Festa del Perdono: uno spazio sfinito

3 Ottobre 2014

«Ci vediamo in chiostro».

Centro nevralgico, luogo di ritrovo e di passaggio; luogo di stanza: nella pausa caffè, nella pausa pranzo, e nei giorni di sole tiepido anche luogo di studio, secondo un’idea quasi bucolica dell’impegno universitario. Questo è stato – ed è ancora – il chiostro di via Festa del Perdono per chi abbia fatto la Statale di Milano.

Oggi, l’università finita, le fragili carriere lavorative avviate, passare in chiostro vuol dire rischiare di vedere facce che credevi – ti auguravi – lontane dall'università da almeno 4-5 anni. Facce che credevi avessero maturato il lutto e, preso il pezzo di carta, si fossero involate verso le impervie strade del lavoro precario, che spinge a rinnegare il passato. O piuttosto a reinventarlo.

 

E invece, proprio questi lavoretti, i part-time sottopagati, gli stage da tre mesi e la disoccupazione latente lasciano crepe vertiginose nelle vite già sbilenche di chi oggi si avvicina alla soglia dei trent’anni. Crepe che vengono stuccate con il ricordo, con il risanamento di un cordone ombelicale effettivamente mai reciso. Si ricompongono i legami e si ritorna ai luoghi noti: il chiostro per fermarsi un secondo tra un (falso) colloquio e l’altro; la biblioteca centrale, magari solo per leggere un po' o per mandare qualche curriculum sfruttando l’accesso wifi ancora valido; addirittura la mensa, scadente eppure così comoda con i suoi 3,80€ per primo-contorno-pane-acqua. Si torna a trascorrere qui un tempo divenuto noioso e avvilente. La topografia della Statale diventa la mappa di un tesoro che consiste nell’attesa, raramente nella speranza. Via Festa del Perdono si reinstalla, per pura inerzia, al centro della nostra geografia emotiva, tappa forzata nelle escursioni quotidiane di questa generazione in cerca di collocazione.

 

Festa del Perdono, Bompiani

 

La prima impressione che ho avuto scorrendo Festa del Perdono. Cronache dai decenni inutili (Bompiani 2014) è che in questione, nei raccontini di questi sei autori, ci fosse una nozione diversa di “inutilità”, del tempo e dell’esperienza. Bertante, Domanin, Nove, Janeczek, Papi e Scurati raccontano – con generi e stili diversi (dal memoir all’autofinzione, dalla finzione vera e propria alla passeggiata storico-narrativa) – quello che via Festa del Perdono, la Statale, la Facoltà di Lettere e Filosofia è stata nella loro esperienza di vita. Che è poi esperienza generazionale e di una generazione che, come si è detto tante, troppe volte (dalla parte dei protagonisti come da quella degli osservatori) a partire dall’inizio degli anni Novanta, si è trovata a convivere con la sensazione angosciante e al tempo stesso eccitante di “venire dopo”. In questo caso, dopo una stagione che aveva consacrato proprio la gioventù – liceale, universitaria, operaia – come nuova, trasversale classe sociale, capace di lotte e conquiste, di conflitti violenti e di battaglie ideologiche.

 

Ecco. Tra i tanti post- che abbiamo sentito pronunciare a proposito del nostro Occidente tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, tra la caduta dell’Unione sovietica e l’inchiesta di Mani Pulite, quello che più volte ci è risuonato nelle orecchie è forse “post-ideologico”. Laddove la parola ideologia ha assunto di volta in volta sfumature diverse, ma non si è mai sostanzialmente sciolta da un’idea di impegno e di responsabilità verso le cose, o forse meglio verso “la” cosa (pubblica). Finito il tempo delle grandi battaglie collettive non rimaneva che voltare pagina, trasformando il ricordo dei padri in una tradizione (semplificata) da omaggiare nostalgicamente (Papi) oppure da rinnegare furiosamente (vedi alla voce Contro il ’68 di Alessandro Bertante).

 

Quel che comunque non viene messo in dubbio da questi autori – tanto solerti nel sottolineare la propria estraneità a qualunque spirito generazionale quanto spontaneamente affini nell’interpretare il proprio passato – è il distacco, dall’esperienza dei propri padri, dalla loro storia, dalle loro battaglie. Un distacco che si rende evidente in questi sei frammenti – come nota Mauro Novelli nella Postfazione – in una quasi totale rimozione dell’università come luogo d’appartenenza, come centro d’azione. Altri sono gli spazi destinati all’esplorazione, lontane le mete che dovranno rivelare a ciascuno il proprio percorso “inutile”. Un percorso che, comunque, sarebbe valsa la pena raccontare. Perché se le ideologie si sono estinte con gli ultimi sussulti degli anni Ottanta, al loro posto sono fiorite nuove e vivaci mitologie: piccole epopee personali come unico risarcimento alla coscienza del proprio spaesamento storico.

 

 

Da bravi fratelli maggiori, oggi, ci raccontano di come si sentisse, si percepisse l’incombenza della fine, di un declino inevitabile. Era negli sguardi, nei paesaggi, nelle cose. E nell’attesa che la Storia si rimettesse in moto – e venisse a bussare agli schermi dei televisori (Scurati docet) – non restava che fare attenzione ai particolari, alle mode: la lingerie provocante o i vestiti di marca delle studentesse borghesi di Janeczek o la musica di Bertante. Feticci vintage per incarnare, o piuttosto per sostituire la verità dello spirito dei tempi.

 

Cosa restava fare? Continuare a baloccarsi con «la palla pazza che strumpallazza», come Aldo Nove, che oppone la sua indifferenza autistica e divertita all’indifferenza cinica e spietata del mondo. Oppure, per essere più seri (o seriosi), mettersi di fronte alla realtà e guardarla, dando sfogo al proprio generatore automatico di paradigmi interpretativi, come Scurati, vittima di una falsa coscienza che, fornendo una spiegazione argomentativamente attendibile, maschera da “inesperienza” un’indifendibile irresponsabilità.

 

Dai Novanta ai Duemila il passaggio è stato apparentemente indolore. E se oggi, leggendo i lamenti compiaciuti di questi scrittori alla soglia dei cinquant’anni, anche noi finiamo per riconoscerci (come accade), allora vorrà dire che ormai quattro generazioni sono state riunite in questo vincolo di non-belligeranza apatica. Come loro, anche noi non ci siamo accorti che la Storia andava e va tuttora avanti, non solo altrove, lontano, ma anche qui, vicino a noi. Interpellandoci, mentre noi alziamo il volume per sentire meglio le novità del giorno.

 

 

Alla mia generazione, però, rivendico una differenza; forse una pretesa più che una convinzione. Che il nostro individualismo e il nostro spaesamento siano nutriti da un’altra forma di disincanto, meno arrabbiata, meno orgogliosa. Una disillusione più lucida e per questo anche più delusa da un’umanità ormai assuefatta a questa inerzia violenta che ci schiaccia. Anche per questo, ci muoviamo in maniera scomposta, mettiamo in campo reazioni confuse. Avanziamo pretese sempre sproporzionate, per eccesso o per difetto, e inanelliamo rifiuti.

 

Non desistiamo, però. A muoverci è la necessità, certo; ma forse anche un sogno – questo voglio sperare. Un sogno che ci spinge ad abitare spazi che ci respingono, che ci congedano: speriamo che la sola nostra presenza basti a ripristinare l’evidenza di una logica che la realtà sembra aver azzerato dall’orizzonte.

Il bambino protagonista della Strada di McCarthy era convinto che la costa sarebbe stato il luogo dell’utopia realizzata, cioè di una normalità riattivata: gli uomini smettono di mangiarsi a vicenda e i figli ritrovano l’affetto dei genitori. Noi cerchiamo la nostra strada in una via, Festa del Perdono. Qui continuiamo a mettere in scena il giorno del congedo, nella speranza che a questo, domani, segua quello di un nuovo inizio. 

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