Speciale

I pulcini e l’esperimento dell’assenza

11 Dicembre 2022

La capacità di comprendere la negazione parrebbe essere legata al possesso di un linguaggio come quello umano o un qualche suo equivalente. A quanto sappiamo gli animali delle altre specie non possiedono nulla di simile al linguaggio o, quantomeno, i sistemi comunicativi delle altre specie non sembrano dotati di tutte le caratteristiche che riconosciamo nel linguaggio umano, perciò sarebbe loro preclusa la capacità di produrre o comprendere la negazione. 

Le evidenze del contrario sono solo aneddotiche. Tra le più notevoli quella che riguarda uno dei pochi sistemi simbolici di comunicazione descritti nelle specie non umane, la celebre danza delle api con la quale le bottinatrici comunicano alle compagne distanza e direzione di una fonte di cibo. 

In alcuni esperimenti si è visto che se le bottinatrici segnalano la presenza di cibo in una locazione impossibile, come ad esempio una barca in mezzo al lago, la danzatrice riesce a reclutare solo poche compagne. Come se le api scartassero l’informazione convogliata dalla danza, negandola perché la reputano impossibile (Fiori sull’acqua in mezzo al lago? Andiamo, non può essere…).

L’esperimento è un poco controverso, tuttavia, perché un altro gruppo di ricercatori non è stato in grado di duplicarne i risultati. Va detto però che la procedura adottata era per alcuni aspetti diversa e che risultati simili a quelli originali sono stati ottenuti, in modo inatteso, in un altro studio del tutto indipendente che indagava dell’altro. 

Gli specialisti di filosofia della mente distinguono però tra proto-negazione e negazione in senso proprio. Mentre la prima opererebbe su almeno due rappresentazioni discrete che sono dei contrari, come ad esempio presenza-assenza, la seconda opererebbe su una singola rappresentazione (una proposizione il cui contenuto è valutato come «che si dia» oppure «che non si dia»). La proto-negazione potrebbe non avere bisogno di un sofisticato supporto di tipo simbolico per manifestarsi.

Ci sono due modi di rappresentarsi l’assenza. Il primo può fare riferimento al sistema che elabora le quantità, il cosiddetto senso del numero, che sappiamo essere diffuso nel regno animale, dagli insetti all’uomo. 

Nel senso del numero l’assenza corrisponde a una quantità inferiore a uno e, poiché in questo sistema le quantità sono rappresentate in maniera approssimata, il nulla, l’insieme vuoto, sarà solo di poco distinto dall’uno, maggiormente distinto dal due, e ancor di più dal tre, dal quattro e così via. Questo si chiama «effetto della distanza»: vale per lo zero così come per qualsiasi altra numerosità (è più facile e richiede meno tempo distinguere tre da sei che non distinguere tre da quattro).

Il secondo modo di rappresentarsi l’assenza fa invece riferimento a una distinzione binaria: c’è qualcosa oppure non c’è nulla. L’opposizione tra presenza e assenza sarebbe in questa accezione di tipo categoriale (non esiste qualcosa che possa essere al tempo stesso presente e assente). Per essere rappresentata l’assenza qui non avrebbe bisogno di alcuna stima approssimata e neppure di un sistema di simboli arbitrari.

Tuttavia l’evidenza che gli animali (umani e non umani) si rappresentino l’assenza in questo secondo significato del termine è scarsa. Per capire perché bisogna considerare che non rappresentarsi uno stimolo è diverso dal rappresentarsi la sua assenza. I pochi studi condotti però suggeriscono, e questo è interessante, che processi differenti stiano alla base della rappresentazione della presenza e dell’assenza. Ad esempio, i bambini di soli otto mesi di vita colgono facilmente il fatto che uno stimolo debba rimanere presente anche quando risulti invisibile perché nascosto dietro a un qualche occludente, infatti sono sorpresi se una volta che l’occludente viene rimosso vedono che l’oggetto è magicamente scomparso, ma non mostrano la stessa prontezza nel coglierne l’assenza, perché non sono sorpresi che un oggetto che viene rimosso da dietro un occludente possa magicamente riapparire una volta che l’occludente sia tolto.

Qualche anno fa ha trascorso un periodo di ricerca presso il mio laboratorio una giovane scienziata ungherese, Eszter Zsabó, allieva di un eminente collega della Central European University, Gergely Csibra, che si è occupato a lungo del problema della negazione nello sviluppo infantile. Colpita dai risultati sulla rappresentazione della presenza e dell’assenza nei bambini, Eszter si è chiesta se ci fosse un modo per indagare il problema nelle specie non umane e in particolare a un’età precoce, così da avere un confronto puntuale con i dati ottenuti sui piccoli della nostra specie.

In una serie di eleganti esperimenti ha messo a confronto la capacità di pulcini di soli otto giorni di vita di rappresentarsi in maniera spontanea la presenza o l’assenza di un oggetto d’imprinting (un cilindretto che agiva come simulacro di madre, poiché gli animali erano stati allevati dopo la nascita in sua presenza).

 Nel caso della rappresentazione della presenza erano poste a confronto una condizione di sparizione attesa e una di sparizione inattesa. Nella prima i pulcini vedevano che da dietro un occludente opaco veniva dapprima rimosso l’oggetto di imprinting, successivamente l’occludente si abbassava rivelando che, come atteso, l’oggetto era sparito. Nella seconda i pulcini vedevano l’oggetto muoversi scomparendo dietro l’occludente, successivamente l’occludente si abbassava rivelando che l’oggetto era misteriosamente scomparso (in realtà grazie a una botola). (Vedi la figura sotto.)

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Nel caso della rappresentazione dell’assenza erano poste a confronto una condizione di apparizione attesa e una di apparizione inattesa. Nella prima i pulcini vedevano che l’oggetto di imprinting veniva collocato dietro un occludente, successivamente l’occludente si abbassava rivelando che, come atteso, l’oggetto era presente. Nella seconda i pulcini vedevano l’oggetto che veniva rimosso da dietro l’occludente, successivamente l’occludente si abbassava rivelando che, complice la solita botola, l’oggetto era misteriosamente ancora presente. (Vedi la figura sotto.)

Vallortigara

In maniera simile a quanto accade con i bambini, gli esiti inattesi producevano nei pulcini tempi di fissazione oculare (una misura della sorpresa) più lunghi nel caso della violazione della presenza rispetto al caso della violazione dell’assenza. Tuttavia i pulcini non erano del tutto ignari della violazione dell’assenza, che si palesava infatti quando la misura consisteva nell’uso preferenziale dell’occhio sinistro rispetto al destro, che negli uccelli, che hanno le vie visive completamente incrociate e poca comunicazione inter-emisferica, è associato all’attivazione selettiva dell’emisfero destro, specializzato nella rilevazione della novità.

Insomma, parrebbe che anche gli animali non umani sappiano rappresentarsi l’assenza, ma che, come accade nella nostra specie, vi sia un’asimmetria che rende più perspicua, forse in qualche modo primigenia, la rappresentazione della presenza rispetto a quella dell’assenza. 

Negare qualcosa, asserire la non esistenza, sembra cognitivamente impegnativo. L’assenza è l’inferno diceva Paul Verlaine.

Bibliografia

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-Tautz J., Zhang S.W., Spaethe J., Brockmann A., Si A., Srinivasan M. (2004). Honeybee odometry: Performance in varying natural terrain. PLoS Biology, 2: E211. doi: 10.1371/journal.pbio.0020211. 
-Vallortigara, G. (2021). Born Knowing. MIT Press, MA, USA.
-Wynn, K., and Chiang, W. C. (1998). Limits to infants' knowledge of objects: the case of magical appearance. Psychological Sciences, 9, 448–455.

In italiano si può leggere: 


-G. Vallortigara, N. Panciera (2014). Cervelli che contano. Adelphi, Milano.

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