Crowdfunding culturale

4 Dicembre 2013

La parola “crowdfunding” gode ormai di una certa notorietà, tuttavia è buona prassi cominciare da una definizione. Il termine viene generalmente riferito a campagne di raccolta fondi gestite attraverso il web, caratterizzate da un logica tipica di altre pratiche volte a supportare, in vari modi, particolari progetti o organizzazioni: piccoli contributi da parte di un grande numero di persone, sfruttando le opportunità offerte da internet per coordinare e aggregare ampi numeri di persone che condividono stessi interessi, passioni, esigenze, problemi.

 

I diversi ambiti della produzione e diffusione di cultura hanno costituito terreni propizi all’adozione e sperimentazione di questa modalità di finanziamento “dal basso”: progetti di moda e di design, mostre d’arte, spettacoli teatrali, musica registrata, pubblicazioni editoriali (narrativa, fumetti, saggistica), audiovisivi (documentari, cortometraggi, videoclip, film), videogiochi, reportage e inchieste giornalistiche, restauro di opere d’arte, acquisizioni da parte di musei, e l’elenco potrebbe continuare.

 

Molte campagne di crowdfunding vengono lanciate per raccogliere somme piuttosto elevate, destinate a coprire tutti i costi di un progetto, altre per raccogliere cifre più contenute, utili a chiudere il budget plan. Da circa due anni anche in Italia il crowdfunding sta attraversando una crescita esponenziale, attestata da numeri riguardanti sia le piattaforme che offrono un servizio specializzato ai soggetti in cerca di fondi, sia i casi rilevanti di successo. L’impiego di questa pratica non è più circoscritto a poche categorie di early adopters (utenti apripista) ma si va estendendo a un’utenza sempre più ampia e diversificata: dal singolo musicista o scrittore alle prime armi a grandi istituzioni come Palazzo Madama e a mostre interne alla Biennale di Venezia.

 

Sempre più soggetti vedono dunque nel crowdfunding una opportunità per risolvere i problemi derivanti dalle contrazioni di finanziamenti pubblici e di investimenti privati. Tuttavia non è raro che chi si accosta per la prima volta al crowdfunding, attratto proprio dall’attenzione mediatica, focalizzata sui casi di successo più eclatanti, lo faccia con un po’ di ingenuità. Il modo più sicuro per sbattere la testa consiste nel lanciarsi verso il miraggio del crowdfunding come scorciatoia o soluzione facile al problema dei finanziamenti. Il crowdfunding costituisce sicuramente una opportunità eccezionale ma presenta anche delle criticità che è bene aver presenti nel momento in cui si pensa di avvalersene.

 

D’altra parte alcune statistiche generali, che considerano le più note piattaforme internazionali e prescindono dal tipo di progetto, attestano una percentuale di successo fra il 40 e il 50% delle campagne online. In Italia, se consideriamo le campagne reward based (basate su ricompense) e donation based (basate su donazioni) – le declinazioni prevalenti per i progetti culturali, in quanto più semplici da costruire e da gestire – la percentuale scende al 22%. Vale a dire che solo due campagne su dieci raggiungono il proprio obiettivo.

 

Vale la pena fare alcune considerazioni introduttive su questi aspetti. Qui mi concentrerò soprattutto sull'ambito che conosco meglio, quello relativo alle campagne per progetti culturali promosse da creativi singoli o in team, associazioni culturali, cooperative, microimprese, accomunati dal non avere un “brand” o un nome altisonante da spendere presso un vasto pubblico. Questa tipologia di soggetti comprende la maggior parte degli utenti che utilizzano il crowdfunding per progetti culturali, andando spesso a integrare altre pratiche di matrice do-it-yourself.

 

Le risorse e gli strumenti del crowdfunding

 

Se il fund-raising viene allineato alle attività di marketing, è evidente come anche il crowdfunding vada pianificato con cura e possa funzionare meglio in presenza di specifiche competenze. Non tanto per stabilire ricompense adeguate a diverse fasce di donazione, aspetto a cui molti progettisti dedicano tempo e attenzione spropositati, ritenendo erroneamente che sia il punto chiave per la riuscita. Quanto, piuttosto, per commisurare l’obiettivo da raggiungere. In questo caso le valutazioni da fare riguardano:

 

- il numero di persone che si presume possano essere convinte a donare (non semplicemente contattate);
- l’estensione e la composizione delle proprie reti sociali (non solo l’estensione, in quanto una cosa sono gli amici, un’altra le persone che mi hanno chiesto “amicizia” su facebook anni fa e non ricordo nemmeno chi siano… non è detto che queste ultime non possano offrire alcuna forma di supporto – ad esempio passare le informazioni sulla campagna - ma è bene tenere presente simili differenze);
- le risorse a disposizione, in particolare il tempo da poter dedicare alla campagna, soprattutto alla sua promozione (certo se poi ci sono anche i soldi per un buon ufficio stampa e la produzione di materiali di comunicazione tanto meglio).

 

Il tempo e le energie da poter investire nella campagna di crowdfunding rappresentano sicuramente un fattore cruciale: che si scelga la strada del crowdfunding disintermediato (ad esempio usando il proprio sito o disegnandone uno ad hoc per la campagna, utilizzando vari web-tool disponibili) o che ci si appoggi ad una delle sempre più numerose piattaforme dedicate al crowdfunding, comunque la comunicazione ricade pressoché interamente sul progettista. La prima scelta riguarda proprio lo strumento da utilizzare. Nella misura in cui la visibilità della campagna dipende comunque in larga parte dalle attività del progettista, è evidente che l’opzione fai-da-te presenta comunque alcuni vantaggi (su questo argomento segnalo un interessante report di Twintangibles). In primo luogo la convenienza, dal momento che i servizi non sono gratuiti. La maggior parte delle piattaforme trattiene percentuali variabili sui fondi raccolti, in caso di raggiungimento dell’obiettivo; a volte sono previste microtrattenute sulle donazioni, per le spese di transazione, e in alcuni casi percentuali sui profitti derivanti dall’eventuale sfruttamento commerciale del prodotto realizzato (ma generalmente, in questi casi, la piattaforma non si limita a fungere da strumento di raccolta fondi ma offre ulteriore servizi a supporto della produzione, della promozione e della distribuzione). Secondariamente la totale libertà nelle scelte di gestione della campagna (durata, ecc…).

 

Quali vantaggi offre allora una piattaforma? Al di là, ovviamente, dell’avere uno strumento “pronto”, se ne possono citare due, il primo è legato al ruolo da “garante” che questi servizi svolgono, il secondo fa riferimento alle forme di supporto (dal tutoring alle convenzioni). I servizi di intermediazione rappresentano una forma di “garanzia” per i finanziatori che non conoscono il progettista. Usare un sito di crowdfunding ha quindi tanto più senso quanto più si punta a raggiungere e coinvolgere persone esterne alle proprie cerchie di contatti pregressi e non si può contare su testimonial noti con una buona reputazione. Detti servizi, inoltre, possono offrire varie forme di supporto: ad esempio, diversi livelli di tutoring per l’impostazione e la gestione della campagna, convenzioni con terzi a cui appoggiarsi per aspetti inerenti produzione e distribuzione, ecc… . In sostanza possono contribuire a semplificare alcuni processi e a colmare alcune lacune inerenti risorse e competenze necessarie.

 

Naturalmente questi potenziali vantaggi vanno valutati con attenzione di caso in caso, data l’estrema eterogeneità dei numerosi servizi esistenti. Oltre ai costi e alle eventuali forme di supporto, altri aspetti da considerare nella scelta di una piattaforma sono:

 

- il grado di flessibilità, che a sua volta ha a che fare con diversi ambiti: la possibilità di scegliere il modello di crowdfunding per la propria campagna (donazioni, reward, equity, lending), le modalità di pagamento a disposizione dei potenziali finanziatori, la durata della campagna e la possibilità di prolungamento, la possibilità di trattenere quanto raccolto a prescindere dal raggiungimento dell’obiettivo (modello “all-you-can-get) o di sbloccare i fondi solo al raggiungimento dell’obiettivo (modello “all-or-nothing”; in ogni caso le piattaforme che adottano questo modello consentono di ricevere l’eventuale avanzo in eccesso rispetto alla cifra preventivata, quindi se non si punta troppo in alto cambia poco; è comunque bene non puntare neanche troppo in basso, in quanto a volte obiettivi percepiti come “marginali” possono disincentivare la partecipazione);
- la modalità di interazione (non solo con i finanziatori ma fra essi);
- la modalità di selezione dei progetti pubblicati fra quelli proposti (trasparenza dei criteri, soggetti deputati alla selezione);
- il posizionamento della piattaforma rispetto al tipo di progetti ospitati, ovvero se si tratta di piattaforme generaliste o di nicchia. Il livello di “segmentazione” è infatti molto variabile: esistono servizi che accolgono progetti di qualsiasi tipo, piattaforme dedicate solo a progetti culturali, siti di crowdfunding per un settore specifico (es. musica, cinema, ecc…), o addirittura per uno specifico segmento (es. per un certo genere musicale). Si tratta, a mio avviso, di un aspetto assolutamente cruciale, che può contribuire al superamento di una delle principali criticità del tipo di crowdfunding di cui sto parlando: la difficoltà di riuscire a raggiungere e a coinvolgere soggetti esterni alle reti di relazioni preesistenti alla campagna.

 

Chris Johanson

 

No community, no funding

 

È uno slogan trito ma quanto mai valido. Il successo di una campagna si costruisce in larghissima parte prima del suo lancio. Creativi eccezionali che sviluppano i loro progetti chiusi in una stanza o associazioni autoreferenziali che non coltivano rapporti con realtà associative analoghe o imprenditoriali, istituzioni pubbliche, media locali, blog e comunità che si occupano delle stesse cose, partono con un gap difficilmente colmabile. Nella maggior parte delle campagne (riuscite), i contatti pregressi oscillano fra il 75 e l’85% di tutti i finanziatori. Tuttavia, allo stesso tempo, il “rate di conversione” dei contatti su facebook in finanziatori oscilla fra il 5 e il 10%. Pensare quindi di poter facilmente contare sui contributi di gran parte dei “facebook friends” rischia di rivelarsi un errore grossolano.

 

La rampa di lancio di ogni campagna è rappresentata anzitutto dai legami forti, family and friends. Generalmente sono quelli che donano di più e per primi. Una buona massa iniziale di donatori e donazioni può attirare l’attenzione di altri potenziali finanziatori. Inoltre sono anche quelli che si impegneranno di più a promuovere la campagna, parlandone e cercando di convincere altri a contribuire. Svolgono dunque un ruolo molto importante, ma evidentemente non sufficiente. Anzitutto perché, quanto più si trovano in rapporti stretti con il progettista, tanto più è probabile che buona parte delle conoscenze coincidano, e che quindi vi sia ridondanza nella comunicazione. Il che, comunque, non è del tutto inutile: le ricerche evidenziano come molte persone si convincano a finanziare quanto vedono farlo altri che conoscono o quando vedono che il progetto “si muove” e ha buone chance di raggiungere l’obiettivo (perché ciò da maggiore rilevanza al proprio contributo). In secondo luogo, la curiosità e l’attenzione suscitate non si trasformano automaticamente in partecipazione.

 

Se dunque è vero che in molti casi buona parte dei finanziamenti sono motivati da simpatia o stima nei confronti del progettista, più che dalla valutazione del progetto, nondimeno è assolutamente cruciale lo storytelling, altra parola chiave e competenza richiesta per una campagna efficace. Raccontare se stessi e il proprio progetto è tutt’altro che facile, soprattutto quando si vuole arrivare a un pubblico che trascende quello più simile a noi: la mancanza di un punto di vista critico “esterno” porta spesso a enfatizzare gli aspetti di un progetto maggiormente rilevanti per noi e a non cogliere, o a sottostimare, potenziali elementi di interesse per soggetti differenti. Un altro errore tutt’altro che raro consiste nel pianificare una campagna quando il progetto è ancora in fase di embrionale di definizione, cosa che ovviamente complica ancora di più il riuscire a raccontarlo in modo efficace.

 

Se parliamo di fattori motivanti, lo storytelling conta più dei rewards. Queste ricompense in genere contemplano unità di prodotto, merchandise, contenuti esclusivi, personalizzati o in anteprima, riconoscimenti simbolici (accreditamento, dediche), opportunità privilegiate di interazione con i creativi. Tuttavia, nel tipo di campagne di cui mi occupo, praticamente nessuno contribuisce a finanziare un progetto, o sceglie quanto donare, per poter avere in cambio un premio specifico (anzi, non è raro che trovare finanziatori che rinunciano alla gratificazione materiale prevista). Ciò non significa che siano irrilevanti. La loro funzione non consiste però nel motivare la partecipazione, quanto nel manifestare simbolicamente l’importanza che il progettista riconosce al valore della reciprocità. Per questo il reward ideale consiste in una espressione di gratitudine più possibile personalizzata. La relazione è il fulcro del tipo di crowdfunding che sto descrivendo. I reward possono avere anche una seconda funzione, proprio correlata allo storytelling: contribuire alla costruzione dell’immagine del soggetto proponente e del progetto, fungere da elemento di caratterizzazione che contribuisce a connotare lo spirito e la filosofia dell’operazione.

 

Per storytelling si intende la capacità di spiegare, raccontare, e motivare attraverso un racconto che elabori i nessi fra il progetto e le esperienze, gli interessi, o i problemi condivisi con le persone a cui si comunica: sono questi i modi principali di coinvolgere una comunità in cui il creativo si riconosce (o da cui desidera essere riconosciuto) o che l’istituzione rappresenta (o intende rappresentare). La community è la base imprescindibile di ogni operazione di crowdfunding culturale, la rete di azioni e interazioni che convergono su specifiche passioni ed esigenze e in cui deve risuonare l’eco dell’operazione. È in relazione a questo aspetto che emergono i vantaggi di una piattaforma specialistica e di nicchia (dedicata, ad esempio, agli appassionati di jazz, come nel caso del sito Artist Share).

 

Un elemento è la disponibilità di persone esterne alle reti del creativo ma potenzialmente interessate al suo progetto (a differenza di quanto accade in genere sulle piattaforme generaliste, dove la maggior parte dei finanziatori delle campagne sono perlopiù contatti pregressi mobilitati dal progettista, che si limitano a rispondere alla chiamata su quel specifico progetto senza interessarsi più di tanto agli altri). Un altro elemento da valutare è la condivisione di codici e competenze, che favorisce l’efficacia delle azioni di comunicazione

 

Questo insieme di considerazioni non esaurisce minimamente la riflessione su accorgimenti e competenze utili a impostare una campagna di crowdfunding, che richiederebbe ben più spazio e tempo (fermo restando che non esistono ricette sicure e vincenti, tanto più per un ambito così ampio e diversificato). Al contrario, vorrei che fossero utili per introdurre alcuni elementi di complessità che spesso sfuggono a chi si avvicina al crowdfunding con l’idea che si tratti, semplicisticamente, di una sorta di “colletta” via internet. Non per scoraggiare, quindi, ma per invitare a un approccio più consapevole, che possa valorizzarne l’effettivo carattere di (straordinaria) opportunità.

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