Consumato e finito / Dialetto ed economia circolare

21 Dicembre 2019

Nel dialetto del mio paese non c’è parola per esprimere il concetto di consumato. O almeno c’è – la t che diventa d e la o finale che diventa e in consumade – ma è scarsamente utilizzata e forse è di introduzione recente, in epoca contemporanea. 

Del resto, il consumo come la società dei consumi sono un humus nuovo in cui solo alcune generazioni sono nate e cresciute. Gli echi nel linguaggio non possono essere che recenti. 

 

Prima, era stata un’economia povera ma sempre autosostenibile, all’interno di cicli naturali, dei quali oggi stiamo riscoprendo le necessarie positività. La riscopriamo nell’urgenza di darci nuovi modelli rispetto a una società dei consumi appunto ormai non più sostenibile. Qualcosa da reimparare con urgenza all’interno di uno sviluppo economico che in origine neppure aveva considerato l’ipotesi dell’esaurimento delle risorse naturali. 

Non riconoscere che il mondo e il proprio ambiente fossero “finiti”, quello il vizio di fondo insieme all’assuefazione della normalità di produrre rifiuti. Entrambi figli della convinzione di un ruolo dell’uomo al di sopra della natura e di un’economia cosiddetta aperta: ovvero si produce, si consuma e alla fine si scarta, si getta, si distrugge. C’è stata in questa visione comune e a lungo accettata la stratificazione, anche casuale, del peggio dell’illuminismo, della presunzione figlia della scienza, del positivismo e infine della tecnologia e del capitalismo. È stato l’accavallarsi di diverse sfumature di quello che gli antichi Greci definivano Hybris, ovvero il peccato della tracotanza e della presunzione, di cui Prometeo rappresenta il mito più alto, lui che nel regalare il fuoco agli umani (e la tecnologia) si rese simile agli Dei.

 

In una sintesi un po’ brutale, la “stratificazione non sostenibile” di cui subiamo le conseguenze è stata la conseguenza della rivoluzione del pensiero occidentale i cui semi più decisivi affondano nella filosofia e nella scienza a partire dalla seconda metà del Settecento. Nella concretezza, è stata ed è ancora qualcosa che le generazioni nate nell’ultimo dopoguerra hanno avuto sulla pelle, loro malgrado, inavvertita. 

Per questo, a ben vedere oggi il paradigma della sostenibilità appare nuovo solo all’interno di una modernità recente, quest’ultima parente strettissima della tecnologia e del capitalismo.

 

Opera di Alex Prager.


Dicevamo di un vocabolo, consumare, figlio del presente, perché prima e a ritroso nella notte dei tempi, ogni cosa, ogni oggetto si riparava, si riutilizzava, si riciclava. E la controprova che il linguaggio lascia dietro di noi segni impalpabili eppur profondi e condivisi da tutta una comunità; così come ulteriore personale, accessoria conferma si ha nel cercare nel mio dialetto le parole scarto oppure rifiuto: inesistenti, conferma di una realtà che tutto avvolgeva e tutto restituiva.

Tutto restava dentro un’economia e un modo di vivere in cui la filosofia illuminista e positivista, nella lenta quotidianità di tutti i giorni, era lontana, relegata per lungo tempo solo nelle “nicchie ecologiche” della società urbana. Altrove, nella vita quotidiana nulla usciva e tutto conservava una funzione, un ruolo, una sua utilità e dignità, tanto maggiore quanto questo bene era un bene collettivo: inesistenti dunque le parole scarto e rifiuto e inimmaginabili i loro concetti. E alla fine, di ogni oggetto e di ogni ciclo, quello che restava diventava concime oppure combustibile.

 

Dunque non si diceva né concepiva “il consumato” e quello che nel dialetto – e in quella società – più si avvicinava al concetto era qualcos’altro; era fnide ovvero finito.

Quando una cosa l’era fnida era davvero finita... non rimaneva altro che il concime o il combustibile. Il fuoco per sparire esalando calore o sotto terra per rigenerare un giorno; in entrambi i casi lasciando una residua utilità collettiva in questo sparire...

Non c’era altro da dire e da fare... fnide significava quello, finito, almeno nel presente, buono per il fuoco o per la terra.

Quel termine mi torna con tutta la sua forza in un’espressione che ho sentito dai vecchi di un tempo e anche da mio padre, dopo aver casualmente incontrato un suo amico: l’espressione con cui aveva riassunto a mia madre quell’incontro era stata:

L’homme l’è fnide....

 

Un’espressione che era anche una diagnosi, una prognosi, una condanna, la nuda verità restituita dal linguaggio. C’era la vita di un uomo che stava per terminare e la pietà di chi restava. Una pietà che tuttavia non era solo individuale, non era solo quella di mio padre, perché era l’umanità che restava – homme è sia uomo che umanità – che guardava quel finire, era quell’umanità a generare e a condividere quella pietà.

È qualcosa di cui mi rendo conto abbiamo difficoltà a recuperarne l’essenza, generazioni cresciute e involontariamente maleducate a pensare che tutto sia sostituibile, consumabile e lentamente diseducate a percepire un sentimento di bene realmente collettivo e condiviso.

Recuperare quell’essenza, da qualunque punto di vista la si guardi, forse è la prima necessità del nuovo paradigma della sostenibilità.

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