Notes on Fashion / Camp. In eccesso di senso

24 Maggio 2019

Vi si accede attraverso un corridoio stretto, dalle pareti colorate di rosa. Non un rosa pallido, confetto, bensì un rosa acceso, vivace. Un rosa neon, o shocking; credo si chiami così. Anzi, scelgo di adottare proprio questo aggettivo, shocking, perché ben si presta a calare il lettore nell’atmosfera eccentrica, a metà strada tra il comico e il grottesco, tra l’eccesso e il virtuosismo, che domina l’esposizione Camp: Notes on Fashion in scena al Metropolitan Museum di New York fino all’8 settembre.

Chi si appresta ad accedervi, camminando lungo quel corridoio, non può fare a meno di portare sotto braccio un testo critico prezioso, tanto ammirato quanto criticato, un testo che campeggia, per stralci, anche sulle pareti che ora, gradualmente, si mutano di colore, e traghettano lo spettatore dritto verso la stanza centrale, the camp eye. Il luogo dove il camp va propriamente in scena. 

Il testo a cui faccio riferimento è “Notes On Camp”, un saggio scritto da Susan Sontag nel 1964 in forma di appunti – perché questa, secondo lei, era la forma migliore da utilizzare per quello che sarebbe diventato, di lì a poco, il primo tentativo di spiegazione di una sensibilità tanto complessa, eterogenea, quanto elusiva. E in effetti, Sontag è “il narratore fantasma” dell’intera esposizione – come ha dichiarato lo stesso Andrew Bolton, curatore del Costume Institute – un punto di riferimento teorico imprescindibile (il lettore italiano può trovare la traduzione di questo saggio, insieme ad altro prezioso materiale critico, nei due volumi di Pop Camp, usciti per la rivista “Riga” della Marcos y Marcos, a cura di Fabio Cleto che ora firma anche l’introduzione al catalogo ufficiale dell’esibizione).

 

 

In “Notes On Camp” Sontag propone cinquantotto punti, in forma di lunga lista, un catalogo rigoroso ma consapevolmente provvisorio che vuole definire – termine mai più inappropriato in questo contesto – un luogo abitato da tensioni, conflitti, scontri; un luogo abitato da uno sguardo obliquo, prospettico, che sottende quella “differenza tra la cosa in quanto significa qualcosa, qualunque cosa, e la cosa come puro artificio”. Un luogo, dunque, dove la realtà si riduce a sfilata di segni, che sopravvivono nella loro materialità come puri significanti… significanti di cui ognuno si appropria, prelevando qualcosa, un pezzo, per poi gettarlo nel vortice irrequieto della sua incessante ri-significazione.

 

Da qui, da questo saggio di Sontag – e prima di lei, dalle pagine di Il mondo di sera (1954) di Christopher Isherwood – la critica a venire non ha fatto altro che cercare una definizione di camp, tentando di imbrigliare un concetto di per sé sfuggente, e di offrire una cornice intellegibile a quella sua fastidiosa ineffabilità. Si tratta di posizioni teoriche per lo più contrastanti, tutte però accomunate dalla volontà di situare in quella parola, camp, un concetto chiave, una categoria estetica di importanza epocale. Che cos’è il camp? E come riconoscerlo? Sono queste le domande, spinose se non anche imbarazzanti, che sottendono alla questione. Dopotutto, la mente umana ha bisogno di categorie a cui aggrapparsi. Cosa saremmo noi, fragili esseri umani, senza categorie? Le categorie costituiscono il fondamento di tutta l’attività cognitiva umana, e proprio grazie ad esse, diventa possibile individuare e riconoscere tutto ciò che ci circonda, assegnandogli un nome. Si potrebbe affermare che, senza dubbio, la categorizzazione rappresenta una capacità non solo innata, ma anche necessaria, dal momento che presiede a qualsiasi nostra attività di organizzazione della conoscenza, e al nostro rapporto con il mondo. È lo stratagemma che abbiamo convenzionalmente adottato per darci forma, conferirci una struttura chiara e riconoscibile. È fors’anche un’attività alla quale per molto tempo abbiamo delegato la sicurezza della nostra esistenza. E della nostra sopravvivenza. Ebbene, di tutto questo il camp si prende gioco.

 

 

 “Il camp vede ogni cosa tra virgolette”. Se qualcosa esiste, questo qualcosa esiste solo fra virgolette. Al mondo, si volge lo sguardo solo in senso prospettico, mai assoluto. Meglio ancora se buffonesco. Le categorie tradizionali di maschile/femminile, alto/basso, dentro/fuori, sotto/sopra, vengono tutte messe radicalmente in discussione. Ma non vi è, mi pare, nel camp un tentativo di decostruzione, o di smascheramento del carattere puramente ideologico delle opposizioni tradizionali. Non si generano significati nuovi, sensi nuovi attraverso il camp. Semmai, il camp sospende il senso, in favore di una molteplicità di senso sfrenata, parodica, talvolta incongruente. Non una critica alla realtà, ma una sospensione, non si sa quanto momentanea, di questa stessa realtà per farle dire cose differenti. Per sondare quel lato prismatico, sfaccettato, duplice di ogni esistenza, quel lato che se da una parte suscita un sorriso, dall’altra può trasformare quello stesso sorriso in “senso di revulsione”.

 

Che cos’è allora il camp? Si tratta di un’estetica, qualcuno ha detto, o di un gusto. Qualcun altro preferisce parlare di sensibilità, prospettiva, o modo d’essere. Susan Sontag, nel suo catalogo, ne fa una questione di stile: “Il camp rappresenta la vittoria dello stile sul contenuto”. Qualcun altro, ancora, di performance, tale per cui il camp non è, ma accade. 

Di una sola cosa v’è certezza: coloro che, come me, si apprestano a parlarne, non possono fare altro che compiere un atto di tradimento. E oserei dire, anche di fallimento, verso un qualcosa che per sua natura non appartiene all’ordine dell’essere, dello spiegabile, restando al di sopra di ogni didascalismo.

 

Alla nota cinque del proprio catalogo, Sontag dichiara: “Il gusto camp ha affinità con certe arti, più che con altre”. E tra queste cita immediatamente l’abbigliamento, e più in generale tutti gli elementi del décor visivo. L’esposizione sembra prendere le mosse proprio da qui: 250 pezzi, per lo più capi d’abbigliamento che hanno contribuito nella loro essenza a delineare, con un’attitudine più o meno deliberata, una performance camp. Tra questi, si trovano creazioni di Armani, Versace, Dolce&Gabbana, Prada, Ferragamo, Balenciaga, Vivienne Westwood, Moschino… Veri e propri quadri, disposti lungo le pareti di uno spazio organizzato su due piani, in nicchie variopinte con colori pastello.

Saggiamente, però, prima di condurre lo spettatore nelle declinazioni più contemporanee del camp, la mostra espone anche dipinti, sculture e pezzi d’artigianato capaci di giustapporre in uno spazio dopotutto ristretto un arco temporale assai vasto, che va dal XVII secolo a oggi, senza soluzione di continuità. In altre parole, l’esposizione offre una rapida visione di tutti quei luoghi in cui il camp è accaduto prima ancora che fosse tale; le sue manifestazioni inconsce a Versailles, presso la corte di Re Sole; le sue molteplici apparizioni nella cultura dandy e nella poetica di Oscar Wilde, prima ancora che Sontag provvedesse a farne l’outing.

 

 

Caravaggio trova così posto accanto al marinaio in paillettes di Jean-Paul Gautier. Le foto di Oscar Wilde vengono sistemate accanto a un mantello con pavoni arabescati in oro di Alexander McQueen. Il camp, dopotutto, ha contribuito anche a questo: alla ridefinizione del concetto di bello; l’oggetto artistico ha perso completamente la sua aura. In scena, ora, compaiono “pessimi oggetti pseudoartistici” – come ha detto una volta Gillo Dorfles – che mirano alla magnificazione dell’artificio, si fondano sulla ridondanza, sulla sublimazione dell’esagerazione kitsch. E così facendo, appoggiandosi alla magnificazione dell’artificio, finiscono con l’innescare un processo schizofrenico di feticizzazione che anziché ripetere, ripresentare un’immagine, riesce a minare anche il più saldo dei principi logici, il principio di non-contraddizione, celebrando il travestimento delle “cose che sono ciò che non sono”.

 

L’esposizione riprende l’idea di camp in termini di linguaggio del corpo, un modo di vestirlo, di presentarlo, sullo sfondo di una performatività diffusa, volutamente esagerata. Una teatralità ironica, e divertita, di cui reca traccia la derivazione etimologica (dal francese camper, ma anche se camper, posare), che rimanda tanto all’idea di riproducibilità quanto alla posa, e dunque, ancora una volta, all’artificio. E mai più appropriato poteva essere il parallelo con il mondo del fashion, della moda, che in sé rende la materialità di quell’idea – esposta anni fa da Kristeva e destinata a rivoluzionare la semiotica – di testo come tessuto, insieme di fili per farne un abito, più o meno credibile. Si tratta a mio parere di un’immagine in sé molto evocativa, che ben rende l’idea di complessità, di intreccio e intersezione di fili, di stratificazione di significati. 

 

 

Un trionfo del narcisismo, forse. Ma qui, al mio speculum molle di studioso di psicoanalisi, sia concessa una precisazione. È un narcisismo, quello a cui si assiste nel camp, da intendersi secondo un’accezione peculiare, anche un po’ straniata. Mi riferisco all’accezione teorizzata da Lou-Andres Salomé, che proprio su questo punto si sentì di prendere le distanze dal padre della psicoanalisi, perché a ben vedere, il narcisismo a lei pareva presentare una doppia struttura: se da una parte è coscienza profonda dell’Io, dall’altra è anche identificazione panica col Tutto, piacere per l’indifferenziato. La vita non è altro che questo, una ricerca continua di quel piacere del Tutto. E guai se così non fosse. Se Narciso vedesse riflesso nello specchio solo la propria immagine speculare separata, esiliata da tutto il resto. Questo, mi pare, è il narcisismo professato dal camp. Corpi paradossalmente non assorbiti da alcuna immagine, né propria né altrui, ma disposti a mettersi in discussione affidandosi al vortice della ricezione contingente, in un dissidio costante tra dimensione simbolica e dimensione immaginaria. 

 

E a sua volta, uscendo dalla mostra, lo spettatore avrà lui pure sperimentato la disponibilità del proprio corpo, il suo potere di fascinazione e seduzione – da intendersi nel senso etimologico del termine, se ducere – attraverso la posa di manichini che conducono il suo sguardo nel gioco infinito della rappresentazione, del verosimile, mentre di questi stessi concetti il camp esplora l’effimero, i limiti e le contraddizioni.

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