Più alta di tutte, co’ suoi rami allargati / Uva turca

24 Settembre 2017

Ben prima di Gilles Clément, teorico del «terzo paesaggio», il nostro Alessandro Manzoni è titolare se non di un elogio certo di un democratico omaggio alle erbe spontanee. Nel celebre passo sulla vigna di Renzo (cap. XXIII) lo scrittore appassionato di botanica elenca una gran varietà di essenze vegetali divenute padrone del piccolo podere. Questo quadro naturalistico ha nell’economia dei Promessi Sposi anche un sovrasenso etico-metaforico, ma qui ci fermiamo al siparietto, all’a parte descrittivo in cui diminutivi e accrescitivi palesano il divertimento della voce narrante: lo sguardo avanza nell’insieme caotico dei colori e delle forme di foglie e frutti con progressiva distinzione, finché si sofferma su una pianta più alta e vistosa delle altre:

 

 

Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amaranti verdi, di radichielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri.

 

 

Il ritratto non può essere più somigliante e preciso. L’uva turca, popolarmente chiamata anche uva uccellina, cremesina o semplicemente lacca (da sardi e napoletani), è in botanica rubricata sotto l’etichetta di Phytolacca decandra. Originaria dell’America del Nord, dov’è chiamata Poke, fu importata in Europa come pianta ornamentale nei primi anni del Seicento: dunque, Manzoni si era ben documentato per non incorrere in un anacronismo. La sua parente arborea sudamericana – la Phytolacca dioica – raggiunge i venti metri e la troviamo naturalizzata nelle zone mediterranee. L’erbacea annuale è invece neofita su tutto il territorio nazionale e a tal punto invasiva che strapparne l’innumere figliolanza mi appare talora fatica improba. Dal fittone bianco e carnoso, difficile da sradicare se non da infante, può svilupparsi un fusto vigoroso alto fino a tre metri, verde dapprima, poi sempre più porporino fino al rosso viola della livrea autunnale. Le foglie dal breve picciolo, lanceolate e alterne, hanno margine intero, opposti ad esse si dipartono i racemi penduli dei fiori bianco verdastri venati di rosa. Questi non hanno petali ma cinque sepali, dieci stami e un ovario verde, con altrettanti carpelli contenenti i semi, che crescendo al centro sortisce nel frutto, anch’esso prima verde poi porpora fino al nero lacca per cui il nome botanico pare ben speso.

 

 

L’occhio acuto di Manzoni nella gradualità con cui le bacche giungono a maturazione ha colto il momento in cui coesistono con gli ultimi fiori all’apice del grappolo. 

Benché pianta tossica, già i nativi americani ne conoscevano le proprietà curative e i blandi effetti narcotici e ipnotici: se ben dosati gli estratti di radici e frutti sono validi espedienti contro mastiti, dermatiti, infiammazioni. Dalle bacche si ottiene un colorante per tessuti e inchiostri, in passato, anche per i vini e per l’industria dolciaria, inoltre, dal fittone ricco di saponina si possono ricavare detergenti naturali. I giovani getti, sbollentati più volte, sono una leccornia negli States dove si trovano in commercio anche in scatola: vi ricordate la canzone Polk salade Annie cantata da Elvis e da Tom Jones? 

 

Tutto questo sforzo per trovare all’uva turca qualche pregio che non sia quello di invadente pianta da friches che ha negli uccelli efficienti alleati per la sua rapida diffusione. Ma, confesso: mi piace lasciarne qui e là qualche esemplare isolato in giardino per godere in settembre del fuoco delle sue porpore e dei frulli golosi dei merli.

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