Ristampa / Gli sciamani di Carlo Ginzburg

2 Dicembre 2020

Si può rileggere, o leggere, I benandanti seguendo tracce diverse e con diversi atteggiamenti, ma in nessun caso si riuscirà a restare indifferenti. Le vicende raccontate in questo libro risalgono a circa cinquecento anni fa, e sono la ricostruzione di veri processi dell’Inquisizione sulla base dei loro stessi verbali. La novità di questo libro sta nell’essere stato davvero una novità: la prima edizione (Einaudi) risale al 1966. Il formaggio e i vermi, forse il frutto più noto di questo lungo e ostinato lavoro certosino, verrà circa dieci anni dopo. La geografia di queste vicende è sempre la stessa, e certo non a caso: il bellissimo paesaggio friulano. Come il mugnaio Domenico Scandella detto Menocchio, mandato a morte dall’Inquisizione alla fine del ‘500, anche le strane figure dei benandanti entrano a pieno titolo nella Storia. Certo, li vediamo filtrati dalla verbalizzazione dell’accusatore, ma leggendo si avverte il suono della verità, o quel che crediamo sia verità.

 

È un po’ quel che succede nelle traduzioni da lingue lontane: a volte ottime a volte pessime, lasciano filtrare comunque (anche miracolosamente) lo spirito dell’opera originale. Ginzburg accenna, introducendo la nuova edizione, alle critiche ricevute da altri storici, peraltro accogliendole in toto con la scelta di non cambiare nulla. Avrebbe potuto spostare l’accento e l’attenzione sugli Inquisitori, illuminare anche loro, cercare di spiegarli, complicare il punto di vista. Insomma sarebbe stato un altro libro ma, credo giustamente, l’attenzione dell’autore è restata sulle vittime. I carnefici sono impliciti nella trascrizione e nella presenza oggettiva delle loro sentenze inoppugnabili. Nei racconti che leggiamo ci sono ampie zone d’ombra. Il rigore filologico della trattazione non cerca di ricostruirle arbitrariamente, formula semplicemente delle ipotesi. 

 

Personalmente trovo di grande interesse questo particolare, che emerge con chiarezza negli interrogatori: la ricorrenza degli angeli. I benandanti hanno a che fare con gli angeli, proprio quelli dei quadri coevi che ci vengono in mente: un angelo del Lotto, per esempio, che però anziché presentarsi con un giglio offre rami fustiganti di finocchio. Un angelo guerriero, perché è lui che invita i benandanti all’adunata notturna contro streghe e stregoni. Nel racconto ingenuo dei benandanti inquisiti (tale Paolo Gasparutto, guaritore, e il banditore Battista Moduco detto Gamba Secura), questo mondo notturno di boschi e di chiari di luna, diventa il teatro dello scontro tra buoni e cattivi. I buoni sono i benandanti, che proteggono noi e i nostri raccolti nel nome di Gesù Cristo, i cattivi sono streghe e stregoni che ci devastano: basti pensare che non accontentandosi di ubriacarsi a sbafo nelle nostre cantine pisciano addirittura nelle botti prima di andarsene. 

Cosa c’è prima? da dove vengono riti e mitologie? Certamente da un lontano passato: antichi riti della fertilità. Ginzburg cita Frazer e il suo Ramo d’oro, suscitando in noi paesaggi mentali che sprofondano nella Storia non narrata. Mancano i punti di contatto, non ci sono possibili prove scientifiche da portare. Abbiamo frammenti di un mosaico ma ampie zone di bianco. Anche il rapporto con il mondo dei Sabba c’è senz’altro, ma ci sono anche qui zone di bianco. A leggerla ora la vicenda dei benandanti è tutta incredibile. Eppure nelle loro confessioni si avverte il suono della verità. Il benandante è un uomo giovane e fertile, e soltanto in questa fase della vita seguirà il suo Capitano (il tutto è espresso in linguaggio guerresco), sotto bandiere e insegne gloriose, che fronteggeranno quelle altrettanto squillanti dell’esercito del Male. Il Male circondava tutti: le epidemie uccidevano città intere, eserciti le depredavano, il mondo era un luogo insicuro, la vita breve.

 

 

 Il mondo magico e quello religioso si sono confusi da tempo: le tracce sono restate a lungo, e giustamente Ginzburg non manca di citare lo straordinario lavoro di Ernesto De Martino, che nella sua interdisciplinarietà da antropologo si fa storico della cultura restando a lungo grande fonte di ispirazione per tutti, etnologi e storici puri. La sua teoria sulla perdita della presenza è parte essenziale del lavoro di Ginzburg. Voglio insistere sul particolare dell’angelo, che apparirà anche nelle considerazioni del povero Menocchio. Il dettaglio che salta all’occhio è questo: né il reo confesso né l’inquisitore dubitano di questa parte essenziale del racconto. Quel che muta è la decodificazione dell’angelo. Autentico per il benandante, ingannevole e demoniaco per l’inquisitore. Non è in discussione l’inquietante risvolto onirico che tanto onirico non è, visto che lo spirito abbandona il corpo addormentato del benandante (“il spirito si parte dal corpo”), e spesso in forma di minuscolo topo corre verso il raduno, o come sosteneva l’accusa verso il sabba infernale. Sia negli interrogatori dei benandanti che in quelli delle streghe appaiono questi misteriosi sdoppiamenti, e appaiono anche quel che potrebbero essere assimilate a scope. Infatti buoni e cattivi si battono a colpi di mazze di finocchio e canne di sorgo, essendo le prime un potente antidemoniaco e le seconde, appunto, roba da streghe.

 

L’inquisitore vuole la piena ammissione della colpa: questo non risparmierà la vittima dal rogo ma almeno la realtà tornerà a sembrare sotto controllo. Siamo di fronte a una forma violenta di controllo sociale, non c’è dubbio. Si vuole recidere lo strumento del passato, la bestia antica che alberga nell’amorale anima della plebaglia, in sé memoria involontaria e camaleontica di un passato osceno e senza scritture. Ginzburg con pacatezza e quasi senza lasciar avvertire la sua presenza, ci avvolge di narrazioni e di narrazioni delle narrazioni. Ma cosa succede in noi lettori? Ci immedesimiamo nelle vittime, portandoci dietro però il piccolo-grande bagaglio di cinque secoli rampanti. Quando la separazione tra grande scienziato e stregone è ormai avvenuta da tempo immemorabile. In realtà, nella trasposizione mimetica dovremmo indossare, per cultura e per ruolo, le vesti dell’inquisitore, anche se ci sentiamo tutti Galileo. Quello a cui assistiamo è uno scontro di tradizioni: una scritta e una verbale e non-verbale, una razionale e codificata l’altra irrazionale e istintiva, inconsapevole. Il benandante non diventa tale per scelta. Viene chiamato direttamente dall’alto. È prescelto sin dalla nascita, visto che tutti sono nati col sacco amniotico addosso (con la camicia). Un segno distintivo per tutti, tanto che il brandello, non vogliamo sapere in quali condizioni, viene portato dal prescelto per tutta la vita. Non basta essere prescelti: si deve anche essere chiamati, e entrare in una schiera di cavalieri pezzenti inginocchiati alla Croce ma che non disdegnano un litro di vino sia pure in cattiva compagnia. In cosa consistevano dunque queste adunanze periodiche? E soprattutto: avvenivano davvero? O come alcuni sostenevano già allora non erano alto che deliri di isteriche, ubriaconi e epilettici? Così come non è lecito dubitare delle apparizioni angeliche neppure di questi sabba infernali (come sempre più decisamente saranno chiamati nel ‘600 inoltrato) si poteva dubitare.

 

Ma andavano “In somniis” oppure “corporaliter”? Certamente andavano, volando, o correndo come sorci, o in altre sembianze umane o inviando una sorta di doppio, ma l’appuntamento era di sicuro con il principe del Male che li comandava tutti. Negli interrogatori delle streghe viene descritto un particolare preparatorio che forse dà qualche spiegazione al fenomeno: le donne si spalmavano il corpo con un misterioso unguento che induceva lo stato catatonico. Allucinogeni (funghi?) e abuso di alcol spingono personalità borderline verso strappi dissociativi: basta per spiegare un fenomeno che sembra ripetersi identico in tutta l’Europa centrale? Senza dimenticare che stati dissociativi o catatonici possono essere prodotti anche con forme autoipnotiche basate su danze e suoni ossessivi. Ginzburg, nella postfazione, ricorda gli anni di studio che hanno preceduto questa sua svolta metodologica che ha lasciato il segno (basti pensare alle continue ristampe e traduzioni delle sue opere). I lunghi giorni passati nell’Archivio di Stato di Udine, scartabellando e leggendo per la prima volta dopo cinque secoli le carte del sant’Uffizio ivi presenti in maniera copiosissima. Lì si rende conto della complessità del fenomeno: tra le altre cose si rende conto di quante assonanze si trovano in giro per l’Europa. Sarebbe interessante ricostruire il clima culturale coevo alla realizzazione di questo libro: etnologia, antropologia culturale, strutturalismo, e soprattutto contaminazioni, sentieri che si incrociano prendendo le direzioni più svariate: basti pensare al lavoro sull’Africa di Michel Leiris, che aggiunge una dimensione letteraria per nulla estranea al lavoro di Carlo Ginzburg.

 

Delle tante strade incrociate e in parte percorse restano tracce significative in I benandanti. Riti di fertilità, propiziatori per buoni raccolti, si rintracciano ovunque, con varianti ma soprattutto con assonanze, e ovunque si intrecciano con antiche divinità pagane: Diana, Holda, Perchta, Abundia o Satia. Da loro dipendono i raccolti, la pesca, la caccia, l’intera esistenza. Possono determinare carestia o abbondanza a loro capriccio. Gli uomini possono dialogare con loro soltanto in forme rituali. Tra le tante storie incredibili (quelle di Caterina la Guercia e Anna la Rossa, per esempio) voglio ricordarne una, apparentemente fuori tema: il processo del 1692 (un secolo dopo il processo a Gasparutto e Moduco) contro un lupo mannaro lituano. Si tratta di un ottuagenario, di nome Thiess, che peraltro se la caverà con una decina di frustate.

 

 

Ascoltando le sue confessioni (estorte, come tutte le altre, ma anche fornite candidamente) scopriamo che lupi mannari lituani e tedeschi in realtà combattevano il diavolo in difesa dei raccolti. Il vecchio Thiess si esprime esattamente come il Moduco, racconta le stesse storie dei benandanti nostrani. Tre volte l’anno (quattro sono invece le tempora friulane) “i licantropi si recano a piedi, in forma di lupi, in un luogo situato alla fine del mare: l’inferno. Là essi lottano col diavolo e con gli stregoni, battendoli con lunghe fruste di ferro. (…) I lupi mannari – esclama Thiess – non possono soffrire il diavolo.” Perché l’inquisizione insiste per secoli a contestare (e a condannare) un così diffuso convincimento? Le nuove divinità in fondo qualche tratto in comune con le vecchie lo manifestano: inganni, travestimenti, angeli decaduti votati al male e al peccato. La stessa cristianità, nelle aule dell’inquisizione, ci appare come religione neo-pagana, se non addirittura (per usare il loro linguaggio) demoniaca. 

 

Inquisitori e inquisiti sono immersi nello stesso liquido amniotico, sono stati nutriti dalle stesse credenze, nuove e antiche. È diverso, tragicamente, il quadro istituzionale. Non importa se tu mi dici che operi in nome di Dio e Gesù Cristo, non importa se ti è apparso un angelo, perché io so che in te, ignorante e quasi animale come sei, alberga il demonio con tutti i suoi inganni. “Extra ecclesiam nulla salus”. E non si tratta di un fenomeno circoscritto: le esecuzioni per stregoneria (seguite a condanne del Sant’Uffizio o dei tribunali luterani) si protrarranno fino al diciottesimo secolo e le vittime si conteranno a decine di migliaia. Sull’estensione geografica e temporale del fenomeno, che riguarda tutte le chiese e le sette cristiane, mi limito a ricordare Il crogiuolo, di Arthur Miller (sul processo alle streghe di Salem, nel 1692), che giustamente proietta nel futuro quella tragedia dell’intolleranza, che evolverà nei roghi razzisti e in fondo anche nel maccartismo, certo non molto diverso nelle modalità dai tribunali ecclesiastici del passato. Al di là di un facile anticlericalismo si dovrebbe aprire un discorso sull’intolleranza naturale degli uomini nei confronti del diverso, e sulla misoginia, sull’antisemitismo (che ha portato al rogo contemporaneo di 6 milioni di ebrei), ma ricordando anche le voci di dissenso interne al mondo cattolico presenti già nel diciassettesimo secolo.

 

Quando negli anni ’60 Ginzburg si inoltrò nell’immenso lavoro d’archivio a Venezia si rese conto di quanto poco fosse stato studiato quel fenomeno esteso e pieno di implicazioni, storiografiche e non solo. A quel libro, e agli altri che sono seguiti, si sono aggiunti molti altri lavori. Poi il fervore di quel gruppo di studiosi è andato via via affievolendosi, nelle generazioni successive, diventando spesso aneddotico o televisivo, senza spessore metodologico, senza profondità. La storia è ricerca, non un elenco di date. Quando la storia finirà gli storici saranno ancora al lavoro. Sarebbe bello se la nuova generazione di aspiranti storici non trascurasse gli esami di filosofia della storia. Lo spero davvero, come loro lettore.

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