Oggi il concerto d’addio del grande cantante / Quando Paul Simon entra in materia

22 Settembre 2018

“Lui era un marinaio di stanza a Newport News, lei una reginetta della scuola senza nulla da perdere”. Raymond Carver? No, Paul Simon. “Con il loro cane, dopo la guerra, René e Georgette Magritte tornarono alla suite dell’albergo, e socchiusero la porta”. Somerset Maugham? No, Paul Simon. “Arriverà il giorno in cui sarai stanco, stanco come un sogno che aspetta solo di morire”. Roberto Bolaño? No, sempre Paul Simon.

Nessuno sa entrare in materia come Paul Simon. Gli incipit delle sue canzoni sono degni di un racconto di Hemingway o di Francis Scott Fitzgerald. Alcuni hanno passo romanzesco (“A winters day in a deep and dark December; I am alone, gazing from my window to the streets below, on a freshly fallen silent shroud of snow” – Un giorno d’inverno nel pieno di un cupo dicembre; da solo, alla finestra, fisso le strade e la silenziosa coltre di neve fresca – I am a rock); altri fissano la nevrosi contemporanea in perfetto stile Woody Allen (“The problem is all inside your head, she said to me” – Lei mi disse: il problema sta tutto nella tua testa – Fifty ways to leave your lover); altri ancora fanno leva sull’immaginario americano, sontuoso e banale al tempo stesso (“The Mississippi Delta was shining like a National guitar” – Il Delta del Mississippi splendeva come una chitarra resofonica – Graceland).

 

A colpire, in molti incipit di Paul Simon, sono anzitutto precisione sintattica e un registro lessicale non comune in canzone (“If I have weaknesses, don’t let them blind me or camouflage all I am wary of” – Se ho delle debolezze, fa che non mi accechino o occultino tutto ciò di cui diffido – The rhythm of the saints). Un attacco come quello di I am a rock chiede non tanto una forma capace di contenerne l’ampiezza di respiro, quanto la capacità, da parte dell’autore, di articolare diversamente la narrazione. Ascoltando una canzone di Paul Simon, vuoi per il tono, vuoi per la ricchezza armonica che accompagna le parole, vuoi per la complessità ritmica, si ha spesso la sensazione di stare dentro un brano che stravolge i canoni comunemente impiegati in canzone. Il più delle volte si tratta però di un abbaglio. Dal punto di vista della metrica musicale, Paul Simon opera quasi sempre nel rispetto di modelli consolidati, in particolare dalla tradizione dei song americani. Ciò che percepiamo in quanto anomalo o, meglio, di distintamente originale in queste canzoni, non è dovuto alla struttura del brano, ma al modo in cui Simon riesce a far emergere in modo unico melodia, armonia, ritmo e parole dentro la canzone. Il testo, in modo particolare nel Paul Simon più maturo, si articola in chiave più narrativa che non poetica. Nelle sue canzoni Simon racconta delle storie che presentano uno svolgimento e dei personaggi, ognuno con un suo carattere e un conflitto da risolvere. 

 

Nei primi anni di carriera, quando ancora si esibiva a fianco di Art Garfunkel, Paul Simon non era molto amato dalla critica. Ellen Willis, la prima firma del New Yorker a occuparsi di rock, nel 1967 confessò di odiare quasi tutte le sue canzoni. In particolare perché credeva di leggervi della cattiva poesia, ma anche perché il tema dell’alienazione dell’uomo moderno, che sembrava stare al centro della sua opera, se trattato con tanta insistenza e ingenuità, finiva con l’indurre saturazione nell’ascoltatore. Il genere di anticaglia sentimentale tanto cara alla sinistra (an old-fashioned sentimental liberal bore, l’espressione usata dalla Willis). Robert Christgau, l’autoproclamato decano dei critici rock americani, non fu da meno quando definì i testi di Paul Simon “la forma più pura, più alta e più elaborata di kitsch del nostro tempo”. Aggiungendo, per sovrappeso, che anche la poesia peggiore può essere figlia di un lavoro accurato. La meticolosità di Simon, a suo dire, era lungi dal produrre l’effetto sperato. Each song is perfect. And says nothing. Ogni canzone è perfetta. E non dice nulla.

 

 

Poi è successo che Paul Simon è cambiato o, più banalmente, che la sua scrittura è maturata. In modo sempre più marcato a partire dagli anni ’70, e in particolare dopo la rottura con Garfunkel, all’astrazione e all’impaccio poetico (“What a dream I had, pressed in organdy, clothed in crinoline of smoky burgundy, softer than the rain” – Che razza di sogno ho fatto, strizzato nell’organza, rivestito di crinolina di un fumoso bordeaux, più leggero della pioggia – For Emily, Whenever I May Find Her), Simon ha cominciato a preferire una narrazione più ancorata alla realtà, fatta di spunti e dettagli concreti, di brevi storie, di personaggi in carne ed ossa, fortemente caratterizzati, spesso inseriti dentro un contesto conflittuale o psicologicamente complesso (“Went to my doctor yesterday, she said I seem to be O.K.” – Sono stato dal medico ieri, dice che le sembro a posto – Run that body down, dal primo disco solista del 1972). I suoi testi sono insomma transitati dalla dimensione adolescenziale a quella adulta. Pur esprimendosi in ambito di canzone, Paul Simon è riuscito a trasferire la concisione drammatica, la chiarezza espressiva e la minuta cesellatura del dettaglio che è dei grandi autori di short stories, in ambito di canzone pop. Lo stesso si può dire per il modo in cui fa uso del dialogo diretto o indiretto, non solo come artificio per rompere il ritmo del racconto o offrire un’alternativa al punto di vista del narratore, ma anche per scolpire meglio il carattere dei personaggi. Loro ne guadagnano in vivacità, ma ne guadagna anche la verosimiglianza delle loro azioni, oltre che delle loro ragioni.

 

Un aspetto interessante della sua scrittura, sottolineato da Simon stesso in un’intervista molti anni fa, è come le scelte operate in ambito musicale – si tratti di scelte melodiche, ritmiche o armoniche – influenzino in modo diretto il testo, imponendogli determinate scelte linguistiche. Se ad esempio in una canzone si presenta una svolta armonica importante (un cambio di tonalità, ad esempio), Simon sostiene che il testo ne deve a sua volta risentire. Quello scarto armonico deve essere registrato anche a livello poetico. Può tradursi in un’annotazione ironica che contrasta con il tono della canzone, oppure nell’introdurre una parola che produce un effetto di sorpresa. Perché una canzone funzioni, e sono parole di Paul Simon, testo e musica devono lavorare in sinergia fra loro.

 

Molti anni prima di Paul Simon compositori come Irving Berlin o Cole Porter, e parolieri come Lorenz Hart o Ira Gershwin, s’erano già confrontati con il problema di far convivere parole e musica dentro un’idea di canzone in profonda evoluzione. Allora s’era trattato di innestare lo slang urbano della New York d’inizio Novecento sul ritmo sincopato del ragtime e del jazz. L’esercizio era consistito, fra le altre cose, nel troncare le frasi in sillabe, mozzandole in segmenti o frammenti di parole, una frantumazione lessicale e sintattica resa necessaria dall’incidere ritmico del ragtime, dove l’accento musicale aveva d’un tratto imposto alle frasi un esercizio di agilità ai limiti dell’acrobazia (si veda la versione originale di Puttin’ on the Ritz cantata da Fred Astaire, e contemporaneamente si legga il funambolico esercizio lirico di Irving Berlin). Una lingua costretta a sobbalzi, fermate e ripartenze continue. Una sorta di rap ante litteram, anche se immensamente più sofisticato e ricco di sfumature.

 

Quella generazione di musicisti e di parolieri influenzò profondamente Paul Simon, affinandone la sensibilità. L’idea musicale e la ricerca sul suono nel suo caso hanno sempre prevalso, ma a quella ricerca ha poi saputo accostare un’analoga ricerca linguistica, capace di scovare il miglior equivalente possibile in parola di un dato suono o di un dato ricamo musicale. In questo senso il paragone con un compositore tanto diverso da lui come Irving Berlin non è azzardato. Entrambi newyorchesi, entrambi di origine ebraica, entrambi autodidatti, entrambi arrivati alla canzone in giovanissima età, entrambi prolifici e artisticamente longevi, entrambi capaci di raccontare la realtà americana con pertinenza di linguaggio, oltre all’indiscusso talento di coglierne le pieghe più profonde senza mai allontanarsi dal sentire comune. Pur diversissimi fra loro, Paul Simon e Irving Berlin sono accomunati dalla diversità di registri in cui si sono cimentati nel corso delle rispettive carriere. 

 

Per cogliere questa varietà, nel caso di Simon, è sufficiente scorrere i suoi incipit. Simon sa essere colloquiale (“I’m sittin’ in the railway station, got a ticket for my destination” – Sto seduto in stazione, e sul biglietto c’è la mia destinazione – Homeward bound), aulico (“Many’s the time I’ve been mistaken, and many times confused” – Molte le volte in cui mi sono sbagliato, molte quelle in cui ero confuso – American Tune), disinvolto (“I feel good, it’s a fine day” – Sto bene, è una bella giornata – She moves on), surreale (“After I died, and the make up had dried, I went back to my place” – Una volta morto, e quando il trucco fu asciutto, tornai al mio posto – The afterlife), realista (“A cooling system burns out in the Ukraine” – Un sistema di raffreddamento va in corto in Ucraina – Can’t run but; che fa il paio con quella gemma sommersa che è Papa Hobo: “It's carbon and monoxide the ole Detroit perfume” – È di monossido e carbonio il profumo della vecchia Detroit), provocatorio (“When I think back on all the crap I learned in high school, it’s a wonder I can think at all” – Se ripenso a tutte le schifezze che ho imparato a scuola, è già un miracolo che riesca a pensare – Kodachrome), fumettistico (“The mama pajama rolled out of bed, and she ran to the police station” – La mammina in pigiama schizzò giù dal letto alla stazione di polizia – Me and Julio down by the schoolyard), psicoanalitico (“Paraphernalia never hides your broken bones” – Non c’è stratagemma capace di mascherare i tuoi acciacchi –  Everything Put Together Falls Apart; singolare scelta, quella di attaccare una canzone con la parola paraphernalia, armamentario. Curioso pure che la stessa preceda di pochi mesi la gaberiana Far finta di essere sani, di cui è una sorta di equivalente tematico in lingua inglese). Nulla, in cinquanta e più anni di carriera, è rimasto inesplorato. A volte si confronta anche con le formule di genere (“A man walks down the street, he says: why am I soft in the middle now?” – Un tale cammina per strada e dice: com’è che d’un tratto mi sto rammollendo? – You can call me Al), ma sempre con originalità; nel caso specifico, con taglio ironico, aprendo la canzone come lo farebbe un dispensatore di freddure: “un tale entra in un bar…”.

 

Nessuno meglio di Paul Simon ha saputo fissare i sentimenti di una nazione e i mutamenti sociali e politici che quella nazione ha attraversato sull’arco di cinque e più decenni. Fossero queste le sue incertezze, così poco americane (“When you’re weary, feelin’ small” – Quando ti senti fiacco e insignificante – Bridge over troubled water), le sue origini umili, così implicitamente americane (“I am just a poor boy, though my story’s seldom told” – Non sono che un povero ragazzo, e la mia storia non fa notizia – The Boxer), le sue promesse (“Let us be lovers, we’ll marry our fortunes together” – Diventiamo amanti, uniremo le nostre fortune – America), l’esibizione del suo benessere e insieme del suo patrimonio umano calpestato (“She’s a rich girl, she don’t try to hide it, she got diamonds on the soles of her shoes” – È una ragazza ricca e non fa nulla per nasconderlo, ha dei diamanti sulla suola delle scarpe – Diamonds on the soles of her shoes, che fu sì metafora dell’apartheid sudafricano, ma anche della Graceland di presleyana memoria: il sud americano visto come il Paese della Grazia). Nei titoli e negli incipit delle canzoni di Paul Simon ci sono il cuore, le ragioni e i sogni di un intero continente. Irving Berlin ebbe il merito di raccontare l’euforia e la definitiva messa in opera di quel sogno; Simon si è trovato fra le mani i cocci di tanta esuberanza, mal di testa del dopo risveglio compreso (“Hello darkness, my old friend” – Salve oscurità, mia vecchia amica – The sound of silence).

 

Gli incipit di Paul Simon sono le soglie più distintamente aforistiche del rock. Aprono lo sguardo, descrivono una situazione, ci presentano degli esseri umani di fronte a una prova. Contrariamente al blues o al canto di tradizione, che entrano spesso in materia appoggiandosi a delle formule consolidate ma convenzionali (I woke up this morning; stamattina mi sono alzato), la canzone moderna sa che un incipit ben assestato è già indice di originalità. Il blues, che come tutto il canto popolare muove piuttosto da un principio di ricalco, necessita di molto meno. Da quel fatidico “mi sono svegliato stamattina” (l’equivalente del “c’era una volta” nelle fiabe) discende una serie inenarrabile di donne infedeli, bottiglie vuote di whisky, mal di piedi, case bruciate, lavori persi, chitarre rotte: I woke up this morning, e chi ascolta è già predisposto al peggio.

 

Paul Simon, pur restando fedele alla tradizione (alla forma canzone, ma anche al ruolo del folksinger), ha esplorato assiduamente dentro e oltre quella tradizione. La molteplicità e la varietà dei suoi incipit va di pari passo con la ricerca sui ritmi, sui suoni e sulle armonie. Un tempo cantava che le parole dei profeti stanno scritte sui muri della metropolitana e negli atri dei palazzi (the words of the prophets are written on the subway walls and tenement halls), e che a sussurrarle è il suono del silenzio. Più di venticinque anni dopo, passato dalla metropoli alla foresta pluviale, con meno enfasi poetica ma più sostanza, cantava invece che sono le voci degli spiriti a governare la notte (“We sailed up a river wide as a sea and slept on the banks on the leaves of a banyan tree, and all of these spirit voices rule the night” – Abbiamo risalito un fiume ampio come un mare, dormito sulle sponde su foglie di baniano, e tutte queste voci degli spiriti governano la notte – Spirit voices). Sarebbe esagerato pretendere di amarle tutte, queste sue canzoni, ma non amarne nessuna è impossibile. La grandezza di Paul Simon forse è cominciata proprio nel momento in cui ha smesso i panni del poeta per vestire quelli del narratore. E sarebbe probabilmente tempo di riconoscerlo come tale. Non un cantastorie o un cantautore in senso classico, ma un artista che ha saputo conferire alla canzone una dimensione nuova, e che dentro la sua forma antica ed elementare ha trovato il modo di far stare la complessità della nostra epoca.

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