviene tra metropoli per attirare capitali, cervelli e risorse attraverso il loro prestigio, l’autorevolezza mediatica e simbolica, oltre che materiale, al punto che la comunicazione e il marketing sono diventate lo strumento principale per affermare questa condizione.

Si tratta di un meta-racconto che passa sopra le teste dei suoi abitanti, ma anche che plasma il loro sguardo e il senso di appartenenza al luogo in cui abitano e che trasformano quotidianamente.

Su questa relazione ambigua e complessa, anzi su questo cortocircuito di senso, Lucia Tozzi costruisce il suo ultimo lavoro L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio, 2023, 208 p.), un pamphlet molto puntuto che avvia una riflessione fortemente critica sulla capitale economica e finanziaria del nostro Paese. 

La tesi argomentata dalla Tozzi è che la strategia di comunicazione, costruita in maniera diffusa, pervasiva e sofisticata dall’amministrazione pubblica, in concerto con il capitale immobiliare-finanziario, le istituzioni culturali e della comunicazione con ampie fasce di professionisti e intellettuali, sia, in realtà, uno strumento che ha abbattuto ogni forma di pensiero critico e antagonista, rivalutato potentemente il valore immobiliare di ampie aree cittadine interessate da una narrazione pervasiva, oltre ad avere silenziosamente espulso fasce sempre più vaste di popolazione fragile, in nome di residenti nuovi, con un maggiore potere di acquisto e una relazione meno forte e sincera con il contesto in cui abitano.

Una città fluida, sorridente e amorfa criticamente, che ha perso la sua capacità di essere un luogo in cui le contraddizioni possano abitare e generare un’identità meno globalizzata, ma più indipendente e originale.

Poco prima della pandemia “Contro Milano”, un lungo articolo di Michele Masneri pubblicato su Il Foglio e dedicato a una Milano cannibale e caricaturale, modello Milanese imbruttito, aveva fatto molto discutere. 

Sembrava che la potenza dell’happy hour avesse l’energia di ricacciare anche il Covid-19, poi tutti noi ricordiamo come è andata e anche chi aveva postato improvvidamente quei video sui social se n’è ampiamente pentito. Ma è evidente che questa narrazione così eccitata e performativa che si era consolidata con l’Expo, quasi come reazione definitiva a quell’immaginario da città grigia, triste e post-industriale che non sapeva riprendersi dopo la cavalcata del secolo appena concluso, dopo la pandemia sembra non tenere più e mostrare tutte le sue fragilità concettuali.

Il re è nudo, potremmo dire, ma il punto è che una metropoli è abitata da milioni di persone che hanno diritti e desideri che una città come Milano sembrava aver in parte esaudito nel 900’: città che ha costruito un grande patrimonio di residenza pubblica e sociale; città che è stata capitale della sperimentazione in architettura, design, grafica oltre che nella produzione industriale innovativa; città che offriva una scala sociale fluida e possibile per chi arrivava; città frenetica ma insieme severa nei suoi costumi sociali; città con un’imprenditoria evoluta e colta; città dei giornali, delle università, delle istituzioni culturali che, insieme, hanno costruito quell’immaginario che l’ha trasformata nella vera capitale del ‘900 italiano. 

La fine della crescita industriale alla fine degli anni ‘80, documentata dalle immagini di Gabriele Basilico che testimoniavano la fine di un’era, e l’assalto immobiliare alla cintura periferica della defunta fascia produttiva di Milano, hanno stabilito la prima tappa della metamorfosi. 

Il passaggio definitivo a un’economia immateriale, con un cambio progressivo di popolazione, ha avviato economicamente la seconda tappa della trasformazione che ha trovato nell’Expo e nelle narrazioni da Salone del Mobile, la base per l’affermazione di un immaginario differente, al punto che Milano, dopo il 2016, è diventata una delle mete di un turismo che lascia interdetti i suoi stessi abitanti.

A questa si è unita una metamorfosi strutturale nel tipo di committenza sul capitale immobiliare, passando da un’imprenditoria locale e consapevole all’arrivo dei grandi capitali e dei fondi d’investimento, strutturalmente disinteressati al risultato finale e alla qualità dei manufatti, ma piuttosto alla resa finanziaria dell’investimento fatto. È cambiata la scala delle narrazioni e il loro peso economico, in una forma che ha progressivamente smaterializzato il racconto a dispetto dei luoghi e dei suoi abitanti. Su questo punto la Tozzi insiste molto, anche giustamente, portando esempi e indicando fatti avvenuti, a raccontare una città che ha progressivamente venduto la sua anima civile in nome di obiettivi comuni che portano sempre di più gli interessi privati a indirizzare le scelte pubbliche, oltre che espellere fasce sempre più deboli della popolazione verso l’esterno, incapaci di reggere l’idea di una città competitiva e performativa, in cui ogni cittadino è chiamato a fare la sua parte e a contribuire al benessere diffuso della città.

Le crepe post-pandemiche a cui abbiamo accennato sono evidenti e si possono registrare quotidianamente al punto di essere parte delle cronache su quotidiani oltre che nelle conversazioni comuni.

Milano seconda città al mondo per inquinamento: ogni mattina ci svegliamo con la macchia rossa dell’aria irrespirabile che immerge tutta la Pianura Padana. Milano il cui costo di case in vendita e affitto, oltre che il costo della vita, sta spingendo molte famiglie a basso reddito, studenti, giovani neo-laureati e lavoratori ad andarsene o a cercare abitazione in aree sempre più distanti. Milano in cui è concentrato quasi l’ottanta per cento degli investimenti immobiliari del Paese e che ha moltiplicato esponenzialmente il costo al metro quadro delle sue abitazioni (tra il 2012 e il 2022 il valore delle case è aumentato del 37%, caso eccezionale in Italia e in Europa). Milano che sta cambiando nella struttura sociale, attirando anche molti giovani (unica città in Italia) ma che impone soglie economiche e ambientali sempre più insostenibili. Milano in cui tutte le sue istituzioni educative e culturali sembrano non voler più esprimere punti di vista critici e alternativi, rafforzando una narrazione a senso unico che non aiuta la città a interrogarsi e a evolversi. 

A questo si affianca la crisi diffusa di un modello critico che sia capace di portare forme di antagonismo culturale e sociale necessario; ma la crisi della critica, a tutti i livelli, è lo specchio drammatico di un tempo che, a forza di costruire cittadini-consumatori senzienti, ha ridotto progressivamente gli spazi di espressione alternativa e la capacità collettiva di conquistarsela.

In questo la Tozzi è spietata e ci offre il quadro di una città divisa tra una minoranza senziente, complice e lobotomizzata, contrapposta a una maggioranza di cittadini silenziosi che vengono fatti scivolare all’esterno o che si accontentano loro malgrado del sogno milanese, oltre a uno sparuto gruppo di critici antagonisti, che però rischiano subito di cedere e aprire il solito centro sociale evoluto, munito di cibo slow food o di sushi a km zero!!! La narrazione critica, aspra e documentata, perde forza nel tono della scrittura quando considera tutta una comunità vasta in maniera eccessivamente severa, come se tutto il mondo diffuso e vitale dell’associazionismo (i dati di pochi anni fa parlano del 7.4% di cittadini coinvolti nelle associazioni e una media di partecipazione tra le più ampie e alte in Italia), il timido emergere di un pulviscolo di gallerie e spazi per la cultura indipendenti (penso ad Assab1, ICA, dopo?, Chez Plinio, Casa degli artisti, BASE, terzopaesaggio, anche se ancora troppo poco in confronto ad altre città europee) , i gruppi di resistenza civile che molte aree periferiche della metropoli hanno generato (come è stato mostrato dal lavoro capillare di Super/Festival delle Periferie che ha mappato e messo a sistema attivo decine di associazioni e gruppi radicati nel tessuto urbano periferico di Milano), così come la vita normale e civile di migliaia di persone che popolano Milano in maniera non necessariamente passiva, non valesse nulla e che fossimo tutti vittime consenzienti di una strategia comunicativa dei poteri forti. 

Nei racconti di Lucia Tozzi sono portate cifre, nomi, date e operazioni che sono la vera anima critica di un lavoro strutturato consapevolmente e serio, con l’obiettivo di costruire un testo critico che provochi e faccia, finalmente, discutere. Si tratta di un pamphlet che, con le dovute differenze, si ricollega idealmente ai testi di denuncia di molti intellettuali italiani che tra gli anni sessanta a settanta ci hanno aiutato ad aprire gli occhi e a costruire modelli critici e progettuali necessari per affrontare i problemi in cui eravamo immersi. 

Sotto questo punto di vista il testo di Lucia Tozzi è un interrogativo aperto sul ruolo dell’intellettuale oggi, che ha smesso di essere apocalittico ed è comodamente integrato, e alla necessità che si tornino a produrre testi e strumenti attivi, critici e politici su cui confrontarsi e che ci aiutino a cambiare una situazione spesso insostenibile.

La città fatta di slogan e di week sta vivendo la sua definitiva fase calante, ma le sfide reali che deve affrontare urgentemente, dovrebbero spingere alla costruzione di strumenti e azioni che vadano oltre il sistema di relazioni politiche, economiche e istituzionali che vivono in maniera autoreferenziale e che non sembrano capaci di costruire alternative visionarie e radicali, per affrontare un tempo che pone interrogativi urgenti in termini di diseguaglianza sociale, economica, culturale e ambientale. 

Da Milano ci si attende di più, sempre, in termini di autonomia e originalità di pensiero e azione che la distingua dalle altre città in competizione in Europa, liberandoci da un senso di conformismo culturale in cui tutte le metropoli occidentali sembrano avvolte. Ma oltre a questo, la vera sfida è politica, in termini di azioni che contengano le differenze economiche, consentendo a fasce differenti della popolazione di abitare dignitosamente questa città. 

Milano non è più la città degli anni Cinquanta del ‘900 con tassi di crescita demografica ed economica oggi impensabili, in cui un welfare evoluto ma paternalista ha costruito le periferie che conosciamo, e in cui vive oggi una percentuale importante della sua popolazione, arrivata quasi alla sua terza generazione e a storie di comunità che a malapena conosciamo. Credo sia illusorio sperare in uno Stato capace di essere l’unico attore di crescita nelle città, ma piuttosto pensiamo sia importante riflettere sul ruolo di garante e arbitro a tutela di tutti i cittadini e non solo delle sue fasce più forti. 

In questo il saggio di Lucia Tozzi ha un limite, perché sottolinea con forza le criticità, ma accenna in maniera troppo rapida e timida alle possibili soluzioni alternative.

La Milano di oggi deve affrontare le sfide di un invecchiamento progressivo e inesorabile della popolazione, di poca cura sulla residenza convenzionata o per fasce giovani e fragili della popolazione, di contenimento dei costi imposti dal mercato immobiliare privato, di una condizione ambientale insostenibile in cui il traffico veicolare privato è ancora troppo diffuso, di un radicale ripensamento degli spazi pubblici, di accoglienza di fasce di nuovi residenti che devono essere integrati, non solo come forza lavoro ma come cittadini. 

La città di oggi sta abbattendo le rigide separazioni funzionali e di zonizzazione su cui è stata costruita nel ‘900 e le sue tante comunità stanno cambiandola dal basso, spesso in contrasto con l’immaginario monocratico di Milano. 

Gli strumenti del secolo passato sono invecchiati, superati e vanno radicalmente ripensati per poter affrontare un tempo globale nuovo e denso di emergenze. 

Il Comune di Milano sta presentando in questi anni una serie di progetti pubblici importanti e ambiziosi, che vivono parallelamente alle tante iniziative immobiliari private che stanno interessando parti significative della città, ma quello che sembra mancare è la lettura di una visione d’insieme e di una strategia pubblica riconoscibile nella sua ampiezza. 

Non basta registrare i cambiamenti ma bisogna governarli con il coraggio di una visione politica e culturale della città. Milano deve tornare ad essere quel laboratorio anomalo di modernità che è stata per lunghi tratti del secolo passato, senza nostalgie, ma con una sprezzatura discreta che l’ha sempre caratterizzata.

Una città è un corpo vivo, che deve fare convivere forti e deboli, diversità e comunità, artificiale e naturale e solo così questa città non morirà di chiacchiere e di asfissia, perché avrà la forza di fare crescere e accogliere anche i suoi anticorpi. Forse gli intellettuali e i progettisti dovrebbero camminare di più per le strade, perdersi e farsi stupire, ascoltare le voci discordi, accogliere le differenze per non farsi a loro volta omologare nella grande narrazione di cui fanno comunque parte. Solo così le voci critiche si moltiplicheranno e costruiranno pensieri alternativi e strumenti di cui Milano e tante metropoli hanno bisogno, per cambiare veramente.

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