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Scienza e dissenso / La lingua nel tempo del Coronavirus

2 Marzo 2020

Termine di un lessico tecnico-scientifico, coronavirus è, come parte del discorso, un nome comune: “s[ostantivo] m[aschile] […], invar[iabile] - Gruppo di virus a RNA, morfologicamente caratterizzato da una frangia di proiezioni superficiali a guisa di corona. I c[oronavirus] patogeni per l’uomo sono responsabili di affezioni acute delle prime vie respiratorie, compresa una forma di raffreddore”. Ecco quanto ne dice la voce del Supplemento al Lessico universale italiano dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana. La pubblicazione rimonta al 1985: è dunque escluso che il riferimento al raffreddore stia lì a fare volontaria ironia. Capita tuttavia che l’ironia sia ultra-umana e se ne impipi delle volontà. Col tempo, può così comparire persino in una voce enciclopedica, inattesa.

 

Coronavirus ce ne sono allora tanti: come tipi, s’intende; che siano d’altra parte tanti come repliche di ciascun tipo va da sé: diversamente, non si parlerebbe in proposito di rischi di epidemia o, addirittura, di pandemia. La gente del mestiere può trovarsi così nella necessità di battezzare un tipo o un altro, per dirne e scriverne univocamente. Tra competenti, ciò può diventare indispensabile, come si capisce. SARS-CoV-2 o n-CoV-2019 sono le designazioni proprie che gli specialisti hanno dato al coronavirus che si è minacciosamente affacciato qualche settimana fa in una città della Cina (tanto da essere anche detto coronavirus di Wuhan) e adesso viaggia per il mondo. Gli fa da vettore l’apparato respiratorio di esseri umani, cui esso provoca una malattia denominata, sempre dagli specialisti, COVID-19.

Fuori dei laboratori e delle pubblicazioni scientifiche, questa panoplia di denominazioni non ha ovviamente attecchito. Nella lingua d’uso, a furor di popolo, è stato invece il nome comune coronavirus a trovarsi innalzato al rango di designazione propria. Come? Per via di ricorrenze rigorosamente al singolare, quanto a numero grammaticale, e stabilmente precedute dall’articolo determinativo, quanto a sintassi. Un (tipo di) coronavirus è così divenuto “il Coronavirus”. Quanto a modello, un’antonomasia classica, come, per esempio, “l’Urbe”, “il (sommo) Poeta”, “il Duce” e, per un confronto molto pertinente nel caso specifico, “il Maligno”. 

 

A un maligno (reale o immaginario) che bussa alla porta difficilmente non si offre infatti il privilegio e non si tributa l’omaggio di una denominazione propria e non soltanto effimera, si badi bene, nella lingua comune che dà forma al senso comune. Per le vittime di una malattia, quella in atto è sempre “la Malattia”, per quelle di una carestia, quella in atto è “la Carestia”, per quelle di un terremoto, quello in atto è “il Terremoto”, per quelle di una depressione economica, quella in atto è “la (grande) Depressione”. Pare questa una costante dello spirito umano, quale tale spirito si osserva appunto nella lingua. E (va detto) meglio forse non si potrebbe altrove, dal momento che fuori della parola, le testimonianze dello spirito umano resterebbero rade e, anche ove non rade, mute. Per numero grammaticale e composizione, “il Coronavirus” che ricorre oggi nella lingua comune è dunque, già per se stesso, parlante e dice, con la sua forma, di un vero e proprio costrutto ideologico. 

 

“Il Coronavirus” non è tuttavia il solo aspetto parlante e forse neppure il principale, nell’odierno discorso pubblico cresciuto a dismisura sul tema. Naturalmente, non è il solo, una volta che si sappia inquadrare la questione da una prospettiva linguistica, come qui si sta proponendo di fare. Da una prospettiva linguistica, ben inteso, che valorizza il dato correlativo e che non si esaurisce in banali ricognizioni lessicali. Se c’è qualcosa infatti di profondamente errato in ciò che il senso comune considera una lingua è la credenza che essa sia principalmente fatta di parole e che nelle parole si annidi il quid della cultura che esprime e del relativo pensiero. Sistemi oppositivi, processi, categorie delle lingue sono pensiero e pensiero del più sottile e rivelatore, per chi sa snidarlo e intenderlo. Duecento anni fa, lo proclamava Wilhelm von Humboldt, cento, lo ribadiva e mostrava Edward Sapir. 

 


Testi orali e scritti consacrati al Coronavirus o da esso suscitati oggi ne circolano a iosa. Tra gli effimeri, ce ne sono di apertamente farneticanti, come ce ne sono di meglio atteggiati e, all’apparenza, pensosi. Non sono i primi, ma i secondi o, più precisamente, è una loro parte a rivestire interesse, qui: quelli in cui all’antonomasia “il Coronavirus” fa da contraltare “la scienza”. Lo insegnò Robert Musil: è la stupidità come malattia della cultura (o di una pretesa cultura), non la luminosa stupidità degli apertamente idioti e devianti a fare da inciampo alle discipline che, nella modernità, hanno preso per oggetto di osservazione gli esseri umani. Di conseguenza, è la stupidità che pare il suo contrario, è la stupidità come soverchia adeguatezza al mondo a meritare da parte di tali discipline la più acuta attenzione. Ecco appunto un caso.

Come coronavirus, anche scienza è nome comune. A differenza di coronavirus, scienza non è d’altra parte un termine, cioè un elemento di una terminologia, ma una parola (la distinzione tra parole e termini fu molto presente e cara all’intelligenza linguistica di Giacomo Leopardi ed è indispensabile a un discorso filologico che scansi le correnti grossolanità). Scienza è più precisamente una parola del lessico “fondamentale”: la classifica così e con ragione il Grande dizionario italiano dell’uso, promosso e diretto da Tullio De Mauro. Nel dibattito pubblico sul Coronavirus, scienza ha ricorrenze frequenti, com’è facile osservare, oltre che intendere. Lo si è peraltro anticipato: tali ricorrenze sono al singolare, quanto a numero grammaticale, e accompagnate dall’articolo determinativo, quando a sintassi. Scienza non vi ricorre come parte dei nessi “una scienza”, “le scienze” e così via, ma del nesso “la scienza”, in modo significativo, se non assolutamente regolare.

 

Se, nei testi in questione, “il Coronavirus” è un’antonomasia, quindi apertamente una figura della denominazione, “la scienza”, lungi dall’avervi valore denotativo, ne ha anch’essa uno connotativo e figurato, stavolta dal lato di un’implicita predicazione. Sotto il segno della metonimia, funge infatti da prosopopea.

A svelare la circostanza retorica, in un modo che più lampante non avrebbe potuto essere, è stato ciò che in tale dibattito è accaduto, una volta che, evocata, “la scienza” determinata nel suo carattere singolare si è affacciata sul proscenio. In effetti, appena “la scienza” ha preso la parola, l’incanto si è rotto. C’è stato chi, per attitudine morale e, forse, debolezza personale, si è subito proposto di incarnare e di esaurire quel numero grammaticale: “La science, c’est moi!”. Ha così mostrato come sia potuto tradizionalmente accadere che prosopopea stia anche per un atteggiamento comunicativo pieno di sussiegosa e arrogante aria di importanza. Non solo come reazione a questo modo tutto sommato ingenuo di presentarsi come “la scienza”, c’è stato chi, presentando argomenti diversi, con attitudini diverse, ha frantumato il singolare e, con esso, la determinatezza. 

“La scienza”, come insieme morfologico e sintattico, si è così rivelato per quello che è: la veste figurata, nel discorso, di un costrutto ideologico, sulla natura, sulla costituzione, sulla portata del quale, si potrà eventualmente tornare un’altra volta, trattandosi, come ciascuno intende, di tema vastissimo ed impegnativo. 

 

Fuori di tale costrutto, quando con il pretesto marginale ed effimero del Coronavirus “la scienza” si è pronunciata non ha potuto fare a meno di presentarsi come scienziati e scienziate, se si vogliono usare anche qui qualificazioni oggi squalificate dalla loro corrività o, appunto meglio, come esseri umani. Alla luce di regolate esperienze e di competenze acquisite, costoro hanno non solo conoscenze, ma anche punti di vista e persino opinioni non necessariamente convergenti. E hanno tali conoscenze, tali punti di vista e tali opinioni non genericamente sul Coronavirus, cioè sopra un’antonomasia, ma più precisamente e secondo le loro diverse specialità, tanto sul SARS-CoV-2 (o, per sinonimia, n-CoV-2019), quanto sulla COVID-19: oggetti scientifici parecchio differenti, c’è da supporre. 

 

Scienze ce ne sono infatti numerose e, di norma, non solo non sono tutte concordi, perché ciascuna guarda il mondo dalla sua prospettiva, ma capita anche che ci siano domande cui la sola risposta (talvolta unanime) che possono dare è “Non si sa”. Tra le risposte possibili, la sola ad avere del resto il tratto che la qualifica indubitabilmente come scientifica. Si oppone infatti ai tanti “si sa” che, beati loro, sono in grado di proferire altri modi di concepire l’esperienza umana non solo del mondo, ma anche dell’Aldilà.

Del fatto che sia andata così, con “la scienza” e “il Coronavirus”, bisognerebbe rendere grazie al Cielo, se si volesse coltivare un po’ di quel buon senso che, perlomeno privatamente, fa appunto da argine ai guasti provocati dal senso comune. Invece, lo sconcerto tra i corifei del dibattito pubblico e tra i comunicatori in genere (che del senso comune si ergono ovviamente a campioni) è stato generale e si sono udite aperte manifestazioni di delusione: “neppure la scienza...” o “anche la scienza...”, esecrazioni combinate con “oltre la politica...”.

 

Insomma, non c’è più religione: anche gli scienziati non sono d’accordo e litigano. 

Come se, negli ambienti scientifici, non lo si fosse mai fatto e non lo si facesse regolarmente. Come se il diritto alla diversità di opinioni, alla messa alla prova di ciascuna, al dissenso, a uno scetticismo ponderato nei modi ma dall’estensione illimitata non riguardasse il variegatissimo ambito dell’avventura umana che, sulla soglia della modernità, crebbe e si sviluppò rivendicando proprio come insopprimibile quel diritto. Come se, in occasione di un marginale ed effimero episodio dell’eterna lotta contro “il Maligno” e quando capita la paura faccia novanta, “la scienza” non potesse essere altro che un nome, un nome qualsivoglia, uno dei tanti possibili nomi per designare ciò che scienza proprio non è (o non dovrebbe essere): la fede. Anzi, eternamente, “la Fede”: una, certa, salvifica.

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