Cesare Cases. Scegliendo e scartando

15 Novembre 2013

In settembre avrei dovuto presentare a Trento, assieme a Giuliano Geri e al curatore Michele Sisto, il libro Scegliendo e scartando (Nino Aragno Editore, Torino 2013) che raccoglie duecentocinquanta pareri di lettura redatti da Cesare Cases per la casa editrice Einaudi fra il 1953 e il 1973. In quell’occasione avrei potuto trarre informazioni preziose non tanto dal curatore del volume, che ha già dato il meglio nel ricco saggio introduttivo e nella perizia filologica dell’antologia, quanto da quella tormentata forza della natura e della cultura che è Giuliano Geri, di cui un giorno qualcuno, se non lo fa lui stesso, dovrà pur raccontare la romanzesca parabola nel mondo dell’editoria, dalla promettente gavetta in un’importante casa milanese a fianco di un noto slavista, passando per l’inspiegabile trasferimento ai piedi delle Dolomiti e le prime delusioni da mobbato nei sotterranei di un grande impresario di libri pseudoscientifici, fino agli anni gloriosi e fetenti presso il piccolo editore di provincia con grandi pretese culturali e però costretto troppo presto a confrontarsi con le difficoltà del mercato librario, tanto da sacrificare, alla prima crisi, proprio uno dei suoi uomini migliori, l’appassionato primus artifex del suo onorevole catalogo. Il quale, fra l’altro, a un certo punto aveva coinvolto anche me nel suo fervore, invitandomi a cimentarmi per la prima volta in un genere, quello della scheda di lettura, che fino a quel momento mi era estraneo.

 

 

 

Ma alla presentazione non sono potuto intervenire, impedito all’ultimo momento da un impegno di lavoro. Così, in mancanza di informazioni autorevoli, oltre che di un’adeguata conoscenza storica dell’editoria italiana che permetterebbe di rendere giustizia al valore di questo libro entro il suo contesto di maggior pertinenza, mi tocca ripiegare su un close reading un po’ impressionistico. Pardon.

 

Dirò dunque come la lettura di questo volume di oltre seicento pagine mi abbia presto distolto dal mio primo proposito, che era quello, molto banale ed egoistico, di confrontarmi con i pareri di lettura di un’auctoritas come Cesare Cases per capire se avevo lavorato bene nelle schede per Geri. E questo semplicemente perché i pareri di Cases, come i pareri di lettura in genere, non sono apprezzabili autonomamente, cioè al di fuori del contesto in cui vengono scritti. Un parere di lettura non è buono o cattivo, ma più o meno adatto allo scopo, che è quello, a partire dalla comparsa di questo tipo di testo – nel caso italiano nei tardi anni venti –, di «fornire alle redazioni di case editrici che vanno assumendo le dimensioni e la struttura di moderne industrie gli elementi indispensabili a valutare l’opportunità di pubblicare o meno un certo libro». Lo scrive Michele Sisto nel saggio introduttivo, che analizza la vicenda editoriale di Cases in Einaudi con approccio bourdieusiano, vale a dire collocandola – in modo sempre chiaro e persuasivo – nel campo letterario italiano, nelle sue tensioni e conflittualità e nel suo rapporto con i mutamenti storici e sociali.

 

Si tratta in particolare del fatto che, ancora negli anni in cui Cases si trova a operare, «tradurre un libro, o non tradurlo, costituisce una presa di posizione pro o contro un’idea di letteratura e di cultura, in un conflitto simbolico che non conosce tregua», e che, entro quest’orizzonte socio-letterario, «che un’opera venga tradotta non è la regola ma l’eccezione». Non è un caso se, fra i pareri positivi antologizzati nel volume, ben pochi sono quelli cui poi ha fatto seguito la pubblicazione dei testi vagliati. Mentre quelli negativi, che sono la maggior parte – e in generale i più saporiti –, testimoniano direttamente il rigore progettuale che univa Einaudi ai suoi collaboratori; ossia in una prima fase il tentativo, condiviso da Cases, di costruire anche attraverso le traduzioni dal tedesco una letteratura nazional-popolare, secondo la lezione gramsciana, che favorisse una vera democratizzazione della cultura nella giovane repubblica. È la fase in cui Cases, approdato quasi per caso alla germanistica e fedele alle idee estetiche di Lukács, predilige romanzi per così dire “pre-modernisti”, che proseguono cioè il paradigma realistico ottocentesco, o semmai opere di spiccato realismo satirico come le «prose d’arte» (così le chiama) di Arno Schmidt o La morte a Roma di Wolfgang Koeppen. Ed è un orientamento che intende distinguersi da ciò che già esisteva nella mediazione della letteratura tedesca in Italia, su tutti la collana Medusa di Mondadori in cui, grazie in particolare a Lavinia Mazzucchetti, erano già apparsi i più quotati autori tedeschi dell’epoca – Thomas e Heinrich Mann, Kafka, Hesse, Döblin, Roth, per citare solo i più noti.

 

Questo primo tentativo della piccola Einaudi, che già era andata affermandosi in ambito italiano grazie all’attività di Vittorini e Pavese, conosce un sostanziale fallimento a dispetto del doppio successo “simbolico” ottenuto alla fine degli anni cinquanta con la pubblicazione, già decisa prima dell’arrivo di Cases, delle prime opere di Brecht in italiano, soprattutto teatrali, e de L’uomo senza qualità di Musil. Il fatto è che l’Italia stava cambiando, diventando un paese moderno, capitalista e consumista, sul quale l’ipotesi gramsciana non aveva più presa. Einaudi punta allora al profilo high brow con i Coralli e i Supercoralli, forte di un consiglio editoriale che non ha eguali nel panorama dell’epoca e che per l’ambito tedesco coinvolge, oltre a Cases, un “disimpegnato” d’eccezione come Bobi Bazlen. Ma la spinta industriale che modifica la nazione fra la fine degli anni cinquanta e i primi sessanta porta con sé un mutamento dei rapporti e anche del gusto, con l’emersione di nuovi autori italiani e stranieri (Grass, Johnson e Bachmann fra i tedeschi) sui quali si butta con maggior slancio, oltre a Mondadori, la Feltrinelli dei neo-avanguardisti e delle Comete. Sono quelli che Sisto chiama per Cases «gli anni del disorientamento», per poi documentare il comune scetticismo degli intellettuali della “vecchia guardia” citando anche Fortini e Foà, nonché un parere super-snob di Lavinia Mazzucchetti sul Tamburo di latta. Ma la diagnosi più impietosa del quadro generale viene dallo stesso Cases, che in un articolo per la Zeit scriverà fra l’altro: «Da noi un acquirente non è necessariamente un lettore. Stando così le cose, le tirature possono dire senz’altro qualcosa sull’interesse del pubblico, ma nulla sull’effettiva penetrazione delle idee». Come sembrano attuali queste parole! Ma non lo sono, se si pensa che oggi la «penetrazione delle idee» è davvero l’ultimo dei pensieri di un editore.

 

La mutazione in atto nei primi anni sessanta porta gli intellettuali vicini a Einaudi a un «riposizionamento», scrive Sisto, che per il Cases lettore significa un ripensamento della propria opinione su Brecht e, filosoficamente, sulle diagnosi apocalittiche di Adorno – mentre è a senso unico il suo entusiasmo per Benjamin. La sua posizione in Einaudi si è fatta nel frattempo più stabile, è quindi il periodo in cui i pareri di lettura iniziano a diradarsi, sostituiti in misura crescente dalle discussioni settimanali in consiglio editoriale. La possibilità di verificare il percorso di Cases sulla scorta dei testi rimane comunque uno degli aspetti più interessanti di questo volume. L’esempio più agevole è quello delle due schede di lettura su Mephisto di Klaus Mann, romanzo del 1939 che Cases giudica in modo molto positivo nel 1957 («non ha perso niente [...] bisogna assolutamente tradurlo»), ma su cui tornerà in questi termini undici anni dopo: «le virtù del libro […] non sono poi tali da salvarlo dalla tempesta che si è nel frattempo abbattuta sul realismo di ogni specie». A prevalere in questo periodo, tuttavia, sono ormai i pareri su testi saggistici, filosofici e politici: sono gli anni intorno al ’68 e la protesta studentesca genera in Cases una speranza che verrà presto delusa. Benché infatti Einaudi si avvii a conquistare «un’indiscussa egemonia nel transfer di letteratura tedesca verso l’Italia», al neo-professore di letteratura tedesca presso la facoltà torinese di Magistero viene a mancare di nuovo una comunità di riferimento: «purtroppo è il consiglio editoriale», scrive nel 1970 a Sebastiano Timpanaro, «che, venendo meno quel minimo di unità culturale che c’era prima, diventa sempre meno utile e più contraddittorio». E ad esemplificare un suo certo distacco dal nuovo corso, ecco ciò che scrive nello stesso periodo a Ernesto Ferrero, e che Sisto antologizza come primo parere di lettura di quell’anno: «Dall’ufficio delle fanciulle mi chiedono indietro due voll.: Christa Wolf, Nachdenken über Christa T., e Heißenbüttel-Vormweg, Briefwechsel über Literatur. Può dir loro che ho depositato entrambi i libri sul sacro tavolo, rispettivamente l’ultima e la penultima volta che sono venuto, e quindi non ne so più nulla? Comunque il giudizio era negativo».

 

Insomma, questo volume non è solo un’antologia di scritti più o meno deliziosi che narrano per indizi e frammenti un capitolo decisivo della storia culturale repubblicana, ma anche la testimonianza di una prassi e di una passione umanistica da ereditare. È una lezione che brilla in una pagina del saggio introduttivo di Cases al proprio carteggio con Lukács, che Sisto richiama per giustificare il titolo del volume: «è bene che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciar cibo ai suoi piccoli finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido. Tra gli intellettuali già di sinistra oggi solo Franco Fortini e pochi altri sembrano ricordarsi della verità che “omnis determinatio est negatio” e che l’uomo si definisce solo scegliendo e scartando».

 

E oggi, a trent’anni di distanza da queste parole, in un tempo in cui non solo la sinistra è “liquida” e l’editoria ha abbandonato ogni idealismo progettuale, ma l’«umanesimo» e la «prassi» sono ormai soltanto lemmi di un’enciclopedia ingiallita, cosa resta di quella verità? La frase successiva di Cases è una risposta, questa sì, molto attuale, e mi ricorda la lucida intransigenza del mio interlocutore Giuliano Geri quando mi chiedeva di redigergli certe schede di lettura per quel piccolo editore di provincia: «Il rischio di sbagliare c’è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell’accettazione universale».

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