Gustoso e saporito: il discorso gastronomico di Gianfranco Marrone

11 Agosto 2022

Dopo aver finito di leggere il bel libro di Gianfranco Marrone (Gustoso e saporito. Introduzione al discorso gastronomico, Milano, Giunti-Bompiani, 2022, pp. 350) ho provato l’impellente desiderio di cucinare e mangiare le sarde a beccafico, assaggiate anni fa in un viaggio platonico a Siracusa. Premetto che il libro di Marrone non è un ricettario, ma questo lo vedremo dopo. Trovandomi non a Palermo e nemmeno a Milano, dove è noto che si può trovare ottimo pesce fresco, bensì in una cittadina lacustre del Nord Italia in cui al massimo si pescano i coregoni, ho soltanto due possibilità: aspettare il sabato, giorno di mercato, e recarmi alla bancarella del pesce, oppure provare al supermercato.

Scelgo la seconda opzione e vado al super, dove non trovo le sarde ma le sardine sì (anche delle sardine come movimento politico si parla in questo libro, che però non è un trattato di storia contemporanea). E così con le sardine, lavate e pulite e aperte a libro, il pangrattato, le uvette, i pinoli, i capperi e un cucchiaio di parmigiano (sic) che avevo in casa, più un pochino di scorza grattugiata di un limone non trattato, sempre del supermercato, e il prezzemolo del mio orticello, di cui sono molto fiera, ho messo insieme una pietanza di tutto rispetto e non molto dissimile, a parte il colore, dalle triglie a beccafico, versione palermitana, della fig. 40 del suddetto libro.

Il quale non è assolutamente un libro di ricette e nemmeno di teoria politica, anche se parla di sarde e sardine. È, direi, un trattato, forse persino una summa, intesa quale compendio dei principi fondamentali di una disciplina, la semiotica, nella sua attenzione verso un’altra disciplina, o pratica disciplinare, la gastronomia. È un libro ricco, pensato, articolato, un libro serissimo che svolge metodicamente una materia e ne espone principii e regole nel mentre le applica a una pratica.

Sì, un trattato lo definirei, ma non puramente teorico: un trattato di semiologia applicata a una disciplina particolare, la gastronomia, del quale si percepisce, dalla punta dell’iceberg di considerazioni, studi e riflessioni, la massa di ghiaccio di nove decimi che sta sotto. Allora diciamo che il trattato di Marrone è una disamina precisa e puntuale del discorso sul cibo, nel quale la pratica della cucina viene inserita in una impalcatura teorica di impianto semiotico con risultati decisamente interessanti. 

Liscio e striato

Per spiegare meglio la faccenda mi permetto di accostare questo tipo di applicazione di una teoria (la semiotica) alla pratica alimentare a quel che feci nel 2015 nel mio Manifesto del cibo liscio (Novara, Interlinea). Colà avevo provato ad applicare al cibo un modello filosofico di spazio, quello di liscio e striato. Si trattava della distinzione tra due tipi di territorialità proposta nel 1980 da Gilles Deleuze e Félix Guattari nel denso volume Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, uscito in traduzione italiana nel 1987 (Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana) e ripubblicato nel 2017 da Orthotes. Da una parte vi veniva individuato lo spazio striato: cartesiano, gerarchico, egemonico, rigido (lo spazio del potere). Dall'altra lo spazio liscio: fluido, nomade, mutevole (lo spazio del non potere). Lungo queste coordinate Deleuze e Guattari proposero una serie di modelli: tecnologico, musicale, marittimo, matematico, fisico, estetico.

Da parte mia immaginai di costruire un ulteriore modello di combinazione tra liscio e striato: il modello del cibo, il modello alimentare di compresenza di liscio e striato con un prevalere del liscio e dei suoi effetti liberatori, in cui i due principi di liscio e striato lavorano in coppia e in alternanza, sono antitetici e complementari, l'uno per l'altro necessari. Entrambi concorrono alla definizione del modello alimentare liberatorio e positivo, liscio nella misura in cui questo valore si impone e prevale sull'altro senza cancellarlo.

È lo stile mutevole, vario ed eterogeneo del liscio che in parte si oppone, in parte si intreccia con lo stile identico, costante e stabile dello striato, che potrebbe portare a una scienza dell'alimentazione liscia, mobile, fluida, minore come il sapere nomade, il cui paradigma è lo spazio liscio sul quale esso scivola, sciolto dai vincoli e senza un piano universale. Un modello alimentare di cibo liscio insomma, tematica che riproposi nel numero uno della rivista «Pantagruel», curato da Massimo Donà e Elisabetta Sgarbi, dedicato proprio alla filosofia del cibo e del vino e uscito a Milano nel 2020 per La Nave di Teseo.

Gustoso e saporito

Anche Marrone propone due fattori cardine per il suo discorso gastronomico (dedicato cioè, lo dice la parola, alla scienza del ventre): gustoso e saporito. Il significato dei due termini non è self-evident. Potrebbero sembrare sinonimi e di fatto nel linguaggio comune lo sono. Invece nel saggio di Gianfranco Marrone, docente di Semiotica all’Università di Palermo e volonteroso e valoroso collaboratore di Doppiozero, gustoso e saporito sono due «sistemi di significazione» (chiedo scusa per eventuali imprecisioni; non sono una semiologa ma una semplice metaforologa) dotati di caratteristiche specifiche; due idiomi del discorso gastronomico ognuno con un proprio piano dell’espressione e del contenuto, che si ritrovano poi, in concreto, mescolati proprio come liscio e striato.

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Il gustoso, scrive Marrone, è «il sistema di senso che si instaura grazie al riconoscimento sensoriale di figure già note». Parte dal sensoriale, da schemi conoscitivi dati e va verso il riconoscimento, la Wiedererkennung hegeliana, quasi l’anamnesi platonica. Vedo il piatto, lo assaggio, riconosco: sarde a beccafico! 

Il saporito ci permette invece di sospendere husserlianamente il dato cognitivo (mi accosto alla pietanza come se, als ob, la vedessi e la assaggiassi per la prima volta) prendendo direttamente in carico le qualità sensibili: la pastosità della carne della sarda, la croccantezza e la sbriciolosità dell’impasto, in un rapporto di trasformazione dell’oggetto all’interno delle categorie del soggetto in base alle sostanze-oggetto percepite (a guisa di svolta copernicana nell’accezione kantiana). 

La distinzione tra gustoso e saporito insomma, oltre ad aver evocato in me quelle analogie filosofiche, ricalca in qualche modo una delle distinzioni proposte da Claude Lévi-Strauss, forse il principale autore di riferimento di Marrone: quella tra l’ingegnere e il bricoleur. Con il suo modello (idea platonica?) in testa, l’ingegnere percepisce i sapori degli ingredienti commestibili noti; il bricoleur per parte sua percepisce sapori nuovi anche in virtù di una articolazione delle qualità sensibili non programmata secondo uno schema noto.

Un esempio gastronomico citato nel testo di Marrone è la pasta e fagioli «compressa» di Massimo Bottura (fig. 42). In un bicchiere nel quale la presenza della pasta è stata, nonostante il titolo, eliminata, si alternano sei strati di colore beige, verdastro, caramello: dalle cotiche e fagioli e dal radicchio sminuzzato degli strati più bassi, all’eterea «aria di rosmarino» che conclude la pietanza dopo che sono stati ancora disposti pancetta soffritta, croste di parmigiano e una crema di fagioli (sei strati, ci siamo!).

Dal momento che Massimo Bottura è stato più volte eletto miglior cuoco del mondo e io non sono che una metaforologa e cuoca di famiglia che prende le sardine per sarde sospenderò, con Husserl, il giudizio rispetto a questa operazione; comunque analitica, dove il momento sintetico esiste ed è dato dall’immergere la posata (cucchiaio, cucchiaino?) nel bicchiere e nel portare alla bocca il carotaggio ottenuto. La cognizione del saporito emergerà paradossalmente nel momento in cui si sopprime la cognizione stessa, come fa Bottura, e ci si affida alla percezione, alla sensazione. 

Il corposo ma non pesante trattato di Marrone offre di fatto molto di più di quanto io sia riuscita qui a presentare e sviluppa in maniera ampia e accurata la dimensione semiotica oltre che funzionale (nutrire) ed estetica (sollecitare, sorprendere e compiacere i sensi, sia i sensi «bassi» e materiali, tatto, gusto, odorato, sia anche i sensi alti e rarefatti, vista e udito) degli alimenti, per arrivare a una nuova definizione ontologica dell’uomo: non soltanto l’animale razionale, politico, che possiede la voce etc., ma l’animale che trasforma il cibo prima di mangiarlo. È poi vero che alcuni animali lo puliscono, per esempio sciacquandolo in un torrente, ma quanto a rosolarlo in padella, ne siamo lontani. 

L’individualismo nel piatto

Concludo perdonando l’autore per l’uso dell’orrendo neologismo «impiattamento», presente per fortuna soltanto due volte, a p. 189, riga 32 e a p. 208, riga 9, in nome del fatto che ha ricordato il principio del piatto individuale, un piatto per ogni commensale, elaborato da quel geniaccio di Georg Simmel. In un momento storico come quello in cui viviamo che si bea di una foga comunitaria e collettivista, mi sono compiaciuta del valore rinfrescante dell’osservazione di Simmel: «Il piatto, a differenza del vassoio comune verso il quale in epoche più primitive ciascun commensale allungava la mano, è un oggetto individualistico.

Il suo perimetro designa una specifica porzione di cibo come riservata in modo esclusivo a una sola persona» (G. Simmel, Sociologia del pasto, in B. Carnevali e M. Pinotti (a cura di), Stile moderno. Saggi di estetica sociale, Torino, Einaudi, 2020 pp. 279-286). E speriamo di non tornare a mangiare con le mani nel vassoio comune ma di continuare a usare le posate e il tovagliolo (questo e altro nel libro di Marrone).

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