Femminicidi e educazione sentimentale

22 Novembre 2023

F., 22 anni, studia ingegneria biomedica, litiga davanti a un McDonald con G., l'ex fidanzata alla vigilia della laurea, la massacra di botte, la chiude nel bagagliaio dell'auto, la accoltella, la lascia morire dissanguata, la infila in un sacco della spazzatura e la butta in un burrone.
Per il padre, era “un ragazzo normale, praticamente perfetto. Uno sempre bravo a scuola, che non ha mai avuto un problema con i professori o con i compagni. E mai una volta che abbia litigato con qualcuno. Era un buono, un ragazzo molto tranquillo. Andava d'accordo anche con il fratello piccolo”. Per l'allenatore della squadra di pallavolo era “un ragazzo d'oro”, ma una sua compagna ricorda “che poi ha smesso” di giocare.

L'ennesimo truce e insensato femminicidio sembra aver suscitato reazioni più profonde del solito. La giovane età dei due protagonisti della vicenda ci sta facendo capire che qualcosa non funziona nella società italiana, nelle famiglie, nella scuola, nell'informazione.
Quando raccontano “i giovani”, i media ricorrono a due riflessi condizionati. Secondo il primo, sono violenti e pericolosi, rabbiosi, spesso alcolizzati dai botellon o addirittura drogati: ecco le baby gang che si sfidano, i trapper che inneggiano a soldi droghe bellemacchine sessofacile, i maranza che calano dalle periferie e rendono insicure le nostre città. In alternativa, sono ragazzi e ragazze depressi, autolesionisti con tendenze suicide. Eccoli allora NEET “sdraiati”, hikikomori solitari, anoressici e bulimici, ipnotizzati da mille altre dipendenze (lo smartphone, la playstation, l'azzardo...).

Questa doppia caricatura suscita due richieste che non ammettono alternative: da un lato la criminalizzazione e la repressione in nome della “sicurezza”, dall'altro la medicalizzazione (e magari gli psicofarmaci). Delle cause del disagio, inutile parlarne. Quando esplode il problema, sbattuto “drammaticamente” e “tragicamente” in prima pagina, l'importante è non mettere in discussione le proprie certezze profonde. Molto meglio proporre una soluzione facile e a portata di mano, delegando la responsabilità a qualcun altro (o a qualcos'altro): il carcere, lo psicologo, gli psicofarmaci, l'assistente sociale, la scuola.

Sull'onda emotiva del femminicidio numero 83 dell'anno (ma il conto sta già salendo), il ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara propone di istituire un'ora a settimana di “Educazione alle relazioni”, con gruppi di “discussione e autoconsapevolezza”. Dodici incontri facoltativi nell'arco di tre mesi, con insegnanti addestrati in un paio di incontri da psicologi ed esperti. Saranno le singole scuole e classi a decidere se partecipare a questa “azione di sensibilizzazione per mezzo di gruppi di discussione e autoconsapevolezza secondo il metodo del training group”, sotto la guida di un moderatore-docente: insomma, un “conduttore unico delle coscienze”, con la definizione che Aldo Grasso utilizza per i talk show (oltretutto il trainer non dovrebbe essere conosciuto dai membri del gruppo: l'insegnante, anche per il suo potere su studenti e studentesse, non è certo la figura più adatta alla funzione).

Arriveranno altre lezioni di saggezza impartite dsgli adulti per ripetere ai ragazzi che non è bene ammazzare le ragazze e alle ragazze che non è bello farsi ammazzare dai ragazzi. Pare una versione ancora meno efficace della famigerata e bistrattata ora di Educazione Civica. Con un'aggravante: nella scuola italiana, di fondo cattolica e moralista, l'educazione sessuale è un tabù: siamo uno dei pochi paesi dell'Unione Europea in cui non è materia obbligatoria perché, come proclama a nome della Lega il sottosegretario Rossano Sasso, “L'educazione sessuale ai bambini è una nefandezza”. Ragazze e ragazzi possono informarsi su YouPorn e OnlyFans.

Gli spiegoni degli insegnanti sul galateo delle relazioni causeranno soprattutto noia. Se davvero s'innesca il dibattito tra ragazzi e ragazze sui loro desideri e sulle loro paure, scatterà subito lo scandalo: come accadde ai tempi della “Zanzara”, al liceo Parini di Milano negli anni Sessanta, prima della “rivoluzione sessuale”. Non appena un adolescente esprime il proprio pensiero, arrivano l'educatore e il genitore benpensanti che ritengono loro dovere proteggere le piccole creature dalle malvagie allusioni.

È successo anche di recente, quando in un liceo di Bologna la compagnia Kepler 452 ha riproposto a studenti e studentesse le domande che faceva Pier Paolo Pasolini nella celebre inchiesta Comizi d'amore. Hanno pubblicato un volantino con alcune delle frasi emerse nei laboratori e il progetto è stato subito sospeso. Per fortuna alcuni genitori hanno obiettato che se i ragazzi manifestano un disagio, magari anche in maniera inconsapevole attraverso le loro affermazioni, forse sarebbe giusto indagarlo.

Foto di Michele Lapini

Più che un'ora di talk show buonista in classe, le scuole e i genitori potrebbero proporre ai ragazzi e alle ragazze un laboratorio teatrale. È una pratica che aiuta a prendere coscienza di sé e del proprio corpo, a entrare in relazione con gli altri, a costruire un gruppo, a imparare che giudicare gli altri non è né importante né necessario. Viene praticata da centinaia di ragazzi e ragazze in tutta Italia, per il puro piacere di fare insieme qualcosa di bello, ma anche per esplorare temi che a scuola (e in molte famiglie) è molto difficile affrontare: la guerra, l'immigrazione, la malattia, il bullismo, le dipendenze, e anche i sentimenti che sulla scena sono protagonisti.

La nostra è una società individualista, competitiva, narcisista, giudicante, frettolosa. La scuola (e i social network) si basano su questi meccanismi. Proporre una pratica fondata su principi diversi non risponde ai criteri di efficienza e produttività che dovrebbero ispirare ogni nostra scelta. Sfuggono alla logica del Merito, che questo governo ha accoppiato all'Istruzione (salvo poi promuovere la corte di figli, sorelle e cognati, in genere mediocri e incompetenti, sulla base dell'atavico familismo amorale).
La mediazione del teatro – che vuol dire prima di tutto mettere in gioco corpi e relazioni – apre spiragli di consapevolezza e di umanità. Consente ai ragazzi e alle ragazze di esprimersi e di collaborare tra loro. Non vengono trattati come potenziali delinquenti o cavie di terapie psico-farmacologiche. In sala prove non sono ignoranti immaturi inchiodati al banco da indottrinare e ammaestrare. Non sono futuri lavoratori a cui trasmettere nozioni, tecniche e competenze (destinate a diventare obsolete nel giro di qualche anno). Imparano (insieme) che si può sbagliare e rifare, possibilmente meglio (insieme). Per scoprire che ciascuno di noi ha caratteristiche e doti che non corrispondono a un voto. Per scoprire che per ottenere un risultato, dobbiamo tutti fare del nostro meglio. Per riscoprire il valore della lentezza.

Il teatro ci consente di immaginarci diversi da quelli che siamo, esplorando gli scenari del possibile, per noi e per gli altri. Aiuta a sviluppare le aspirazioni personali e collettive, e alcune capacità: per esempio a parlare in pubblico, una dote richiesta anche a venditori e direttori commerciali. Non si tratta dunque di formare legioni di attori e attrici, ma di vivere un'esperienza che aiuta a crescere con gli altri e può essere utile per affrontare la vita adulta.
Famiglie, educatori, operatori sociali, pubblici amministratori, politici dovrebbero capire che il teatro può essere uno strumento straordinariamente utile ed efficace. Soprattutto dopo la pandemia, visto che la fascia degli adolescenti è stata probabilmente quella che più risente delle costrizioni di quei mesi terribili.

Basta vedere lo splendido Drive My Car, con quel laboratorio teatrale che accomuna persone di origini, capacità e aspirazioni così diverse: non va sempre tutto bene. La cultura (e il teatro) non risolvono certo tutti i problemi, ma possono aiutare ad affrontarli.
Anche di questo proveremo a parlare il 2 dicembre 2023 a Milano nel Focus Adolescen[z]a dedicato al teatro per/con l'adolescenza, dove saranno proprio i ragazzi e le ragazze a raccontare i percorsi di cui sono stati protagonisti: la varietà e la ricchezza di queste esperienze bastano da sola a far capire
a cosa può servire, oggi, il teatro.

 

 

 

 

 

 

 

 

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