Per così dire / Quadri, cornici e altre strategie

5 Novembre 2018

Niente di più banale di una cornice, buona cosa di pessimo gusto, come una tovaglietta mal ricamata o un souvenir polveroso. Niente di più importante della cornice, oggetto semiotico e dispositivo strategico che supera spesso i suoi compiti istituzionali – servire il quadro – per farsi metafora di situazioni e fenomeni ben più grandi di lei. La cornice, in linea di principio, è un semplice congegno che delimita uno spazio – rettangolare, quadrato, rotondo o chissà come altro –, segnalando che cosa è semplice parete e che cosa invece può chiamarsi quadro, dunque immagine, dunque opera d’arte. Grazie a essa, gli spazi in gioco divengono due, anzi tre: il primo è l’immagine, su cui si concentra lo sguardo dello spettatore; il secondo è tutto il resto, ossia tutto ciò che non possiamo dire immagine, non interessante e quotidiano; il terzo è la cornice stessa che, in senso stretto, non sta né nel primo né nel secondo spazio, garantendo surrettiziamente l’esistenza di ambedue. 

 

La cornice è una componente artistica? Assolutamente no, almeno in prima istanza. È faccenda d’ogni giorno? Nemmeno, ovviamente. Essa è piuttosto quell’artificio che, separando il mondo della quotidianità da quello dell’artisticità, li mette al tempo stesso in contatto. Con tutte le variazioni, i giochi, i trompe l’oeil, le contraddizioni e le negazioni del caso. Gli artisti hanno sempre giocato con la cornice, inserendola come parte dei loro dipinti, oppure usandola come varco da cui far fuoriuscire dei peculiari personaggi, oppure ancora risucchiandola come finestra dalla quale affacciarsi per ammirare i paesaggi più vari e scene d’ogni tipo. Oppure, infine, sbarazzandosene del tutto per negare, con essa, una certa idea di mimesi, se non la rappresentazione tout court, bestia nera della maggior parte delle operazioni artistiche novecentesche e oltre.

 

Così, ogni immagine, prima ancora di rappresentare qualcosa, si presenta al suo osservatore, dice qualcosa di sé e del suo lavoro mimetico, dà in un certo senso le istruzioni per l’uso della sua stessa visione. Di conseguenza, ci sono cornici che sovrastano i quadri ed altre che li accentuano, cornici che si vantano di se stesse ed altre che s’acquattano silenziose per far emergere l’immagine, apparentemente, da sola. Da questo punto di vista, le forme di figurazione presenti nella cornice hanno un loro sicuro significato, in quanto tali e nella relazione che instaurano fra l’interno dell’immagine (con la quale per es. possono darsi casi di messa in continuità, o in discontinuità) ma anche con l’esterno (si pensi ai casi di architetture dipinte). 

 

Non è un caso peraltro – come mostra l’eccezionale antologia di testi critici a essa dedicati messi insieme da Daniela Ferrari e Andrea Pinotti (La cornice. Storia, teorie, testi, Johan e Levi, pp. 231, € 24) – che giusto quando gli artisti hanno iniziato a emanciparsi della cornice (e di tutto ciò che comporta in termini estetici e comunicativi), essa sia divenuta oggetto di riflessione di una pletora di studiosi, filosofi, sociologi, scrittori e semiologi: da Simmel a Ortega, da Bloch a Shapiro, da Derrida a Arnheim, da Marin al Gruppo µ a Stoichita e ai tanti altri che la bibliografia finale segnala con accuratezza. L’oggetto, appunto, sembra banale ma, a ben pensarci, si tratta con buona probabilità del motore fondamentale di ogni produzione di senso. Se qualcosa ha un significato e un valore, sappiamo, è perché si separa da un’altra, che avrà significato e valore opposti. La lingua funziona così, la società pure.

 

Svolgono esattamente lo stesso ruolo della cornice difatti, in altre sfere dell’arte e della comunicazione, il sipario teatrale, la copertina dei libri, le sigle televisive, i titoli di testa e di coda al cinema e così via; anche dire ‘pronto’ al telefono è incorniciare la conversazione. Del resto, come nota Shapiro, sembra che la cornice del quadro sia nata anche a imitazione delle mura della città. Come queste delimitano lo spazio urbano e lo difendono dalle incursioni esterne, analogamente incorniciare un’opera è decretarne il valore artistico, la pregnanza comunicativa, dettando allo spettatore la corretta direzione dello sguardo e, in tal modo, proteggendola da occhi vaganti e insicuri, da incursioni indiscrete, da divagazioni pericolose. 

Trattandosi di un meccanismo enunciativo, la cornice pone, oltre alla questione dell’osservatore del quadro, quella del ‘chi parla’ nel quadro: si tratta direttamente del pittore o di qualche figura delegata? Il produttore dell’opera ascrive a sé ciò che rappresenta, o preferisce fare in modo che siano altre figure a (far finta di) rappresentare l’immagine? In questo senso, è possibile intravedere una forma di parallelismo fra il meccanismo della cornice e quello delle virgolette: dispositivo linguistico che incornicia tratti del flusso verbale facendone un discorso di secondo grado, un discorso riportato. Da cui una formula come: (io dico che) egli dice che: “xyz”, dove le parentesi e le virgolette entrano in tensione, facendo le une da peso al contrappeso delle altre. Più l’enunciatore avoca a sé la parola, meno valore hanno le virgolette, e viceversa. Si mette fra virgolette qualcosa per attestare la presenza di un altro enunciatore, e dunque per distaccarsi da ciò che si dice, per non prendersene talvolta la responsabilità. “Io dico questo, ma in realtà è lui che lo dice, a me non riguarda, anzi mi sembra del tutto assurdo!”. Da cui la funzione ironica delle virgolette, la funzione di messa in dubbio – o in ridicolo – di ciò che si dice. Qualcosa come “…” = per così dire. Così anche una cornice può avere una funzione ironica, può rappresentare una cosa e al contempo prenderne le distanze dicendo per così dire.

 

Dalla cornice passiamo così alla frontiera, e siamo all’oggi. Se nel saggio introduttivo della Ferrari apprendiamo un sacco di cose interessanti circa l’origine e gli sviluppi di questo “ruffiano del quadro” nel corso della storia dell’arte (come per esempio la frequente pratica ottocentesca del tagliare i quadri, in molte gallerie, per inserirli a posteriori in cornici a cassetta di egual misura), in quello, più filosofico, di Pinotti il discorso s’allarga. Da una parte, viene osservato come la presunta assenza della cornice nella contemporaneità non è poi così certa: i musei, in fondo, non fanno altro che isolare i quadri dal loro contesto d’origine, per proteggendoli da eventuali insidie, in qualche modo sacralizzandoli. D’altra parte, la questione della circoscrizione, e della sua trasgressione, sembra essere oggi uno dei fenomeni, e dei problemi, più importanti e delicati del mondo attuale. Non si fa altro che alzare muri, erigere frontiere, costruire improbabili enclave. E non si fa altro che scavalcare, superare, scalare, sgusciar via. La geopolitica attuale è una serie di immagini in cornice, una pinacoteca di opere dove c’è chi vi si racchiude per difendere i propri privilegi, e c’è chi vi resta fuori, disperato, senza arte né parte. Interi popoli stanno in cornice, interi altri fanno da parete. Urge un gallerista capace. 

 

Una versione più breve di questo articolo è già uscita su "Tuttolibri".

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