Graeber, Consumati dal desiderio

23 Gennaio 2023

Qualche giorno fa ho rivisto Le relazioni pericolose, nella versione con la regia di Stephen Frears. Dal 1988 ogni volta che mi capita più o meno casualmente di trovarmelo sullo schermo, rimango inesorabilmente impigliato nelle quasi impercettibili espressioni dei volti di John Malkovich, Glenn Close e Michelle Pfeiffer che riescono con una bravura stratosferica a rendere con un’esattezza sconcertante le più minute sfumature dell’animo umano. Dovessi scegliere un’opera per parlare del desiderio, questo film sarebbe certamente ai primi posti. Nella mia formazione di vita e di pensiero idee come desiderio, seduzione, piacere, eros, hanno spesso parlato francese, dal Baudrillard di Della seduzione fino ai testi libertini del Settecento, passando dall’Italia delle memorie del Casanova e dai libretti Da Ponte, per tornare in Francia con il Diderot protagonista di Il libertino di Érich-Emmanuel Schmitt, sono idee e pratiche che si sono mescolate fra loro fino a costituire un insieme indissolubile. 

Nel settembre del 2022 le Edizioni e/o hanno raccolto quattro testi di David Graeber scritti negli anni Ottanta, sotto il titolo di Le origini della rovina attuale. Tra questi, c’è Il concetto di consumo: desiderio, fantasmi ed estetica della distruzione dal Medioevo ad oggi. Lorenzo Velotti nella postfazione dice che a questo testo Graeber “si dedicava di soppiatto mentre lavorava in biblioteca per pagarsi gli studi.” Il concetto di consumo nella disciplina del design ha assunto un’importanza centrale dopo l’esplosione del problema dei rifiuti che la cultura ecologica rileva da decenni, e l’associazione con il desiderio diventa particolarmente feconda in questo lavoro.

Graeber parte analizzando il termine consumare. In inglese il verbo to consume viene dal latino consumere, impossessarsi di qualcosa o conquistarlo del tutto e per estensione indica mangiare, divorare, sprecare, distruggere, dissipare. Il termine consumption appare per la prima volta nella lingua inglese nel XIV secolo e inizialmente ha una connotazione negativa: consumare qualcosa significava distruggerla, ridurla in cenere, farla evaporare, logorarla. Fino al XVII secolo parlare di una società consumistica avrebbe significato indicare una società di spreconi e distruttori. Il senso del termine inizia a cambiare alla fine del XVIII secolo, quando il termine consumo appare nei testi di economia politica quando autori come Adam Smith e David Ricardo cominciano a utilizzarlo come contrario di produzione. Contemporaneamente inizia una divisione spaziale sempre più netta che separa i luoghi in cui si vive da quelli in cui si lavora. Nei luoghi di lavoro si produce, nei luoghi di vita si consuma. Il ciclo di vita si riduce all’alternanza fra produzione e consumo. Le persone sono coloro che consumano ciò che producono, la categoria dei consumatori inizia a inglobare, sostituire e annullare la categoria degli umani. “…tutto ciò ha determinato una delle caratteristiche emblematiche del capitalismo: ossia, che è un motore di produzione infinita che, di fatto, può mantenere il suo equilibrio solo attraverso una crescita costante.

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Sull’altra faccia della medaglia sembra che debbano per forza esserci cicli infiniti di distruzione. Per far spazio ai prodotti nuovi bisogna sbarazzarsi in qualche modo di tutta la roba vecchia; distruggerla o, per lo meno, scartarla in quanto superata o inutile. (…) Il consumo, dunque, fa riferimento a un’immagine dell’esistenza umana che si è sviluppata nel mondo euro-americano intorno all’epoca della Rivoluzione industriale e che si può riassumere così: fuori dal luogo di lavoro, gli esseri umani non fanno praticamente altro se non distruggere o usurare cose.” Tra le conseguenze di questa ideologia c’è il problema dei rifiuti così intelligentemente analizzato da Marco Armiero nel suo L’era degli scarti. Cronache dal wasteocene, la discarica globale (si veda la recensione su Doppiozero).

Inizia un processo in cui la categoria uomo si riduce e indentifica con consumatore e i suoi desideri si limitano al desiderio di consumare. Ma cosa possiamo intendere quando parliamo di desiderio? Graeber ci dice che in Occidente si notano filoni diversi e contraddittori. Nella tradizione platonica il desiderio ha le sue radici in un sentimento di assenza o mancanza, si desidera ciò che non si ha. Si prova un senso di assenza e si immagina come colmarlo: questa azione mentale è ciò che chiamiamo desiderio. Un filone alternativo ci viene da Spinoza secondo cui il desiderio non deriva dall’assenza ma dall’autoconservazione, equivarrebbe al desiderio di continuare ad esistere. Nel primo filone si troverebbe il cammino di Lacan con la sua “fase dello specchio” in cui il bambino riesce a costruire un senso del sé attraverso un’immagine esterna, l’oggetto del desiderio sarebbe un’immagine di perfezione, il compimento immaginario del proprio senso del sé incompleto. A questi due filoni, Graeber ne avvicina un terzo, adottato da autori come Deleuze e Guattari, dove vediamo il desiderio come qualcosa che “scorre” fra tutti e tutto, una sorta di energia che unisce ogni cosa. 

Più che riuscire a definire qualcosa di sfuggente come il desiderio, Graeber nota come “l’unico elemento costante in tutte queste definizioni (a differenza dei bisogni, degli impulsi o delle intenzioni) coinvolge necessariamente l’immaginazione. Gli oggetti del desiderio sono sempre oggetti immaginari.” Un altro aspetto comune è che “comporta sempre il desiderio di una relazione sociale di qualche tipo. (…) Desideriamo essere l’oggetto del desiderio di qualcun altro.” Ma in Occidente “le relazioni sociali, quando non vengono ignorate del tutto, sono considerate intrinsecamente competitive.” Graeber fa una prima sintesi: “Ciò che chiamiamo desiderio si distingue dai bisogni, dalle pulsioni o dalle intenzioni nella misura in cui il desiderio: (a) si radica sempre nell’immaginazione; (b) tende a una qualche forma di relazione sociale, reale o immaginaria; (c) tale relazione sociale generalmente implica un desiderio di riconoscimento e, quindi, una ricostruzione immaginativa del sé; un processo su cui incombe sempre il rischio di distruggere la relazione sociale e di trasformarla in un terribile conflitto. 

Quando parliamo di desiderio l’immaginazione ha un ruolo preponderante. Durante il Medioevo, uno dei problemi più dibattuti dalla metafisica era “spiegare come fosse possibile che l’anima (o la mente) percepisse gli oggetti della realtà materiale, dato che si pensava fossero fatte di sostanze completamente diverse. La soluzione fu postulare l’esistenza di una sostanza astrale intermedia chiamata pneuma, o spirito, che traduceva quelle impressioni dei sensi in immagini fantasmatiche. (…) Sulla base di questi presupposti, le teorie dell’eros sostenevano che quando un uomo si innamorava di una donna, in realtà, non amava la donna in sé ma la sua immagine; e quest’ultima, una volta raggiunto il sistema pneumatico, se ne impossessava gradualmente fino a vampirizzare l’immaginazione dell’innamorato e prosciugarne tutte le energie fisiche e spirituali.”

Per i medici ciò si traduceva in una malattia, per i poeti in uno stato eroico che trasformava i piaceri della fantasia e le perversioni del rifiuto in uno stato mistico. Tutti però erano d’accordo su un punto: chiunque pensasse di risolvere il problema con un “amplesso” con l’oggetto delle sue fantasie era fuori strada, la sola idea era considerata sintomo di un disturbo mentale avvicinabile all’idea di malinconia. Ogni pubblicitario contemporaneo sarebbe d’accordo con Giordano Bruno che affermava che visto che gli esseri umani tendono a essere dominati da immagini cariche emotivamente, chi arriva a comprenderne i meccanismi avrà il potere di manipolarli. La grande differenza fra il modello di desiderio predominante nel Medioevo e nel Rinascimento sta in un passaggio da un paradigma erotico a uno in cui la metafora principale è il cibarsi. 

Tra il XVI e il XVII secolo “le persone cominciarono gradualmente a concepirsi come esseri isolati che definiscono le loro relazioni con il mondo non in termini di rapporti sociali ma in termini di diritti di proprietà. Solo alla fine del XVII secolo i giuristi furono disposti ad ammettere che il dominium potesse appartenere a qualcuno che non fosse il re. La prova fondamentale che fonda il dominium di una persona su una cosa, paradossalmente, è la possibilità di distruggerla, “ed è proprio qui che la metafora del consumo acquista il suo fascino. Perché è la soluzione perfetta di questo paradosso, o almeno, la migliore che si possa trovare. Quando mangiamo qualcosa, in effetti, la distruggiamo (come entità autonoma) ma allo stesso tempo essa rimane inclusa in noi nel senso più materiale del termine. Il linguaggio relativo al cibarsi, quindi, divenne il migliore per parlare del desiderio e della gratificazione in un mondo in cui tutto, ogni relazione umana, veniva re-immaginato come una questione di proprietà.”

Concludendo, Graeber suggerisce di considerare il consumo non come un termine analitico, ma come una ideologia da indagare. “Sebbene la vita sociale sia e sia sempre stata anzitutto la mutua costruzione di esseri umani, l’ideologia del consumo è stata enormemente capace di aiutarci a dimenticarlo. Soprattutto sostenendo che: a) il desiderio umano non riguarda primariamente le relazioni tra persone ma le relazioni fra individui e fantasmi; b) il nostro rapporto con gli altri individui è prima di tutto una lotta infinita per stabilire la nostra sovranità, o autonomia, incorporando e distruggendo certi aspetti del mondo che li circonda; c) per questo motivo, qualsiasi relazione genuina con altre persone è problematica (il problema dell’“Altro”); d) la società può quindi essere vista come un gigantesco motore di produzione e distruzione in cui l’unica attività umana dotata di senso consiste o nel produrre cose, o nell’intraprendere atti di distruzione cerimoniale per fare spazio a nuove cose. Questa visione, di fatto, trascura la maggior pare delle cose che le persone fanno davvero e, nel momento in cui viene tradotta in un comportamento economico reale, risulta ovviamente insostenibile.”

Alla luce delle considerazioni di Graeber si possono rileggere meglio alcuni rapporti e fatti che fanno parte del contemporaneo, tra questi, il ruolo sempre rivoluzionario dell’eros e delle sue molteplici forme che oggi viene ridimensionato alla sola dimensione del sesso, esattamente come l’uomo viene ridotto al ruolo di consumatore. In questa ottica si può vedere la trasformazione del cibo e della sua preparazione in una sorta di competizione e combattimento individuale nei format televisivi dai quali viene deliberatamente escluso ogni profumo che abbia anche lontanamente a che fare con l’erotismo, cibo che invece ha un ruolo primario in una certa pratica di seduzione che vede il piacere ruotare all’infinito intorno al desiderio, fino a esserne sublimemente consumati. 

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