Nella narrazione storica esiste una patologia? / Distruzione e trauma

13 Dicembre 2016

Che significa avere un trauma?

 

“Non c'è il rischio di banalizzare l'esperienza traumatica? Mi sembra che la questione sia importante anche perché questa concezione patologica della storia va spesso di pari passo con la diffusione delle tecniche di debriefing o defusing, che dovrebbero permettere di raccontare il prima possibile l'evento traumatico.”

 

Partirei da questa riflessione di Sabina Loriga per illustrare i contributi collettivi al tema della distruttività umana proposti da due importanti riviste psicoanalitiche: il numero 8 di 

“notes per la psicoanalisi”, dal titolo Il trauma la Storia, e il numero 1 di “psiche”, intitolato Distruggere. Come si può intuire, trauma e distruzione non sono la stessa cosa, anche se tra i due eventi è probabile, ma non necessaria, una concatenazione. 

 

Loriga aggiunge che il trauma storico, pur avendo le stesse caratteristiche del disastro naturale – il disorientamento spaziale e temporale – annienta il divieto di uccidere. Un terremoto e una guerra sono esempi differenti di distruzione. Se a ciò si aggiunge la distruzione delle rovine ci si trova di fronte a una serie, una proliferazione di eventi: lo scoppio casuale di un residuato bellico, la caduta di un bimbo in un pozzo artesiano, una frana che produce il travalicare di una diga, i bombardamenti da un confine all'altro senza alcuna dichiarazione bellica, il suicidio, la caduta casuale da un'impalcatura, ecc. Sono altrettanti episodi di distruzione che possono condurre al trauma. La serie sfuma la differenza radicale tra storia e natura.

 

Nella cultura popolare ci sono segni traumatici che appartengono al corpo. Temporanei – l'impallidire, l'arrossire, uno svenimento, la perdita temporanea della vista – permanenti –, l'incanutire, la diplopia, il claudicare, un tic. Benché sia necessaria una distinzione tra trauma da evento naturale e trauma di guerra, che legittima l'assassinio come pratica normale, è tuttavia necessario interrogarsi sulle incurie, le arroganze scientifiche, le corruzioni che hanno prodotto i disastri del Vajont, di Fukushima, di Haiti, supposti disastri naturali.

 

Il trauma è reazione a un evento, il più delle volte, distruttivo. Ginevra Bompiani descrive questo rapporto raccontando la distruzione di Sòdoma: durante la distruzione della città i salvati hanno l'ingiunzione di non voltarsi a guardare; la moglie di Lot disobbedisce, si volta e rimane di sale. L'evento distruttivo ha un effetto sul soggetto, questo è, propriamente, il trauma. Non un evento, la reazione del soggetto a un evento. 

 

Ph Robert Capa.

 

Potremmo dunque considerare il termine “evento traumatico”, abusato in psicologia, come una tautologia che espelle l'elemento esterno che lo ha prodotto: l'evento di distruzione. È così che agiscono le terapie riparative che menziona Loriga: riparano l'evento traumatico, agiscono su una tautologia, l'evento potrebbe anche non esserci mai stato, è “costruzione sociale”. 

 

Nel caso della moglie di Lot assistiamo a una discontinuità, un cambiamento repentino, la carne, le ossa, gli umori del corpo si trasformano immediatamente, in un colpo, in sale, paradigma di aridità assoluta. Più spesso accade il vincolo psichico, descritto da Freud come una memoria del corpo che si ripresenta anni dopo, indecifrabile. Il soggetto, di fronte alla distruzione, non capisce ciò che accade, non riesce a comprenderla, è qualcosa più grande della possibilità di afferrarla. Rimane attonito.

 

La teoria della complessità ha approfondito il rapporto tra cambiamento continuo e discontinuo attraverso la produzione di modelli: la teoria delle catastrofi di René Thom (1923-2002), la teoria della strutture dissipative di Ilya Prigogine (1917-2003), l'idea di ordine dal caos di Heinz von Foerster (1911-2002). Il fenomeno del vincolo psichico descritto da Freud, rientra nel novero dei fenomeni di accumulazione che producono discontinuità. 

 

A questo proposito, trovo interessante il saggio di Marco Pacioni sulla distruzione delle rovine. La rovina è già qualcosa di distrutto, è già elemento di un sistema di relazioni caotiche tra frammenti. L'opera d'arte, nel perdere la completezza attraverso la distruzione, si mostra come vestigio e ci impone un'inquadratura. Chiunque abbia fatto l'esperienza di passeggiare ai Fori Imperiali o di visitare le rovine greche, ha questa strana sensazione. Dal versante oggettivo intravediamo un'epoca, da quello soggettivo, abbiamo un déjà vu: essere dentro la cornice del tempo storico, dei suoi confini. 

 

Il gesto distruttivo e la profanazione sono dunque destinati allo scacco nel momento in cui si mostrano: il gesto distruttivo di vestigia non fa che produrne di nuove, lascia sul terreno vestigia differenti, che sapranno raccontare anche la storia di queste nuove profanazioni, il sacco di Roma, le invasioni barbariche, la visita di Petrarca, le immagini di Piranesi, quella di Hawthorne che dà vita al Fauno di marmo; tutto ciò non ha fatto altro che rinnovare l'immagine di Roma.

 

Le vestigia sono traumi dell'oggetto, qualcosa che trapassa la storia. Ma per avere un'aura il tempo dev'essere di lunga durata. Gli oggetti non sono tutti uguali, compongono un sistema di attori che costituisce il soggetto, soggetti e oggetti non sono separati, dipendono gli uni dafli altri in maniera inestricabile, ogni soggetto è un sistema di connessioni tra il sé e le cose che lo implicano, non esiste un sé nel vuoto. Come sottolineano Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969) nella Dialettica dell'illuminismo, la sottrazione del sé alla potenza distruttiva degli dei fu l'impresa faticosa di Ulisse, ma necessita una sostituzione: un capro espiatorio. In un certo senso la storia stessa è la descrizione del caso clinico umano.

 

Non si tratta di avere una “concezione patologica della storia”, piuttosto si tratta di Verleugnung, un termine che Freud usa per designare una forma radicale della negazione, quanto oggi indichiamo con il termine negazionismo o, in olandese, menzogna. Dal termine leugen. La domanda allora potrebbe essere: nella narrazione storica esiste una patologia? La distruzione produce una patologia del politico? Qualcosa che ha a che fare con la storia e, in particolare, con la storia dei sistemi di pensiero?

 

Una parte della psicoanalisi, per non essere a nostra volta negazionisti, ha colluso con un'idea di irrimediabilità del trauma; il soggetto traumatizzato sarà irrimediabilmente destinato alla patologia grave, e dunque, se siamo di fronte a una patologia grave, dobbiamo andare a cercare il trauma che l'ha prodotta, per quanto lungo e faticoso sia il processo che permette di far venire a galla il materiale inconscio rimosso. 

 

A questa visione mortificante dell'esistenza del paziente, ha risposto una facile tecnologia della risoluzione rapida del trauma attraverso pratiche ipnotiche, semi-ipnotiche di rilassamento californiano, di new-age. Nel primo caso la storia è unicamente storia del soggetto enunciato e non del soggetto che enuncia e trasforma il trauma, nel secondo caso la storia non esiste più, si tratta di riprendere ad avere successo sul libero mercato, il trauma si lava con il detersivo tecnologico e il delirio diventa la normalità.

 

Nel libro Psychonet, Eleonora De Conciliis osserva: “Chi partecipa a un delirio collettivo non lo riconosce come tale – in un mondo di malati, il malato si sente sano, mentre il sano viene percepito come un malato: il giudizio sociale sulla salute mentale non è assoluto”. Questo la psicoanalisi non dovrebbe mai dimenticarlo, né tralasciarne le conseguenze politiche e cliniche, pena un ritorno alla neutralità professionale che ha caratterizzato buona parte dell'Ego-Psychology negli anni bui dell'International Psychoanalytic Association e che oggi caratterizza molti approcci tecnologici e riparativi al trauma.

 

Si vedano anche:

N. Losi, Guarire la guerra, L’Harmattan, 2015.

M.-R. Moro, R. Finco (a cura di) Minori o giovani adulti migranti?/Mineurs ou jeunes adultes migrants?, testi bilingue, L’Harmattan, 2015.

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