Nuto Revelli e quel cavaliere di Marburg che non amava la guerra

31 Gennaio 2019

Cent’anni fa, il 21 luglio 1919, nasceva Nuto Revelli: alpino, partigiano, scrittore di etica civile                      

Il disperso di Marburg, pubblicato da Einaudi nel 1994, segue le fila di un’inchiesta condotta da Nuto Revelli nell’arco di ben otto anni e, come altri suoi libri, ha la struttura di un diario.

Revelli aveva detestato per tanti anni i tedeschi, identificandoli con l’ideologia disumana che li aveva condotti in una guerra terribile. Tenente del battaglione Tirano, aveva conosciuto la durezza e la protervia dell’esercito germanico durante la ritirata di Russia, e poi durante la Resistenza, da comandante partigiano nelle fila di Giustizia e Libertà. Nell’ultima parte della sua vita era venuto a sapere di un tedesco forse gentile d’animo, forse comprensivo, che amava cavalcare da solo, ucciso dai partigiani senza un serio motivo. Questa morte lo colpì; cercò di saperne di più. Nella speranza di scoprire un alter ego, un altro uomo che ha sofferto e che ha poi capito, e che non ha seminato dolore. 

“Quando la fantasia mi prendeva la mano, mi immedesimavo pericolosamente in quel «disperso», e lo vedevo giovane, ma già segnato dalla guerra, già stanco «dentro» come un vinto. Proprio com'ero io dopo l'esperienza del fronte russo. Ma non appena la pietà sembrava prendere il sopravvento, scattava l'allarme, e interrompevo i miei sogni a occhi aperti”. 

Di dispersi Revelli ne aveva visti tanti durante la ritirata di Russia, uomini, o meglio ragazzi, che a un certo punto non ce la facevano più, si accostavano ai margini della pista, sfiniti e congelati, si accasciavano, chiedevano un’ultima volta aiuto e poi finivano di vivere. Nella sola provincia di Cuneo i dispersi furono 6.500, scomparsi nel nulla, e altrettante famiglie, per lo più contadine, si chiesero per anni che fine avesse fatto il loro congiunto, se un giorno fosse tornato. Il disperso è qualcuno che non è vivo e che non è morto, non si sa più nulla di lui. Anche il soldato tedesco è uno di loro, e per Revelli diventa un simbolo, e prova a scoprire chi era. “Non una ma cento volte, nei lunghi giorni e nelle lunghe notti della ritirata di Russia, ho rischiato di diventare un «disperso»”. 

 

Alla fine dell’indagine non troverà un “tedesco buono” ma un uomo con poca voglia di fare il soldato, che ha combattuto come lui in Russia, perdendovi il fratello, dichiarato disperso, e che in Italia muore in modo imprevedibile e assurdo. Non un innocente, certo una vittima, una vita sprecata.

Non a caso Il disperso di Marburg otterrà un grande successo sia in Italia sia in Germania, tra i tedeschi è forte il desiderio di scoprire che non tutti i loro padri e i loro nonni si erano fatti annichilire dal pensiero unico nazista, che c’erano stati spazi di ragione e di umanità anche tra le fila dell’esercito. 

Quando comincia la storia di questo libro? Revelli apprende le prime notizie del ‘tedesco buono’ durante il lavoro su Il mondo dei vinti, all’inizio degli anni Settanta. Mentre parla con Marco, un ex partigiano, dei rapporti tra gli uomini della Resistenza e il mondo contadino, quest’ultimo gli racconta di un evento singolare. “Nell’estate del ’44 avvenne un fatto che pochi ricordano e che forse neanche tu conosci. Un ufficiale tedesco tutte le mattine, alla stessa ora, usciva a cavallo dalla caserma di San Rocco, e seguendo sempre lo stesso itinerario raggiungeva la strada che unisce il santuario della Madonna degli Angeli alla cappella della Crocetta. Nei pressi di Tetto Graglia c'è una stradina che scende lungo la ripa e poi si perde nella striscia di terra compresa tra l'altopiano e il greto del Gesso. Il tedesco imboccava questa stradina, superava il sottopassaggio della ferrovia Cuneo-Borgo, poi si inoltrava nell'aperta campagna. Era un uomo tranquillo, sembrava una brava persona. A volte sostava sull'aia della nostra cascina, dove scambiava qualche parola con i bambini. La gente non lo temeva, si era abituata a vederlo comparire sempre alla stessa ora. Un mattino quel tedesco venne ucciso, non si è mai saputo da chi, poco lontano dalla nostra casa. Il suo cavallo ripercorse il solito itinerario e arrivò, solo, al cancello della caserma. Iniziò allora un rastrellamento che durò l'intera giornata, e meno male che non trovarono il morto, altrimenti sarebbe successo il finimondo. Avrebbero ucciso almeno dieci persone innocenti e bruciato tutte le case dei dintorni”.

 

La Bisalta e Cuneo.


Revelli è colpito da questa storia, vuole saperne di più, ma Marco è solo un testimone indiretto, non ha altri dettagli da raccontare. E così Revelli lo saluta, dicendogli che lo avrebbe cercato ancora per chiedergli aiuto nella ricerca di fonti e testimoni. Poi, il lavoro, le ricerche e la scrittura di altre storie, gli fanno dimenticare quella vicenda. Alla fine, in guerra erano morti milioni di uomini, ogni tedesco ucciso, buono o cattivo che fosse, era un nemico in meno, e a quell’immagine del soldato che salutava i bambini sull’aia si sovrapponevano quelle dei bambini ebrei ridotti alla fame visti a Stolbtzj, in Bielorussia, dove la sua tradotta aveva sostato nel luglio del ’42, durante il viaggio verso il fronte russo.

Però quel soldato che cavalcava solitario, quel modo poco ortodosso di fare l’ufficiale, lo intrigavano. Gli ampi spiazzi nei dintorni del torrente Gesso consentivano cavalcate a briglia sciolta, e l’arco delle montagne, ben visibile da quei campi spogli di alberi, aggiungeva bellezza e forse quiete a quel vagare. Tra l’altro, Revelli conosceva bene quella casermetta di San Rocco, vi aveva trascorso alcuni mesi nell’inverno 1941-42, prima della partenza per il fronte russo.

Ai militari tedeschi era vietato, da una espressa disposizione del generale Rudolf Toussaint, al comando delle truppe territoriali, di circolare da soli in zone minacciate dalla presenza di partigiani. Rigide anche le norme sull’utilizzo dei cavalli. Forse quell’ufficiale era un romantico individualista? Magari insofferente verso l’ideologia degli occupanti? 

Revelli vede forse in lui un altro se stesso, che il destino ha portato a combattere con un’altra divisa, con dubbi e passioni individuali che lo rendono diverso dalla terribile macchina da guerra cui apparteneva. 

 

Michele Calandri per tanti anni direttore dell'istituto storico della resistenza di Cuneo.


La ricerca riprende tempo dopo: Revelli raccoglie dettagli dai testimoni di allora, uomini e donne che sanno, incerti anche a distanza di tanti anni tra il dire e il non dire, e da incontri fortunati, come quelli con alcuni storici tedeschi in occasione del Convegno Una storia di tutti – Prigionieri, internati, deportati italiani della seconda guerra mondiale (Torino, 2-3-4 novembre 1987). Lì riesce a parlare con Gerhard Schreiber, autore di accurati studi sugli internati militari italiani in Germania, con Karl Heinz Roth, esperto di archivi, e con Cristoph Schminck-Gustavus, particolarmente interessato al tema delle fonti orali, dei testimoni diretti degli eventi storici.

Nuto Revelli segue le tracce del soldato disperso con la cura, la passione e anche la testarda ostinazione di sempre. Cerca di far parlare i testimoni senza fare pressioni, lasciando che le parole escano fuori spinte dalla fiducia, sapendo che chi conosce la verità ha spesso il desiderio di rivelarla. Si tratta di un uomo ucciso, e chi sa, nonostante sia passato tanto tempo, ha ancora paura. A questa si affiancano la consueta diffidenza e la radicata prudenza dei contadini. In quel mondo,“Ficte nen” era un modo di dire diffuso, “non ficcarti”, “non immischiarti”. Le versioni sono diverse, anche su dettagli minimi come il mese, il colore del cavallo, il luogo dell’agguato, la nazionalità dell’ufficiale, probabilmente tedesco ma forse slavo. Non si sa neppure quali battaglioni tedeschi stazionassero nel 1944 in quella zona.  

Nella lunga indagine lo accompagnano tre studiosi: gli storici Carlo Gentile, Cristoph Schminck-Gustavus e Michele Calandri, ognuno dando un contributo diverso ma essenziale. Revelli scopre la disponibilità e la cura delle istituzioni tedesche verso la memoria e la documentazione storica, e trova invece difficoltà nel nostro Paese. Ma anche gli archivi germanici hanno grosse lacune, a causa del caos prodotto dagli eventi bellici. Molte le piste avviate e poi finite nel nulla, molti i momenti nei quali pensa di rinunciare: dopo tanto tempo dedicato a ricerche su una pluralità di soggetti – soldati, uomini e donne del mondo contadino – quella ricerca su un singolo, su una storia di breve respiro, gli pare un azzardo, un capriccio.  

Michele Calandri, per tanti anni direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Cuneo, mi ha raccontato che il primo dettaglio importante emerse durante una ricerca svolta insieme a Revelli presso l’Archivio di Stato di Cuneo. Scoprono una richiesta di aiuto rivolta alla Prefettura da parte del capitano di un Ost-bataillon (Battaglione Est), nel maggio del 1944. Si tratta di battaglioni composti in buona parte da soldati russi arruolati con le buone o con le cattive durante l’occupazione del loro Paese, magari tra i prigionieri, e guidato da ufficiali tedeschi.

 

Nuto Revelli a Verduno.


Revelli è aiutato anche da alcuni dei mediatori che lo avevano guidato ai tempi del lavoro su Il mondo dei vinti. Se riesce a superare il muro della diffidenza, è anche grazie alla fiducia conquistata allora. Incontra anche una testimone dei giorni e dei mesi successivi all’uccisione del cavaliere.

“Teresa: Era rimasto tutta l'estate insepolto. Pensi lei, d'estate! Poi era arrivata l'onda grossa del fiume. Quando sono andata a vederlo era dopo un grosso temporale. Era nel mezzo di un'isola, Ges fa le fürie (il torrente Gesso fa le furie) aveva portato via tutto. Gesso è mica come il fiume Stura, che si mette nel letto e scorre. C'erano solo più delle ossa sparse. [...] E i resti di una maglia bianca appesi a un ramo. 

- Ma che nessuno abbia pensato di scavare una piccola fossa nella sabbia... 

- Teresa: No, è sempre rimasto là tra i cespugli, allo scoperto”.

 

La caserma di San Rocco Castagnaretta dista appena tre chilometri da Cuneo, una costruzione bianca, estesa ma con un solo piano. Non molto diversa da allora, è oggi intitolata a Ignazio Vian, prima tenente delle Guardia di frontiera poi comandante partigiano. Catturato a Torino dalle SS, venne torturato per molti giorni, e il 22 luglio del 1944 fu impiccato a un albero in Corso Vinzaglio. Da quella caserma un giorno ho ripercorso le cavalcate dell’ufficiale tedesco: usciti da San Rocco, ancora oggi la piana è libera da costruzioni e impianti e la Bisalta, con i suoi 2.200 metri, si staglia contro il cielo azzurro. Probabilmente, ogni tanto il tedesco portava messaggi dalla sua caserma al Comando Germanico di Borgo San Dalmazzo, di certo quel cavalcare nella piana, guardando le montagne, lo attraeva non poco. Difficile pensare a incoscienza o spavalderia, sono luoghi dove un agguato appare davvero improbabile. Sì, con tutta probabilità l’incontro con i partigiani fu davvero fortuito, e molto sfortunato per cavaliere. Sono poi salito sulle colline che portano a Paraloup; tra quelle baite a 1.600 metri, un tempo ricovero dei partigiani di Giustizia e Libertà, si può immaginare il gran senso di libertà che provarono quei giovani fuggiti dalla dittatura e dai tedeschi. Il loro sguardo poteva vedere l’orizzonte aperto sulle montagne e sulla pianura di Cuneo, e tutto un futuro da immaginare, un nuovo mondo, più libero e giusto.

 

Nuto Revelli durante la guerra partigiana.


Parlando con testimoni di buona memoria, Revelli scopre che i partigiani coinvolti nell'imboscata sono probabilmente originari di Boves e appartenenti alle formazioni garibaldine. 

Apprende poi che uno di loro abita nei dintorni di Torino e che il suo nome di battaglia era Renzo. Superando difficoltà e silenzi riesce finalmente a incontrarlo. “Io ero convinto che il mio interlocutore fosse un ex sbandato, uno di quei personaggi ibridi che erano vissuti ai margini delle nostre formazioni partigiane. Lui credeva che io fossi l'ex comandante che pretendeva di salire in cattedra”. 

L’ex partigiano gli racconta che con i suoi compagni si erano rifugiati nella bassa valle Vermenagna, più a monte c'erano troppi tedeschi. Poi un giorno, di mattina, avevano raggiunto la Crocetta, perché era previsto un collegamento con un corriere del tabacco che doveva arrivare da Cuneo. All'improvviso si erano trovati di fronte quell’ufficiale a cavallo, e avevano dovuto catturarlo.

“Ci siamo imbattuti per caso in quel tedesco, tanto è vero che non sapevamo cosa farne, se lasciarlo libero o portarlo con noi. Ma portarlo dove? Trascinarlo fin lassù non era un'impresa facile. Dovevamo attraversare la zona di Borgo, e poi risalire lungo la valle. C'erano i tedeschi e i fascisti dappertutto, c'erano le spie. Ed era pieno giorno (…) Proveniva da San Rocco e stava percorrendo a cavallo la vecchia strada di Borgo. Andrea l'ha visto per primo, e ha dato l'allarme. Come ha visto quel tedesco nel cortile di una cascina ha urlato «Mani in alto!» Erano in cinque o sei, armati di mitra Sten e moschetti. 

“È rimasto come impietrito. Aveva di fronte Andrea con lo Sten puntato, e noi tutt'intorno. Gli ho tolto io la pistola. Poi l'abbiamo costretto a scendere da cavallo, ma rapidamente perché non avevamo tempo da perdere”. 

 

Una delle bandiere di giustizia e libertà.


All’improvviso l’animale si imbizzarrisce e scappa al galoppo. I partigiani temono che il ritorno del solo cavallo in caserma metta in allarme i tedeschi e scappano via attraverso i campi, verso il fiume. “Qui va a finire che i tedeschi ci arrivano addosso, ci siamo detti. E via di corsa”.

Il prigioniero è giovane, alto, li segue senza opporre resistenza, tra i rigagnoli del fiume. A un certo momento, racconta a Revelli, temono di essere inseguiti: forse per un grido o un colpo di fucile lontani. E allora, “Andrea si è fatto consegnare il berretto, la giubba, e gli stivali dal tedesco, poi l'ha ucciso”.

Subito dopo risalgono il fiume, verso Borgo. Con Andrea davanti a tutti, vestito da tedesco, per far credere che il soldato si era unito a loro, che era un disertore. 

È pieno giorno e sicuramente qualcuno li vedrà passare. “Se non ci fu la rappresaglia è perché i tedeschi si saranno convinti che quell'ufficiale era scappato. Altrimenti avrebbero insistito con il rastrellamento. Non si sarebbero limitati a trattenere in caserma quei tredici ostaggi per un giorno o due”.

Revelli chiede a Renzo cosa pensi di quest'episodio, a quasi cinquant'anni di distanza.

“Non avevo ancora vent'anni, il più anziano di noi era Andrea che di anni ne aveva ventidue. Eravamo giovani. Il destino ha voluto che ci imbattessimo in quel tedesco, e va a distinguere in quei momenti se era uno da ammazzare o meno. Per me i tedeschi erano tutti uguali. Avevano ucciso il fratello di mio padre nei giorni dell'8 settembre, ne avevano combinate di tutti i colori, e se catturavano uno di noi lo appendevano a un gancio. I tedeschi... Molti saranno stati costretti a essere feroci, avranno dovuto eseguire degli ordini. Non li odio più oggi. Ma non li perdono”.

 

Nuto Revelli in divisa da tenente nel 1942.


Sfogliando una serie di volumi dedicati ai soldati tedeschi dispersi in guerra, il professor Gentile, riesce a individuare il nome di un giovane ufficiale scomparso proprio tra la primavera e l’estate del ’44 a Cuneo: Rudolf Knaut. Originario di Marburg, nel land dell’Assia, ha studiato nell’Università cittadina, ha combattuto in Francia e in Russia, ed è divenuto sottotenente agli inizi del 1944 dopo aver superato un corso di addestramento. In seguito era stato destinato a prestare servizio in Italia, tra Valle d’Aosta e Piemonte.

Nella pagina che lo riguarda c’è anche una foto: capelli chiari, viso asciutto, sguardo sensibile. Il fratello risulta disperso sul fronte russo.

Gentile riesce anche a recuperare un documento prezioso: una lettera del capitano Lemberg ai genitori di Rudolf, il cui contenuto elimina ogni residuo dubbio sulla dinamica dei fatti e sull’identità dell’ufficiale disperso: “Il loro amato figlio lasciò la caserma da solo con il suo cavallo verso le 6,30 del 16 giugno. Verso le 7,15 il cavallo fece ritorno da solo. Ritenendo che il loro caro figlio avesse avuto un incidente, fu inviato un plotone rinforzato a perlustrare il terreno. Secondo dichiarazioni di civili risultò invece che il loro caro figlio era stato assalito da banditi e portato via su un autocarro.

In quale direzione il mezzo si sia diretto non è noto. Ho provveduto ora a mettere in circolazione degli informatori allo scopo di scoprire presso quale banda il loro figlio sia trattenuto e per entrare in contatto con questo gruppo”.

 

Curiosamente, quando è a un passo dal sapere tutto, quando avrebbe la possibilità di conoscere a Marburg i parenti di Rudolf Knaut, Revelli decide che la sua ricerca è conclusa. L’impulso, che lo aveva spinto a scoprire e conoscere, era già appagato nell’aver compreso l’essenza di quel nemico: non un passivo esecutore di ordini, non un cavaliere romantico che cercava una pace separata, ma un uomo tranquillo, per nulla affascinato dalla retorica guerresca ma poco propenso a opporvisi. 

Il libro si chiude con poche righe che condensano lo stato d’animo di Revelli alla fine dell’indagine: “Un'immagine mi è rimasta ben impressa nella memoria, che le comprende e le riassume tutte. Ogni qual volta rivivo l'episodio di San Rocco mi rivedo davanti agli occhi quel brandello della maglia bianca di Rudolf, risparmiato dall'onda lunga del fiume. Come il segnale di un destino crudele, di una vita sprecata, di una resa”.

 

Paraloup.


In Italia la presentazione più memorabile è forse quella avvenuta a Cuneo, nel dicembre del 1994, presenti Giulio Einaudi, Ezio Mauro, Adriana Zarri e Michele Calandri. Nel gennaio del 1995 il libro viene presentato a Marburg, nella medesima Università dove aveva studiato Rudolph Knaut. All’incontro sono presenti molti studenti e anche alcuni ex compagni di scuola di Knaut. 

Durante quel viaggio scoprono che Rudolph era stato iscritto dai genitori alla Hitler-Jugend, alla Gioventù hitleriana, ma non era mai stato membro della NSDAP, il partito nazionalsocialista, una notizia che dette conforto alle supposizioni di Revelli: forse c’era davvero del buono in quel cavaliere solitario.

La lunga ricerca di Nuto Revelli, tra archivi e fonti orali, è un esempio magistrale di come andrebbe svolta la ricerca storica, con tenacia e amore di verità, incrociando sempre le fonti tra loro, senza mai accontentarsi della prima versione ottenuta. Seguendo le tracce del suo lavoro ho provato un immenso rammarico: mi sarebbe piaciuto parlare a lungo con lui, ascoltarlo. Ci restano i suoi libri e il suo esempio.

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