David Wojnarowicz: Rimbaud sul metrò

17 Dicembre 2025

Interno di un vagone della metro di New York, linea diretta a Brooklyn, Flatbush Avenue. Le pareti sono ricoperte da graffiti impressi sulla carta fotografica con il bianco e nero denso e materico della gelatina ai sali d’argento. Una donna dorme avvolta da un foulard scuro, mentre altre due chiacchierano: una di loro, però, lancia un’occhiata incuriosita al passeggero seduto di fianco a lei, un uomo giovane in jeans, canottiera e smanicato nero che indossa una maschera triste, gli occhi rivolti verso il finestrino. È il volto di Arthur Rimbaud, disincarnato, avulso dalla bohème parigina e trapiantato nella New York cupa e malfamata di fine anni ’70.

È il 1975 quando il New York Police Department (NYPD) fa circolare tra residenti e turisti in arrivo a New York un opuscolo inquietante con l’immagine della morte incappucciata sovrastata da un overdramatic “Welcome to Fear City”. La polizia lamenta il taglio della spesa pubblica destinato alla sicurezza, in una città che registra un tasso di criminalità in prepotente ascesa: “il miglior consiglio che possiamo darvi” prosegue l’opuscolo “è di stare lontani da New York per quanto possibile”, non spostarsi a piedi dopo le 6 del pomeriggio e, soprattutto, non lasciare la zona di Midtown. South Bronx (o “Fort Apache”, come l’aveva soprannominato il NYPD) e Downtown Manhattan erano zone particolarmente pericolose: esito inevitabile di un’importante crisi finanziaria e abitativa che culminò nel blackout del 1977 e nei conseguenti episodi di guerriglia urbana e saccheggio, queste aree erano lo specchio di una città sull’orlo del tracollo finanziario e di un Paese piegato dalla crisi petrolifera del 1973 e dall’onda lunga della guerra in Vietnam.

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David Wojnarowicz, Arthur Rimbaud in New York (coney island), 1978-79, silver print.

David Wojnarowicz, artista queer e HIV+ morto nel 1992 di AIDS conclamata, documenta, in tutta la sua opera, gli spasmi di un’America sofferente e di una New York sventrata dalla crisi: fotografo, visual artist, performer e scrittore, Wojnarowicz è stato una delle figure di culto della scena artistica della Downtown Manhattan che ha raccontato nella sua fulgida parabola dagli inizi fino alla disgregazione causata anche e soprattutto da gentrificazione e crisi dell’AIDS.

Definito da molti “l’ultimo dei Beat”, David Wojnarowicz abitava quotidianamente tutti quei bassifondi da cui il NYPD consigliava di tenersi alla larga e parlava con quelle persone che la società mainstream rigettava, vivendo lui stesso ai margini in quanto omosessuale, sex worker (perlomeno, fino a metà degli anni ’70), squatter e artista dall’animo spiccatamente antisistema, antirazzista, anticapitalista e antigerarchico. Per Wojnarowicz, la “strada” e tutte le creature che la popolavano furono sempre materia viva e pulsante: in Sounds in the Distance, lavoro pubblicato nel 1982 con una nota di accompagnamento di William Burroughs, Wojnarowicz cuce le testimonianze raccolte durante i suoi lunghi viaggi in auto, alla stazione degli autobus, in un dive-bar sull’Hudson, in un ristorante cinese, creando una polifonia di voci che rifrangono come un prisma il tema della solitudine e dell’alienazione in un Paese fratturato e distrutto dal crollo dell’American Dream. Alcuni dei monologhi furono anche pubblicati con il titolo Monologues for the Stage from ‘Sounds in the Distance’ by David Wojnarowicz su Bomb nel 1983 e nello stesso anno furono adattati per il teatro da Bill Rice. La compagnia teatrale Turmoil (fondata dallo stesso Rice, Allen Frame e Kirsten Bates) li mise in scena, con Nan Goldin tra gli interpreti.

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David Wojnarowicz, Arthur Rimbaud in New York (under brooklyn bridge), 1978-79, silver print.

Come scrive Félix Guattari, Wojnarowicz lega saldamente il suo processo creativo alle epifanie del quotidiano o, ancora, secondo Hugh Ryan, è possibile vedere la scrittura (e, aggiungerei, l’arte) di Wojnarowicz come una transustanziazione del quotidiano in sacro: in quest’ottica, dunque, vanno lette le immagini che compongono la tanto attesa mostra David Wojnarowicz: Arthur Rimbaud in New York, ospitata al Leslie-Lohman Museum of Art di New York (1° ottobre 2025- 18 gennaio 2026).

La mostra, curata da Antonio Sergio Bessa, intende presentare alcuni degli “scatti-performance” che Wojnarowicz creò assieme ad alcuni amici tra il 1978 e il 1979, a partire da uno studio sulla figura del poeta francese Arthur Rimbaud che rappresentava per Wojnarowicz una sorta di stella polare. Come racconta la biografa di David Wojnarowicz, Cynthia Carr, pur essendo nati a un centinaio di anni di distanza, David si identificava profondamente con il poeta: entrambi erano stati abbandonati dai padri, entrambi erano scappati di casa da adolescenti, erano poveri, rifiutavano di vivere secondo le regole, erano omosessuali e avevano cercato di trasformare la loro sofferenza in un’opera visionaria. Anche Wojnarowicz avrebbe presto incontrato un uomo più anziano che sarebbe diventato il suo mentore (il fotografo Peter Hujar), proprio come Verlaine lo era stato per Rimbaud, e anche lui sarebbe morto giovane, a trentasette anni.

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David Wojnarowicz, Arthur Rimbaud in New York (dogfight), 1978-79, silver print.

Nell’estate del 1978 iniziò quindi a fotografare Rimbaud in New York con una macchina fotografica presa in prestito, utilizzando l’allora compagno Brian Butterick come modello. In particolare, voleva che il poeta attraversasse i luoghi che avevano fatto parte della sua vita, i posti in cui era vissuto da bambino, in cui aveva sofferto la fame o si era sentito oppresso, legando l’anarchia che regnava in una New York al collasso con gli anni della Comune parigina del 1871. Vediamo quindi Brian con la maschera del poeta sulla 42nd Street – il quartiere a luci rosse dietro Times Square – oppure in metropolitana o mentre si inietta una dose di eroina.

Il Rimbaud che appare a Coney Island, invece, è interpretato da Jean-Pierre Delage, che era venuto a New York per far visita all’amico e amante David. Jean-Pierre ricorda di essere andato un paio di volte con lui a Coney Island: si svegliavano alle cinque del mattino per arrivare sulla spiaggia quando era ancora deserta e lì scattavano le foto sulla sabbia o davanti a un chiosco di hot dog.

La mostra allestita al Leslie-Lohman, con il sostegno della PPOW Gallery e della Fondazione Wojnarowicz, è la più completa – e complessa – mai realizzata finora, dal momento che raccoglie materiale proveniente da tre diversi portfolio, compreso quello della prima esposizione della serie nel 1990 presso la galleria PPOW. A proposito di questo lavoro, fu lo stesso Wojnarowicz a sottolinearne il senso d’urgenza: “I felt, at that time, that I wanted it to be the last thing I did before I ended up back on the streets or died or disappeared”.

Oltre alla serie dedicata a Rimbaud, l’esposizione ospita anche una selezione di materiali d’archivio e oggetti custoditi presso la sezione Special Collections della Fales Library, tra cui la xerocopia di Sounds in the Distance appartenuta all’artista e il dattiloscritto di Brian Butterick destinato a fungere da prefazione, ma mai pubblicato. La natura composita della mostra contribuisce non solo a portare il visitatore nel mondo del Rimbaud newyorkese, ma attraverso gli occhi di questo moderno flâneur si ricostruisce il tessuto vibrante della scena artistica sperimentale e punk che si stava sviluppando nella Downtown Manhattan. Come sottolinea Nicholas Martin nell’introduzione al catalogo della mostra, tutto il mondo della controcultura newyorkese e la nascente scena punk che si snodava attorno ad una serie di luoghi culto come il CBGB o il Poetry Project presso St. Mark’s Church erano legati in misura del tutto nuova a una spiccata dimensione poetica. La figura di Rimbaud, in particolare, attraversava trasversalmente l’immaginario di molti artisti della scena newyorkese underground: non solo Richard Hell e Tom Verlaine (Neon Boys, Television e Richard Hell and the Voidoids) iniziarono la loro carriera di poeti e musicisti mutuando da Rimbaud l’ispirazione per i loro nomi d’arte, ma la stessa Patti Smith deve moltissimo al poeta francese in termini di linguaggio simbolico e modelli. Smith ricorda di quando, completamente persa e in cerca della sua strada nel mondo dell’arte, prese per caso Illuminations di Rimbaud da una pila di libri usati, attratta dal volto in copertina (lo stesso, peraltro, protagonista della serie Rimbaud in New York): da quel momento, Smith iniziò a portare sempre con sé il prezioso libro, attingendo agli affreschi onirici di Rimbaud e al suo linguaggio “scintillante” per affinare il proprio repertorio di simboli.

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David Wojnarowicz, Arthur Rimbaud in New York (movie house), 1978-79, silver print.

Il Rimbaud di Wojnarowicz si posiziona all’interno del contesto urbano che intende raccontare: non cerca assimilazione, non si muove con circospezione, ma occupa lo spazio, rivendica alterità e unicità con quella prospettiva apertamente queer che ha contribuito a rendere il lavoro di Wojnarowicz uno snodo fondamentale nella storia dell’arte queer americana (ma non solo). In tutta la sua opera l’artista parla infatti di visibilità del desiderio queer – termine che lui preferisce rispetto a un omonormativo “gay” per il portato politico e uncompromising che reca con sé – di rappresentazione, di salute sessuale e di violenza istituzionale, quella perpetrata anche e soprattutto a carico delle persone con HIV a cui per molto tempo è stato negato l’accesso alle informazioni essenziali in materia di salute e prevenzione, condannate a morte certa dal bigottismo e dall’inerzia delle istituzioni.

Ed è questo il punto di partenza da cui parte il primo degli eventi a cui ho avuto modo di partecipare organizzati dal Leslie-Lohman e dedicati alla memoria e alla lotta di David Wojnarowicz: il 5 novembre la sala è gremita di gente e si proietta su due maxischermi il reading di Wojnarowicz al Drawing Center nel 1991 in occasione di un evento di raccolta fondi per ACT UP. Segue il filmato della marcia funebre per l’artista, il primo funerale politico della storia celebrato da compagni e compagne di lotta nell’East Village all’indomani della sua morte, avvenuta nel luglio del 1992. Ospiti della giornata le artiste e scrittrici Eileen Myles e Maggie Nelson, che hanno riflettuto non solo su cosa significhi doversi confrontare a trent’anni con la prospettiva di una morte certa, ma anche sul corpo come archivio della memoria. David ha reso il suo corpo e la guerra che lo ha attraversato un living inventory della tragedia che ha dovuto subire, nello stesso modo in cui David stesso aveva reso eterno il corpo dell’amico e mentore Peter Hujar pochi istanti dopo la sua morte per AIDS nel 1987 cristallizzandolo in una serie di 23 scatti. Foto di amici che sono giovani e che resteranno giovani per sempre, “amici con cui saremmo dovuti invecchiare” e che invece siamo costretti a commemorare, dice Nan Goldin in occasione del secondo evento tenutosi al Leslie-Lohman l’8 novembre, dove è intervenuta in dialogo con l’artista Zoe Leonard e lo scrittore e performer Morgan Bassichis. Amato e odiato “with equal ferocity”, David non accettava la censura, anche quando questa si abbatté come una spada sul testo da lui scritto in occasione della mostra organizzata dalla stessa Goldin Witnesses: Against Our Vanishing nel tentativo di portare l’attenzione sulla comunità artistica della Downtown falcidiata dall’AIDS e costruire un vero e proprio “archivio queer”, secondo l’analisi di Ann Cvetkovich. Come sostenuto da Cvetkovich in An Archive of Feelings: Trauma, Sexuality and Lesbian Public Cultures, infatti, la dimensione dell’attivismo, la performance e la letteratura sono strumenti importanti per modellare una cultura che rielabori il trauma subito dalle soggettività queer e modifichi le condizioni che lo hanno generato. Il fatto che la stessa storia queer esista è oggetto di contestazione, sottolinea la studiosa, e il lavoro di preservarla è reso ancora più difficile dal silenzio con cui solitamente si riveste tutto ciò che ha a che vedere con la vita intima e la sessualità. L’intervento di Bassichis sul conflitto interiore che anima chi svolge ricerca sugli archivi di una persona defunta è stato, poi, particolarmente interessante: nel corso di questa attività non solo ci si confronta “with people’s unfinished business”, ma si ha anche il compito di onorare la memoria di una persona la cui vita è stata ritenuta sacrificabile – “expendable” come scriveva Wojnarowicz. Comprenderne dunque la complessità di pensiero è un atto d’amore, un modo per restituire dignità post mortem a una persona a cui la dignità nella morte è stata negata.

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David Wojnarowicz, Arthur Rimbaud in New York (sitting/pier, gun), 1978-79, silver print.

La mostra David Wojnarowicz: Rimbaud in New York parla dunque di fantasmi: il fantasma di David e quello di Rimbaud, il fantasma di tutti e tutte coloro che hanno perso la vita durante l’epidemia di AIDS a causa della violenza istituzionale, il fantasma di tutti quei senzatetto invisibili che popolavano le strade di Manhattan, delle prostitute che si trascinavano stanche, il fantasma di quelli che cercavano sesso occasionale tra le lamiere di un molo sull’Hudson, ombre agglutinate nei meandri urbani che attendono di scivolare nel sonno. Ma è anche una mostra sulla vita e sulla forza dell’unicità, su un Rimbaud che attraversa lo spazio e il tempo facendo del suo margine la sua forza, della sua fragilità il suo nerbo, un Rimbaud che respira morte ma essuda vita, pieno di grazia e di rabbia. Un Rimbaud archetipico e universale sotto la cui maschera potremmo esserci tutti e tutte noi.

In copertina, David Wojnarowicz, Arthur Rimbaud in New York (subway), 1978-79, silver print.

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