Due fotografie e il filo spinato / Dall’altra parte

27 Giugno 2016

A volte le immagini s’incontrano nella nostra testa per caso. Vedi una mostra a Roma, qualche giorno dopo visiti un museo a Berlino e si crea così una connessione di pensieri inaspettata che ti porta davvero altrove

Al Museo di Roma in Trastevere, a maggio, c’era una mostra bellissima e sconvolgente delle foto premiate dal Worldpress Photo 2016. Quella che ha vinto il primo premio è dell’australiano Warren Richardson e s’intitola Hope for a New Life. È stata scattata alla frontiera fra Serbia e Ungheria la notte del 28 agosto 2015. In quel periodo i lavori di costruzione del muro di protezione lungo il confine non erano ancora stati completati, quindi a separare Horgoš, Serbia, e Röske, Ungheria, c’era solo un filo spinato. E così vediamo un uomo curvo, con la bocca aperta e gli occhi disperati, che fa passare sotto al filo un neonato. E due braccia che lo afferrano. Quel bambino, in quell’esatto istante, è dall’altra parte

 

Neanche dieci giorni dopo ero a Berlino. Sono stata in quella città varie volte, non avevo voglia di tornare nei musei. Ero più curiosa di conoscere meglio la storia del Muro. Chissà perché, nei viaggi, spesso si procede per fissazioni. È stato così che ho scoperto una foto dell’agosto del 1961. Quando l’ho vista, mi sono sentita male. Forse perché la guardavo con occhi turbati dal presente, segnata dallo scatto di Richardson. Anche a Berlino, durante quell’estate, il muro non era ancora stato completato e c’era solo un filo spinato. E così si vedono due donne, con due bambini piccoli in braccio, che sollevano i loro figli sopra al filo perché possano toccarsi. I bambini si allungano, vediamo le braccia tese e le mani lanciate in avanti. Chissà se sono riusciti a toccarsi, e chi dei due era dall’altra parte

Sicuramente quelle donne non sapevano che nel giro di poco non sarebbe stato più possibile nessun contatto. Altrimenti, forse, una delle due avrebbe fatto come il migrante dell’agosto 2015, e avrebbe allungato suo figlio ad altre braccia, al di là di quelle terribili volute di ferro, violente ma ancora fragili, ancora scavalcabili. 

 

Il Muro di Berlino sembra appartenere a una storia molto diversa, ormai superata. Eppure quelle due foto, scattate nello stesso mese, a distanza di cinquantaquattro anni, in qualche modo si parlano. Anche il Muro di Berlino nasceva per fermare i migranti. Perché erano troppi. Se per un attimo perdiamo l’abitudine mentale di collegarlo alla Guerra Fredda, e lo pensiamo fuori da quel contesto, solo in relazione alla storia dei movimenti umani, forse possiamo sentire ancora viva tutta la paura. Se dimentichiamo russi e americani e la cortina di ferro, e pensiamo soltanto che, dopo la guerra, milioni di persone cercavano semplicemente di andare dall’altra parte, forse ci riguarda ancora. 

Nel settembre del 2015 il governo ungherese ha approvato la costruzione di una barriera lunga 175 chilometri, cioè lunga quanto il confine con la Serbia, alta 4 metri. Impossibile far passare dall’alto o dal basso nessun bambino. E pensare che proprio l’Ungheria aveva dato la prima picconata al Muro di Berlino, aprendo i suoi confini all’Austria – sempre in agosto – nel 1989. Più precisamente, il 23 agosto . Nei filmati dell’epoca si vedono file di pullman e di macchine, gente che attraversa il confine a piedi con le valigie in mano, cittadini della Germania Est che stappano bottiglie di spumante e mostrano cartelli con scritto «Nuovi amici ci chiamano». 

 

Stesso mese, agosto. Stesso paese, Ungheria. A distanza di ventisei anni, un muro si abbatte e un muro si costruisce. La coincidenza è così straziante che vengono in mente le parole di Rostropovič, dopo il famoso concerto improvvisato davanti alle macerie di checkpoint Charlie. Quelle indimenticabili Suite di Bach, suonate su una seggiola in prestito. Diceva che all’inizio aveva scelto arie in tonalità maggiore, perché si sentiva felice. Poi però aveva pensato a tutti i morti che aveva portato il muro, allora aveva suonato un’aria in re minore. 

Questo passaggio di tonalità, si sente forte e doloroso quando si guardano le immagini dell’Ungheria che apre i confini nell’ʻ89 e subito dopo quelle di sette mesi fa, di un vagone blindato che porta un pezzo di filo spinato per chiudere l’ultimo buco del muro anti-migranti, mentre il primo ministro Orbán annuncia valichi ufficiali, una porta blindata lungo la ferrovia, agenti ogni trentacinque metri, quattromila militari dispiegati lungo il confine Serbo, polizia di frontiera, arresti e detenzione nei campi profughi. In re minore sono le immagini della folla che cerca di sfondare la rete e dall’altra parte c’è la polizia, in tenuta anti-sommossa, con scudi e caschi, immagine che collassa, insieme alla telecamera travolta, su una donna che sviene, mentre partono i lacrimogeni. 

 

Tutto è cominciato in Grecia nel 2011 con un fossato, lungo centoventi chilometri, largo trenta metri e profondo sette, per chiudere i confini con la Turchia. Poi è arrivata la Bulgaria, che nel 2013 ha costruito una barriera in reti metalliche lunga centotrenta chilometri, sempre sul confine turco. Al di là della propaganda di destra di Alba Dorata o dello Jobbik ungherese, la ragione ufficiale per la costruzione di questi muri è economica. Impossibile sostenere le spese di accoglienza, dicono. Al Brennero, si è evitata per un pelo la costruzione di altre barriere. Chissà cosa sarebbe successo se quello scarto dello 0,6 per cento non ci fosse stato e Hofer avesse vinto le presidenziali. Ma in tutta Europa tira una brutta aria di destre xenofobe che vogliono muri, muri e muri. 

Se si blocca la via di terra, resta l’acqua. Sempre per inseguire un cortocircuito di immagini guardo le copertine di due libri appena usciti, quasi contemporaneamente. Quello di Maylis de Kerangal, intitolato Lampedusa (Feltrinelli) e quello di Emmanuel Carrère, intitolato A Calais. I due maggiori scrittori francesi hanno scritto sullo stesso tema, nello stesso momento. La copertina della de Kerangal raffigura l’acqua. Sul libro di Carrère invece si vede un muro di filo spinato. È la recinzione della Giungla di Calais, a cui qualcuno ha appeso dei vestiti. 

 

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Mentre Maylis de Kerangal si immerge completamente con la scrittura in tutta la liquidità del problema, cercando di combattere con l’immaginazione letteraria l’anonimato dei morti in mare, perché anche solo immaginare un volto è un modo per restituire un’identità a qualcuno, Emmanuel Carrère fa il contrario e sceglie di chiudere la sua stessa scrittura in un recinto. Si impone di non parlare della Giungla, come fanno tutti, ma di raccontare la tragedia dall’altra parte. Cioè attraverso lo sguardo degli abitanti di Calais. Perché «è un incubo per tutti: per i migranti, per i CRS, per i camionisti e per gli automobilisti». I migranti cercano di dare l’assalto alla tangenziale per saltare su un camion e attraversare così la Manica, lanciano rami o carrelli della spesa in mezzo alla strada, provocando spesso incidenti. Se anche riescono a forzare il portellone di un camion e a nascondersi dentro, alla dogana li aspettano cani, infrarossi, termorivelatori e rivelatori del battito cardiaco. E tutto questo ricorda molto le storie di chi cercava di oltrepassare il muro di Berlino: gente che si inventava di tutto e viaggiava nella pancia di una mucca finta, trasportata da un camion, la famosa «Mucca di Troia». 

 

«Si procede tra due recinzioni metalliche bianche, alte quattro metri, sormontate da filo spinato a lame di rasoio (la famigerata "concertina")», scrive Carrère. «Al governo britannico queste recinzioni sono costate quindici milioni di euro – è il loro contributo, la Francia fornisce gli uomini (...). Il paesaggio, che da quelle parti era ricco di valli, alberato, verdeggiante, è stato trasformato in un gigantesco fossato. Lo scorso autunno la società Eurotunnel ha fatto abbattere tutti gli alberi in un'area di cento ettari per impedire ai migranti di avanzare senza essere visti e per facilitare la videosorveglianza: neanche un coniglio riuscirebbe a nascondersi».

A questo punto, per collegare questi due libri così lontani e insieme così vicini, mi viene in mente un bellissimo film francese del 2009, diretto da Philippe Lioret, con Vincent Lindon, che si intitola Welcome. Ambientato a Calais. È la storia di un ragazzino curdo-iracheno, un clandestino, che prende lezioni in piscina per riuscire a oltrepassare la Manica a nuoto (dieci ore di traversata, nel grande traffico di navi). Bilal, braccato dalla Guardia Costiera, annegherà proprio davanti alla costa inglese. Credo di non avere mai pianto tanto al cinema. 

 

 

Intanto, a Londra, in questi giorni, nei Kensington Garden si festeggia il Serpentine Pavilion del designer danese Bjarke Ingels: un muro non muro, in fibra di vetro, tridimensionale, trasparente, ospitale, che smaterializza il concetto stesso di muro e cambia forma in base al punto di osservazione. Peccato che il muro anti-migranti di Calais non sia così. 

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