Cartolina dalla Lettonia
Il Castello di luce
Sono arrivata alla International Writers’ and Translators’ House di Ventspils all’inizio di ottobre, dopo due anni di lista d’attesa – ultimamente è un po’ più difficile entrare in queste residenze perché viene data la precedenza alle persone di nazionalità ucraina. Prima di arrivarci ho passato tre giorni a Riga, una capitale molto pulita, poco affollata e non proprio vivacissima che mi ha colpita, più che per la sua famosa architettura Art Nouveau, per la strabiliante biblioteca nazionale, nota anche come Gaismas pils (Castello di luce), progettata dall’architetto Gunnar Birkerts e aperta al pubblico nel 2014. Nella letteratura e nel folklore lettone, il castello di luce è una metafora della saggezza perduta che può essere recuperata solo dopo che il popolo avrà superato l’oscurità simbolica della guerra, dell’invasione e dell’occupazione. L’edificio, alto tredici piani, ha la forma di una montagna, sormontata da una fiamma di vetro che all’interno ospita divanetti da lettura con un magnifico panorama sulla città. Qualche mese prima dell’apertura, una catena umana ha simbolicamente trasportato alcuni oggetti dalla vecchia sede della biblioteca a quella nuova, un evento che ricordava la famosa Catena Baltica dell’agosto 1989, quando due milioni di persone, tenendosi per mano, formarono una catena umana lunga circa 675 km che collegava fra loro Tallinn, Riga e Vilnius. Quell’evento, che diede il via al distacco dei paesi baltici dall’Unione Sovietica, mi è stato descritto dalle amiche lettoni come una delle pochissime cose che hanno accomunato i tre paesi nel corso della loro storia. Solo chi non le conosce, infatti, parla delle tre repubbliche baltiche come se fossero un blocco unico, mentre si tratta di tre nazioni diversissime per cultura, storia, lingua e carattere.
La movida di Ventspils
Dopo un viaggio di tre ore in autobus – in Lettonia ci sono pochi treni e molti autobus, sempre puntuali – sono arrivata a Ventspils. Durante il tragitto ho visto foreste e campagna, il paesaggio tipico di una nazione rurale con un importante settore silvicolo e una popolazione che non arriva ai due milioni di abitanti (la densità è di circa 30 abitanti per km2, contro i 195 dell’Italia). Ventspils è una cittadina di 40.000 abitanti affacciata sul Baltico, nella Lettonia occidentale. D’estate pare che le sue bellissime spiagge attraggano frotte di turisti, ma in ottobre si fatica a incontrare qualcuno per strada. La sera, poi, i luoghi di ritrovo si contano sulle dita di una mano – la gente qui non esce la sera, non si usa, mi dicono i lettoni. Pare che si usi poco anche invitare a cena gli amici, anche perché qui, come in altri paesi nordici, i pasti sono organizzati in modo diverso che da noi: dopo un’abbondante colazione salata e un pranzo verso le due, in genere la sera ci si limita a uno spuntino. Io però non riesco credere che nessuno esca di sera – anche se la stessa cosa l’ho già sperimentata nel paesino finlandese dove passo parte dell’estate a fare la WWOOFer – e così una sera decido di andare a bere un’ottima birra lettone in un locale “alternativo”, un negozio di biciclette che funge anche da birreria. Mi accompagna Jean Atkin, poeta inglese in cerca di un pub. Entriamo nel locale. Ci guardiamo intorno. Una stanza non molto grande, con biciclette appese alle pareti, attrezzatura per la riparazione di biciclette sugli scaffali, un bersaglio per le freccette che per un istante sembra promettere socialità. Due tavoli, un piccolo banco del bar. Cinque persone in tutto, compreso il barista. Si voltano a guardarci. Tacciono. Non sorridono. Sembra la scena di un film in cui due neri entrano in un saloon dell’Alabama frequentato da membri del KKK. Poi Jean, in uno slancio di disperata vivacità, attacca a parlare a raffica, e con nostra sorpresa un giovane bello e gentile le risponde: ha vissuto a Manchester, ci spiega, parla benissimo l’inglese ed evidentemente ha avuto pietà di noi, perché si ferma a chiacchierare per qualche minuto, il tempo di stemperare l’imbarazzo. Più tardi le amiche lettoni ci spiegano che qui le persone sorridono solo a quelli che conoscono e che trovano simpatici; una di loro mi racconta che una sua amica, trasferitasi in Inghilterra, era rimasta orripilata dalla facilità con cui la gente le sorrideva, cosa che per lei era un segno non di gentilezza ma d’ipocrisia.
Qualche sera dopo io e l’artista austriaca Katharina Zanon decidiamo di andare in piscina a fare la sauna. Non abbiamo il costume (i lettoni, ci hanno spiegato, sono piuttosto pudichi e non usano fare la sauna ignudi), ma, pensiamo, se ci andiamo a ridosso dell’orario di chiusura, dalle sette alle nove, non troveremo nessuno e potremo starcene tranquillamente in costume evitico. Invece ci attende una sorpresa: la piscina è affollatissima. A quanto pare tutti i teenager di Ventspils si sono dati appuntamento nelle vasche dell’idromassaggio. Ecco dove passano le serate! Sono proprio dei bravi ragazzi, penso: così evitano l’alcol, stanno al caldo e possono occhieggiarsi in costume da bagno. A noi, invece, tocca fare la sauna in mutande.
L’oligarca generoso
Giro in bicicletta per Ventspils. Foglie sfavillanti, temperature che oscillano fra i quindici e i quattro gradi – quelle che c’erano a casa mia, nell’Italia del nord, fino a qualche anno fa –, aria profumata di cose verdi che si stanno spegnendo. Vento, cieli azzurrissimi, spiagge bianche e Baltico marrone. L’architettura della città è un misto di casette di legno cadenti ma abitate, splendide ville ristrutturate ma spesso vuote, antichi palazzi signorili in via di sgretolamento, e poi, appena si esce dal centro, gli immancabili, deprimenti casermoni sovietici. Ma ci sono anche bei parchi con dovizia di giochi per bambini, ci sono piste ciclabili dappertutto, ci sono edifici modernissimi ed eleganti: la sala concerti, il museo della scienza, il planetario, il museo all’aperto e ben sette biblioteche. E poi ci sono le mucche: ventotto statue di mucche sparse in giro per la città, venticinque a grandezza naturale e tre enormi, create da artisti lettoni e internazionali: vicino alla stazione degli autobus c’è la mucca poliziotta in tenuta antisommossa, in uno dei tanti parchi c’è la mucca di fiori (i lettoni amano molto i fiori, li regalano in ogni occasione, la città è piena di aiuole curatissime), e vicino al porto c’è la mucca marinaia.
Bici in prestito
Mucca in barca
(Le foto e i testi che le accompagnano sono di Jean Atkin, traduzione mia)
Ventspils, che sorge alla foce del fiume Venta, è un porto importante, dove prima dell’attuale guerra passava il gas russo e oggi passa soprattutto carbone. Sull’altra sponda del fiume, in una zona inaccessibile ai non addetti ai lavori, dietro la fila di gru portuali gialle e rosse si trovano magazzini e un edificio di mattoni rossi che ossessiona me e Jean.
Sminuito dal nuovo
millennio,
impolverato di carbone,
inquisito dal collo delle gru,
il magazzino di mattoni rossi
inarca un sopracciglio
Molte delle moderne bellezze di Ventspils – dagli edifici pubblici che sono gioielli architettonici ai parchi pieni di giochi per bambini, dalle piste ciclabili alla perfetta selciatura delle strade – si devono all’oligarca Aivars Lembergs, cinque volte sindaco della città (dal 1988 al 2021) e suo padrone politico assoluto, condannato a cinque anni di carcere (di cui ne ha scontato solo uno) per riciclaggio e altre di quelle cose che fanno gli oligarchi. I pareri su di lui sono discordi: alcuni lo detestano senza mezzi termini, altri dicono: “ci sono tanti politici corrotti che intascano i fondi pubblici e non danno niente alla popolazione. Lui almeno ha fatto tante cose buone per la città”.
Il cimitero ebraico
La storia della Lettonia è una sequela di invasioni e dominazioni straniere. Rimbalzata nei secoli dalla Russia alla Germania, occupata nel 1940 dall’Armata Rossa, invasa nel 1941 dalla Germania nazista, dopo la seconda guerra mondiale venne definitivamente rioccupata dall’Unione Sovietica, che la sottopose a una pesante politica di russificazione: si deportavano i lettoni in zone poco vivibili dell’URSS e al loro posto si importavano i russi. A Riga ho avuto l’impressione che quasi metà della popolazione fosse russofona; a Ventspils invece sento parlare russo quasi solo al mercato, dove vado a comprare finferli, aneto e pane di segale. Uso le mie quattro parole di russo per chiedere il prezzo, ma l’orgoglio di ricordarmi ancora qualcosa di quello che ho studiato all’università è sempre tinto dalla vaga inquietudine di usare una lingua sgradita. In realtà non dovrei preoccuparmi: oggi i russi rappresentano il 26% della popolazione, una minoranza così numerosa che difficilmente i lettoni potrebbero infastidirsi ogni volta che li sentono parlare.
Dopo l’indipendenza, dichiarata nel 1991, la rapida e incontrollata liberalizzazione dell’economia lasciò mano libera alle attività illecite volte ad acquisire il controllo dell’edilizia, delle industrie e delle banche. La compositrice Ieva Dubova, lettone che vive da molto tempo in Inghilterra, mi racconta che gli anni Novanta furono un brutto periodo per molti lettoni: la mafia faceva incetta di abitazioni imponendo ai proprietari di venderle a prezzi irrisori, e bruciando le case di chi, come la nonna di Ieva, si rifiutava di cedere al ricatto.
Durante un giro in bicicletta nella foresta di Kaziņas, un bel bosco ciclabile che forma un parco alla periferia della città (dove in autunno si incontra molta gente armata di coltello: non sono serial killer, bensì lettoni in cerca di finferli), arrivo a un vecchio cimitero ebraico. In mezzo agli splendidi colori della foresta, da principio non percepisco la desolazione di quel luogo. Ma le tombe sono abbandonate, a volte quasi completamente sprofondate nel terreno, e leggendo le date mi accorgo che non ci sono morti successivi al 1941: l’anno in cui le truppe naziste occuparono Ventspils. Arrivati all’inizio di luglio, i nazisti cominciarono quasi subito ad arrestare gli ebrei della città e dei dintorni. Una parte di loro, dopo essere stata reclusa in un ghetto provvisorio – un edificio in Kuģinieku iela – venne mandata ai lavori forzati, mentre gli altri vennero assassinati nella foresta di Kaziņas dalle SD naziste assistite da gruppi di autodifesa locali. Sotto quella foresta apparentemente idilliaca, con i suoi finferli e le sue linde piste ciclabili, sono sepolti in fosse comuni quasi mille fra uomini, donne e bambini. Nel 1959 i sovietici eressero un monumento nella foresta a ricordo del massacro: un obelisco bianco con una stella rossa a cinque punte e un’iscrizione in lettone e russo: “In questo luogo nel 1941/1942 i fascisti tedeschi e i loro scagnozzi misero a morte e seppellirono molti cittadini sovietici”. Non ebrei, non lettoni: cittadini sovietici. Non c’è da stupirsi se oggi i lettoni hanno paura di perdere la loro giovane, preziosa indipendenza.
lo stucco precipita giù
per un secolo buio
in Kuģinieku iela
dove c’era il ghetto
Silvia Pareschi traduce letteratura angloamericana per Adelphi, Einaudi e Mondadori. È autrice del libro di racconti I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani (Giunti 2016) e del saggio Fra le righe. Il piacere di tradurre (Laterza 2024).
Jean Atkin è autrice di diverse raccolte di poesia, fra cui Not Lost Since Last Time (Oversteps Books 2013), How Time is in Fields (Indigo Dreams Publishing 2019) e High Nowhere (Indigo Dreams Publishing 2023).