Due patrie

17 Marzo 2011

Una riflessione importante e sofferta quella di Primo Levi sulla patria e le sue insidie. L'Heimat, la cui memoria è diventata nel secolo breve del 900 un sinonimo di violenza e di morte, è ormai attraversata da una furia patriottica che non è né innocente da un punto di vista politico né casuale da un punto di vista storico. Nei campi di sterminio, la forza maieutica dell'Illuminismo si è scontrata con il disincanto, con i dubbi e la disperazione generati dalle sue promesse fallite. Una “nuova patria” etnica, razzista e assassina per la cui memoria si è pronti a morire e a uccidere, è all'orizzonte. Un nuovo straniero, “interno” come il suo altro storico, “l'ebreo”, affiora come un nuovo nemico ai confini della patria europea, si insinua nel “noi” sicuro e apparentemente indiviso, lo minaccia pericolosamente. In Europa, la questione del nemico da cui difendere la patria emerge così drammaticamente, un'altra volta, con una forza nuova. Contingente e simile al modo in cui guardava all'ebreo, ora guarda all'arabo. Una storia che si muove all'interno di un'alterità mai accettata. Una storia del nemico scritta nel registro storico dentro e tra due identità polarizzate e speculari: quella dell'ebreo e dell'arabo. Tra queste due condizioni di possibilità e impossibilità va ripensata l'idea della “patria”, nella diversità e nella tolleranza. La scelta di non volere avere una patria, di non sentirsi mai in patria, a volte persino di rifiutarla, pur parlando la lingua, condividendo i costumi, la sua memoria storica, non è solo una posizione filosofica. Per chi come me, che di patrie ne ha due, una di nascita e un'altra di appartenenza, essa assume il significato di vera e propria attualità storica. “Di quanta patria ha bisogno l'uomo?”, si chiedeva Jean Améry dopo Auschwitz. Non so rispondere a questa domanda. Di quanta patria io abbia bisogno, non lo so. Non riconosco la patria, né la fedeltà ad essa, quando è invocata per sacrificarLe mariti e figli e amici, soprattutto vivendo dove vivo. E preferisco la condizione dell'errare, dello stare tra due mondi, vivendo un'esistenza in bilico, meno sicura e meno patriottica. Non è la piaggeria di chi ha troppe patrie, né di chi celebra l'assenza di un'identità civile giuridicamente valida, ma di chi pensa e prova, parlando della patria, il disagio di non possederne veramente nessuna. “In nessun luogo e da nessuna parte” ben definisce lo scarto identitario e culturale in cui mi si sento presa, come in una morsa, quasi mortale. Ne tecum ne sine tecum vivere possum.

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