Di quanta mitologia ha bisogno l’uomo?

27 Marzo 2013

Parlando di Antropologia strutturale, Jacques Lacan ebbe un giorno modo di affermare che della mitologia Lévi-Strauss aveva compreso un aspetto fondamentale: e cioè che quello mitico è un dire a metà, un semi-dire, simile in questo alla parola analitica. In questo dire a metà la verità si manifesta sempre nell’intreccio di cose opposte, in un discorso irrispettoso del principio di contraddizione. In questo senso sarebbe un dire, quello mitico, perdente rispetto al razionalismo che ha il suo alleato più fedele negli ideali della chiarezza linguistica e della trasparenza comunicativa. All’interno di questo orizzonte, il mito sarebbe da un lato sconfitto; dall’altro tuttavia la sua esigenza e le forme della sua sopravvivenza non farebbero che riproporsi costantemente, appunto nella forma di un dire a metà, in barba a ogni modello di trasparenza, all’interno della vita umana.

 

Esemplare in questo senso è una scena che Joseph Campbell racconta in Percorsi di felicità. Mitologia e trasformazione personale (Raffaello Cortina, Milano 2012) e che potrebbe costituire a buon titolo l’immagine d’apertura del libro. Siamo a bordo dell’Apollo 10 nel 1969, a pochi mesi dalla missione Nasa che porterà l’uomo sulla luna. All’interno della navicella spaziale si trovano tre astronauti, la cui missione è di rimanere in orbita e di realizzare la prova generale dell’allunaggio. A un certo punto, in una delle pause di lavoro, i tre uomini aprono la Bibbia e iniziano a leggere il libro Genesi.

Campbell racconta di essere rimasto molto colpito da questa scena: qui coordinate culturali nettamente discordanti si sovrappongono le une alle altre. Da un lato, si assiste alla realizzazione di possibilità tecniche inaudite, offerte dallo sviluppo dell’astrofisica e dell’ingegneria spaziale. Dall’altro, i tre astronauti cercano conforto per la loro impresa nella lettura di un testo antico migliaia d’anni, la cui descrizione dell’universo non sembra avere più molto in comune con il cosmo che la navicella statunitense attraversa in quel momento. La condizione fisica dei tre astronauti e la tradizione religiosa che pure continuano a citare risultano segnate da una profonda discontinuità; un anacronismo attraversa la scena da parte a parte. Con tutta evidenza l’epoca dello sviluppo tecnologico non era stata in grado di creare una nuova mitologia che accompagnasse tale sviluppo e sapesse risvegliare il cuore degli uomini, come invece facevano i versi del Genesi. D’altra parte quegli stessi uomini non sembravano aver perso la capacità di operare un bricolage di materiali mitici, per servirsene nelle più disparate situazioni del loro presente.

 

Tuttavia è anche vero che, se l’epoca tecnologica è stata in grado di realizzare cose che l’umanità aveva sino ad allora solo sognato, contemporaneamente non è stata in grado di dotarsi di racconti che permettano di collocare l’uomo nell’immenso spazio di esperienza che la tecnologia stessa ha aperto. Che il mito sia in grado di favorire il viaggio compiuto da ciascuno nella propria esistenza, è stato il convincimento che ha guidato Campbell nelle ricerche di una vita: mitologia e realizzazione del sé stanno e cadono insieme. Senza il valore-guida dei miti la vita umana si smarrisce. Questo assioma ha a che fare con la differenza tra mito e storia e perciò con il fatto che il mito non riguarda un presente storico, né ha tanto meno valore biografico: è perché trascende il presente che un mito è in grado di suscitare in ciascuno un passo in avanti che è, in un certo senso, anche un passo al di là di sé. Questo passo non può essere risvegliato da un racconto che miri alla trasparenza o alla resa linguistica di fatti reali. Come per il principio secondo il quale “il tao che si può nominare non è il tao”, anche il mito attiene a una regione della vita umana in cui la trasparenza equivale alla rinuncia ad accedere a tale regione. Il racconto mitico riguarda perciò la sfera di ciò che resta, in ogni singola vita, indescrivibile e che come tale supera il piano propriamente allegorico.

 

Se occorre riconoscere nell’incapacità di dotarsi di una propria mitologia, che non sia quella illusoria dei consumi, uno dei segni più certi della contemporaneità, è tuttavia possibile pensare il disagio dell’epoca presente come conseguenza della perdita del racconto mitologico all’interno della nostra cultura? In che senso la rinuncia ai miti è una privazione di cui paghiamo oggi gli effetti? Per Campbell a impedire la formazione di un corpus mitico, com’è stato invece nelle epoche passate, è la mancanza della stasis necessaria a dar forma a una nuova tradizione. Mancanza di quiete e mancanza di tempo sembrano andare qui insieme: là dove niente si deposita, né si sedimenta, niente permette quella non-trasparenza, nella quale sola può darsi percorso, ricerca, dal momento che proprio una simile non-trasparenza è in grado di mettere in contatto ciascuno con il proprio divenire ovvero con la propria autorità. Di questo si incaricavano nei tempi antichi i riti, che altro non sono che miti attualizzati. In particolare, i riti di passaggio sanciscono l’ingresso all’interno dell’età adulta, in cui occorre lasciarsi alle spalle l’infanzia e nascere a una nuova fase della propria vita. Di questa seconda venuta al mondo, di questa nascita non biologica ma culturale, cioè simbolica, si incaricano appunto i miti. È all’interno della loro prospettiva che le emozioni possono crescere e giungere a maturazione. In questo senso la loro confutazione in senso razionalistico, tipica della modernità, decretandone l’insensatezza, ha finito per sancire la distruzione dei miti. Assistiamo così a una serie di seconde nascite mancate o di un’infanzia prolungata indefinitamente; assistiamo a vite incapaci di far il loro ingresso all’interno dell’ambito simbolico, cioè della dimensione adulta: vite che si rifiutano al loro divenire, ostili al mondo perché prive della capacità di orientarsi al suo interno.

 

D’altra parte, è anche vero che una rifondazione mitologica del mondo inizia per ogni civiltà proprio da una crisi che, rimettendo in discussione il predominio delle forme culturali consolidate e delle soluzioni individuali, postula la necessità di un passo al di là degli schemi abituali. È per questo che non c’è cultura né civiltà che non prendano avvio da una simile crisi. Così la maggior parte delle grandi cattedrali d’Europa furono costruite tra il 1150 e il 1250, in un secolo in cui la popolazione non aveva neppure abbastanza di che vivere. È come se la crisi di tutta una civiltà avesse prodotto la passione che edificò quelle cattedrali. Quando si iniziò a dubitare del mito che aveva supportato tutta quella passione e a confutare la verità storica dei testi di quel mito, svanì l’ispirazione e si spense l’intensità mitologica che aveva sorretto tutta quell’epoca e aveva permesso agli individui, come alle loro comunità, di impegnarsi nel rischio di un passo al di là della sfera familiare e del già saputo.

 

La libertà dell’epoca presente, di potersi muovere senza le guide del mito, è giunta piuttosto ad assomigliare a una caduta libera, senza istruzioni, dentro un pozzo chiamato “futuro”: non cadiamo nel tempo, perché il tempo sembra essersi annullato insieme al mito, ma solo in un’indeterminata sovrapposizione di istanti. Rispetto alla crisi della civiltà la necessità che oggi si impone è pertanto quella di re-imparare a vivere. In un tempo in cui le cose sono diventate tecnologicamente più facili, ne consegue che gli uni si distaccano dagli altri: nulla li lega insieme, né un’aspirazione comune, né un comune terrore. Se questo ha cessato, almeno in parte, di costituire l’orizzonte di riferimento dell’epoca presente, d’altra parte insieme ad esso scompare anche il mito che lo accompagnava e che apriva l’uomo a un orizzonte più vasto delle ambizioni di ogni io. Ma questo il mito sapeva farlo perché, prima che essere uno schema complessivo di comprensione della realtà, era in effetti il custode del mistero ultimo dell’essere, la cui prima opera era di risvegliare nell’uomo il senso di questo mistero e la gratitudine di poter vivere al suo interno.

 

Cosa fare allora? Suscitare una rinascita, permettere che delle creature umane riprendano vita, significa per ciascuno compiere quel passo che porta alla propria seconda nascita. Questa è tuttavia possibile solo imparando a riconoscere e ad accogliere l’imperfezione dell’essere umano, quell’imperfezione che chiede amore, ovvero che esige distanza da sé, dal proprio attaccamento a se stessi. Così le parole che permettono all’umanità di vivere possono derivare unicamente da un ascolto che metta in condizione di riconoscere e di accogliere l’imperfezione che ci circonda, e di prenderne parte.

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