5 per mille

Le nostalgie analogiche di Nicholas Carr

19 Giugno 2025

Cosa succede quando la connessione promette di unirci ma finisce per separarci? È da questa contraddizione che prende le mosse Superbloom, l’ultimo saggio di Nicholas Carr (Raffaello Cortina editore, 2024). Il titolo richiama un’esplosione incontrollata di fioritura nei deserti californiani, metafora della sovrapproduzione comunicativa contemporanea: feed, notifiche, messaggi, video, post, tutti in competizione per la nostra attenzione.

Carr, già autore di Internet ci rende stupidi?, torna con una critica severa al modo in cui i social media stanno ristrutturando il nostro senso del sé, della collettività e del mondo.

Il saggio di Carr si legge con piacere. Mi sorprende positivamente la prima parte del libro, che prova a ricostruire la traiettoria storica dei mezzi di comunicazione di massa e il loro potere sulla società. Mi sorprende non tanto per i contenuti, quanto per il tentativo, da parte di un giornalista come Carr, di prendere sul serio la copiosa letteratura accademica sulla storia e il potere della comunicazione di massa, cosa che ad esempio, ignora quasi totalmente un altro saggista popolare come Harari, nel suo ultimo libro Nexus.

Per chi però ha studiato Scienze della Comunicazione, la tanto vituperata scienze della comunicazione, quello che scrive Carr non suona per niente nuovo ed è invece una specie di bignami accelerato delle prime 5-6 lezioni di qualsiasi corso di Sociologia della comunicazione (chi compra libri come questi e poi continua a pensare che studiare scienze della comunicazione sia una cosa ridicola, o continua a credere che questo corso di laurea sia inutile, soffre evidentemente di schizofrenia). Questo per dire che non c’è bisogno di leggere Carr, se avete fatto Scienze della comunicazione all’università, perché gli aneddoti che Carr racconta fanno parte di una strategia retorica un po’superficiale per ripercorrere una storia delle tecnologie di comunicazione che all’università viene affrontata in maniera molto più profonda. È un libro divulgativo, accessibile, che chi non ha studiato Scienze della comunicazione potrà sicuramente apprezzare.

Il problema di Superbloom però, è il rumore di fondo nostalgico e paternalista che risuona per tutto il libro riguardo la dicotomia tra relazioni mediate e relazioni non mediate (quelle faccia a faccia) della realtà. Non solo i social media, secondo Carr, ma tutti i media di massa, a partire dalla radio, sarebbero problematici per la nostra relazione con la realtà. I social media, però, secondo Carr, lo sono ancora di più, su una scala ancora più grande e penetrante.

L’argomentazione di Carr è densa di riferimenti colti, ma tende a scivolare spesso in una narrazione lineare e deterministica: le piattaforme digitali secondo questa narrazione non sarebbero solo ambienti, ma agenti che “causano” tribalismo, polarizzazione, ansia, narcisismo. Critiche che sentiamo da anni, non è vero?

Ed è proprio qui che Superbloom mostra i suoi limiti. La lettura appare ancorata a una forma elegante di tecno-determinismo: i media sono trattati come forze quasi autonome, capaci di trasformare la società indipendentemente dal contesto, dalle culture d’uso, dalle dinamiche storiche. Non vengono prese in considerazione le condizioni sociali preesistenti; i meccanismi di interazione tra media e cultura; l’uso situato e ambivalente delle tecnologie da parte degli utenti. 

Nonostante l’attenzione dedicata da Carr nella prima parte del libro alla storia dei media, l’autore finisce per sostenere una dicotomia netta, e ingenua, tra la realtà mediata e quella non mediata, dove la prima è qualitativamente peggiore della seconda:

“Il sociale ha finito per scindersi dal reale. Le situazioni e i gruppi, non più vincolati a luoghi e orari specifici, esistono ovunque e simultaneamente. E noi ci muoviamo tra le une e gli altri con un tap sullo schermo, uno scatto del pollice, una parola sussurrata a un chatbot. E dal momento che i telefoni permettono di socializzare tutto il tempo, perfino quando in giro non c’è nessun altro, la vita quotidiana non ammette più interludi solitari. Nessuno scende più dal palcoscenico, non esistono più luoghi isolati, immuni dalla comunicazione e dalle sue esigenze” (Carr, p. 206).

Carr attribuisce alla proliferazione delle piattaforme digitali una crisi dell’attenzione e di una relazione più “autentica” con la realtà e gli altri intorno a noi, come se prima dei social esistesse un Eden della comunicazione autentica. In questo si allinea in maniera moralista e molto scontata a una lunga serie di autori, da Robert Putnam a Sherry Turkle — che ascrivono alla tecnologia la responsabilità dell’aumento della solitudine e della disgregazione del tessuto sociale. Oltre a questa critica ormai nota ed estremamente tecno-determinista, Carr aggiunge la vecchia critica per cui i social media ci stanno sovraccaricando di informazioni e sottraendo tempo prezioso per fare cose più edificanti (altro leit motif di un altro critico da scrivania della società, il filosofo coreano Byung Chul Han). Questi critici leggono il sovraccarico informativo come una novità radicale del nostro tempo. Ma come mostrano gli storici del sapere (Ann Blair, Anthony Grafton), l’ansia per l’eccesso di informazione è una costante storica. Già in epoca premoderna, studiosi si lamentavano della confusione, della dispersione dell’attenzione e della perdita di profondità. Seneca (I sec. d.C.) si lamentava che “l’abbondanza di libri distrugge l’apprendimento”, invitando alla selezione e alla profondità; Erasmo da Rotterdam (XVI sec.) criticava la proliferazione di libri a stampa come fonte di confusione più che di saggezza; Jonathan Swift (XVIII sec.) faceva la stessa critica nella Battaglia dei libri, satira contro l’eccesso di testi e la perdita del pensiero critico; Ralph Waldo Emerson ammoniva che “i libri sono l’artefatto di un’altra mente” e che il sovraccarico distrae dalla riflessione personale; Marshall McLuhan (1960) parlava di un eccesso di informazione come effetto collaterale della cultura elettronica, infine Alvin Toffler, in Future Shock (1970) rese popolare il termine “sovraccarico informativo” come condizione psicologica della modernità.
 

j


Quindi, se anche fosse vero che siamo sovraccarichi di informazioni, lo è da molti secoli. Qualcuno ora si alzerà dicendo che questo è vero, ma che il sovraccarico portato dai media digitali è di un’altra natura e scala, molto più profondo. Ma questo è vero fino a un certo punto, ed è sempre culturalmente e socialmente situato: il tempo che dedichiamo al consumo dei media, non solo quelli digitali, è più o meno stabile da decenni, solo che differenti generazioni e differenti disposizioni di capitale economico e culturale generano differenti mix di stili di consumo mediale. I baby boomer, per dire, guardano ancora più televisione di quanto usino i social media. E sfido chiunque a dire che sia meglio guardare 4 ore di televisione che stare 4 ore sui social media. Inoltre, i sociologi hanno dimostrato che 4 ore sui social non sono per tutti uguali: a seconda del capitale culturale e sociale a disposizione, quelle 4 ore possono includere usi molto differenti e generare benefici molto differenti negli utenti. Non sono 4 ore “perse” di distrazione per tutti (e se anche lo fossero, poi, sarebbe così devastante o diverso dal passato? Abbiamo sempre cercato distrazioni dal fardello della vita quotidiana).

Vorrei poi sottolineare una serie di limiti strutturali di questo saggio. Sebbene Carr, lodevolmente per un saggio non accademico, citi diversi autori classici delle scienze della comunicazione e dei media studies, lo fa spesso in modo aneddotico o funzionale alla sua tesi, senza confrontarsi sistematicamente con la letteratura accademica consolidata e più recente. Non a caso, gli autori che cita sono tutti classici del pensiero sociologico, politologico e psicologico della comunicazione che sostengono la tesi (molto criticata dalle generazioni successive di studiosi) dei cosiddetti poteri forti o illimitati dei media, una tesi che si allinea facilmente con la Scuola di Francoforte, dimenticando completamente il contributo, fin dagli anni ’70 del secolo scorso, dei cultural studies britannici.

Manca un dialogo rigoroso con le ricerche empiriche sulla polarizzazione (Barberá), gli studi STS o di media archaeology che storicizzano le tecnologie; la teoria critica dei media algoritmici (Couldry, Mejias, Chun, Gillespie, Crawford).

La posizione di Carr tende a romanticizzare una soggettività razionale, profonda, autonoma, minacciata dalle tecnologie digitali. Questo modello si fonda su un’idea di soggetto “moderno” fortemente individualista e alfabetizzato, che però è storicamente situato (occidentale, bianco, maschile, borghese) e già criticato da decenni di teoria poststrutturalista, femminista, postcoloniale.

Nonostante queste omissioni, il libro resta una lettura utile per comprendere lo stato d’animo culturale dell’Occidente connesso: un misto di nostalgia, sovraccarico e desiderio di fuga. Il saggio di Carr rappresenta un buon termometro del malessere contemporaneo generato dalle forme di capitalismo digitale che si sono integrate nelle nostre routine quotidiane, ed è un sintomo del bisogno di lentezza, profondità e presenza, ma rimane più un lamento morale che una critica strutturata. Per capire davvero come i media ci abitano — e come possiamo abitare diversamente i media — servono strumenti più sofisticati. Sarebbe più proficuo leggere i social media come campi di forza, attraversati da logiche estrattive ma anche da pratiche resistenti, non come entità univoche che “causano” il collasso del mondo comune.

Carr sembra ancorato a una visione piuttosto nostalgica dell’esperienza non-mediata, ma ha il merito di smontare le mitologie della trasparenza e della democratizzazione dei media digitali. Tuttavia, manca una riflessione più esplicita sulla materialità infrastrutturale delle piattaforme (data center, estrattivismo computazionale), che sarebbero centrali in una critica dell’IA contemporanea in chiave postcapitalista. Ma non può farlo, perché la parola “capitalismo” non compare mai nelle 292 pagine del libro.

E qui veniamo alla mia ultima critica, che è anche una riflessione sul mercato editoriale della saggistica. Sappiamo tutti, se abbiamo parlato almeno una volta con un libraio, che i saggi non vendono. In Italia ancora di più. Come si alimenta quindi il mercato della saggistica? Come non perdere troppi soldi se siamo una casa editrice che pubblica saggistica? Come non chiudere la libreria, se vendiamo saggi? La ricetta, in un’epoca di crisi della lettura saggistica, è quella seguita dagli algoritmi delle piattaforme digitali che questi saggi criticano tanto, ovvero ricorrere alla tecnica del clickbait, del titolo sensazionalista, ad effetto, che catturi il lettore all’amo. Però non basta solo il titolo, anche i contenuti del libro devono essere polarizzanti, sostenere tesi audaci, chiare e monolitiche, che non spiazzino le coscienze dei lettori, ma li rafforzino nelle loro convinzioni e pre-concetti. Sono sicuro che il lettore modello di questo saggio corrisponda a un profilo sociologico preciso: una certa età, un livello di istruzione molto alto, probabilmente fortemente umanista e dotato di “senso critico” e potere di spesa, che vuole sentirsi dire “signora mia, come ci siamo ridotti” e vuole confermare intimamente che il suo stile di vita culturalmente elitario sia migliore degli altri, delle masse (o dei figli) intrappolate nei social media.

Eppure questo tipo di saggi contribuisce poco a dissolvere la nube di dibattito intorno agli effetti delle tecnologie digitali sulla società. Contribuisce invece a coltivare uno spirito critico un po’ stereotipato, nostalgico e moralista. È un esempio di quella che alcuni sociologi hanno chiamato “armchair theory” o meglio “teoria da divano”, cioè forme di indagine sociale non basate su una rigorosa osservazione dei fenomeni sociali nei loro ambienti naturali, ma una teorizzazione fatta stando seduti sulla scrivania, come Carr, che al massimo mette insieme un po’ di fonti di altri studi che confermano la sua tesi. Al contrario, dovremmo dedicare più tempo alla lettura di saggi fondati sulla grounded theory, cioè su teorie costruite sull’osservazione empirica e rigorosa della realtà, tramite metodi etnografici e qualitativi. Ma questi saggi purtroppo vendono ancora meno dei primi e ritraggono sempre una realtà complessa e ambivalente, mentre il mercato ha bisogno di spirito critico monolitico da vendere alle sparute masse di lettori critici.

Leggi anche:
Vanni Codeluppi | Il capitalismo ci renderà stupidi?
Roberto Casati | Nicholas Carr. The Glass Cage

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Nicholas Carr