Lettera aperta a Famiglia Cristiana

18 Novembre 2014

In tempi recenti il tema della sessualità, in relazione alle unioni omosessuali, è stato più volte al centro dell’attenzione mediatica: la questione si è anche posta in relazione all’insegnamento dell’educazione sessuale e alla sensibilizzazione per le differenze, che ha generato numerose reazioni da parte delle istituzioni cattoliche contro iniziative bollate come “pro-omosessualità”. All’iniziativa della curia milanese, volta a documentare le scuole in cui si insegna la «teoria del “gender”», si aggiunge la recente pubblicazione del vademecum di Famiglia Cristiana per invitare i genitori a vigilare sull’insegnamento e a tutelare in questo senso l'educazione dei propri figli.

 

Il fatto non è di poco conto perché chiama in causa policy di educazione alla tolleranza/rispetto, libertà di insegnamento, laicità della scuola e il fatto che la scuola sia spesso oggettivamente un luogo di sofferenza per l'adolescente che sta definendo, anche in termini sessuali, la propria identità. Su tutto emerge prepotentemente il bisogno di chiarire alcuni grossi equivoci di natura teorica.

 


 

Pubblichiamo di seguito la lettera aperta che Cristiano Lanzano ha indirizzato a Famiglia Cristiana, in quanto scienziato sociale, studioso di antropologia, che si professa credente.

 

 

Gentili redattori di Famiglia Cristiana,

 

Essendo un vostro (occasionale) lettore, sono molto sorpreso dalla vostra scelta di pubblicare, senza un minimo di contestualizzazione critica, il decalogo del Forum delle Famiglie “a difesa della libertà d’educazione”. Vi ho sempre considerati una rivista pluralista e comunque non incline agli slogan ma piuttosto all’approfondimento di temi così delicati. La mia sorpresa è doppia: in quanto credente (per quanto critico e talvolta distante dalle posizioni ufficiali della chiesa cattolica) e in quanto scienziato sociale.

 

Da scienziato sociale, vorrei dirvi che il “genere” (o gender) non è un’ideologia. Non è neppure un’unica teoria. È un concetto, che usiamo per rendere conto del fatto che il patrimonio genetico o l’anatomia non bastano a spiegare che cosa significhi essere uomini o essere donne (e trascuro qui, per semplificare, le identità che fuoriescono da categorizzazioni binarie): storie, culture e situazioni socio-economiche diverse plasmano le identità maschili e femminili, e determinano le aspettative che la società nutre nei confronti degli individui in quanto maschi o femmine. Non un’ideologia, quindi, ma un concetto: e un concetto può essere usato in molti modi e anche per arrivare a conclusioni diverse. Si potrebbe usare, ad esempio, per spiegare perché Gesù scelse solo uomini e non donne come suoi apostoli (il contesto storico e la posizione della donna nella società ebraica del tempo avrà contato qualcosa?). Si potrebbe usare per spiegare perché la chiesa cattolica si aspetti cose diverse dagli uomini e dalle donne che ricevono il sacramento dell’ordinazione (mentre altre chiese cristiane non lo fanno), e discutere se sia giusto oppure no. La storia della chiesa è piena di persone che hanno “giocato” con la propria identità di genere e l’hanno parzialmente trasgredita: Giovanna d’Arco si mise a guida di un esercito, Maria Goretti non accettò di essere un oggetto passivo di desiderio sessuale, e sono entrambe sante.

 

La chiesa cattolica basa tuttora il proprio funzionamento su persone, maschi e femmine, che rinunciano volontariamente a una parte dei ruoli inclusi nella propria identità di genere dominante (essere padri e mariti, madri e mogli; essere seducenti e femminili, essere seduttori e virili) per dedicare la propria vita alla preghiera e al servizio. Perché imporre alle suore di dissimulare le forme del proprio corpo, di astenersi dal trucco, di tagliarsi i capelli in modo “non femminile”, se la femminilità è una, naturale e indiscutibile, e se il genere davvero non importa nulla?

 

Usare il concetto di “genere” non significa affatto pensare che le persone possano scegliere la propria identità o il proprio orientamento sessuale (che è ancora un altro discorso) a tavolino, in base a un capriccio del momento, e cambiarli come ci si cambia di vestito. Neppure un lettore molto superficiale di alcune versioni particolarmente radicali del post-strutturalismo e della queer theory sosterrebbe qualcosa del genere. Significa però riconoscere che ci sono modi diversi di essere maschi e femmine, che questi modi sono sempre influenzati dalla società e mai completamente “naturali”, e soprattutto che non sono mai politicamente neutri: in molte situazioni un genere domina sull’altro, o alcuni modi di vivere l’identità di genere risultano vincenti e ne emarginano degli altri.

 

Per fare un esempio. Oggi a scuola molti ragazzi usano “gay” (o più spesso varianti più volgari e spregiative) come un insulto per penalizzare i compagni non abbastanza forti e vincenti. Ma quando andavo a scuola io si usava “suora” per le ragazze non abbastanza femminili o compiacenti. Vogliamo dotarci degli strumenti per spiegare che “gay” e “suora” non sono insulti né categorie da discriminare, ma modi diversi – forse statisticamente minoritari – di vivere la propria identità di genere? Vogliamo aiutare quei ragazzi a capire che, usando quelle parole come insulto, stanno sanzionando i loro compagni e compagne che non si adeguano ai modelli di mascolinità e femminilità dominanti, che loro hanno a loro volta appreso e interiorizzato da qualche parte (e badate, non necessariamente a catechismo o in famiglia, ma molto più spesso sui media e dai loro coetanei)?

 

La seconda cosa invece ve la dico come credente. Ho frequentato per anni il catechismo e sono stato a mia volta animatore in gruppi giovanili. Mi è capitato prima di seguire, e poi di organizzare per ragazzi più giovani, attività di “educazione all’affettività” o sensibilizzazioni sul “superamento degli stereotipi”: stando al decalogo che avete pubblicato, c’era da stare in guardia! A noi invece sembrava che riflettere insieme su modi responsabili e rispettosi (sia verso gli altri che verso se stessi) di vivere l’affettività, e su come combattere le discriminazioni, pur nel rispetto delle sensibilità di ciascuno, fosse una semplice applicazione del messaggio di amore evangelico. Capitava che alcuni ragazzi più giovani replicassero stereotipi xenofobi (contro cui fate campagna anche voi, vedo) o sessisti appresi in famiglia: anche in quei casi, non abbiamo mai pensato di poterci sostituire al ruolo educativo dei genitori, ma abbiamo certamente sperato che noi e altre persone potessero aggiungere un punto di vista e aiutarli a vedere le cose in modo diverso, qualora l’avessero voluto. E in certi casi, è capitato, e ne sono orgoglioso. Se tutta l’educazione si esaurisse in famiglia, non solo la scuola pubblica ma anche il catechismo e le altre occasioni di formazione che la chiesa propone perderebbero di senso. In nessuna famiglia i genitori hanno il monopolio assoluto sul processo di formazione valoriale e politica dei figli, su nessun argomento: ed è una fortuna.

 

Ingenuamente, pensavo che il Vangelo ci chiedesse di coalizzarci contro le ingiustizie e a favore del pieno sviluppo di ogni persona umana, secondo la sua sensibilità e nel rispetto della sua libertà. Voi invece proponete di coalizzarsi per “fronteggiare” una pericolosa teoria che non è neppure possibile definire con precisione. A ognuno i suoi mulini a vento contro cui combattere: buona fortuna.

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