Il mio Testori

28 Aprile 2023

Il titolo di questa testimonianza si riferisce a un lontano recital che Luca Doninelli mi invitò a realizzare nel 2004 per il Teatro Vascello di Roma: Il mio Pasolini, con l’intenzione di sottolineare l’importanza per la mia formazione delle loro vite parallele.

Quanto lavoro, quanti pensieri, quanta ricerca, quanta dedizione, quante lotte, quanta sofferenza, quanta felicità, nel corso della mia vita, ho dedicato a Testori? Non so più tenerne il conto. Certo, anche su altri mi sono ripetutamente applicato in qualità di attore: Beckett, Brecht, Schnitzler, Pirandello, Bernhard… Ma il caso di Testori riveste per me il segno dell’unicità e dell’identificazione. Mai avevo sentito che un autore mi desse tanto, mai che io gli restituissi tanto. Tutto ebbe inizio nel 1985, in un momento difficile per lui come anche per la mia compagnia, che allora si chiamava Magazzini Criminali e che, dopo un episodio frainteso al Festival di Santarcangelo, era stata pesantemente criminalizzata dalla stampa. Testori, da parte sua, era nel pieno della sua adesione al movimento cattolico di Comunione e Liberazione, che gli aveva alienato gran parte dell’opinione pubblica dominante. Peraltro, all’indomani dello scandalo di Santarcargelo, in una intervista di Pier Vittorio Tondelli apparsa sulla terza pagina del «Corriere della Sera», Federico Tiezzi, mio socio e regista e altro, paragonava la scrittura di Testori a quella di Genet, sostenendo l’impossibilità di separare la loro opera dalla loro vita. Scandalo nello scandalo: i “trasgressivi” Magazzini Criminali che sposavano il “cattolico” Testori! Fu Riccardo Bonacina, allora direttore del settimanale «Il Sabato», ad accompagnare lo scrittore al Teatro dell’Elfo dove, grazie all’ospitalità di Elio de Capitani e Ferdinando Bruni, replicavamo il Ritratto dell’attore da giovane. La scena era costituita da una piscina sul bordo della quale, finito lo spettacolo, ci intrattenemmo a parlare con Bonacina e Testori (mi pare ci fosse anche Emanuele Banterle). Una delle molle dell’interesse dello scrittore verso di noi era certamente l’ostracismo di cui eravamo fatti oggetto in quel periodo. Ma il discorso poi andò più in profondità, toccando i temi dell’efficacia o meno del teatro e della lingua usata per scriverlo e la necessità, per l’attore, di avere intelligenza del testo e intelligenza della vita. In particolare mi colpì la considerazione di Testori sul fatto che a teatro è più forte la trasgressione linguistica dell’area scatologica rispetto a quella dell’area sessuale: insomma scandalizza più la merda del cazzo. Testori segnalò a Federico il suo Confiteor, proponendogli di farne la regia; Federico gli contropropose una regia dell’Arialda. Ma né l’una né l’altra andarono in porto: evidentemente i tempi non erano maturi.

Tra le tante cose che ho imparato da Testori, su tutte domina lo strazio, solo in parte di marca proustiana, e in caso più vicino al proustismo di Luchino Visconti, dato dal tornare sui momenti più significativi del proprio passato, sui volti che abbiamo amato, sulle lacrime che abbiamo versato, sulle stagioni storiche e culturali che hanno abbracciato le nostre vite, sulle scintille di grazia che l’esercizio della professione ci ha regalato. 

Testori offre molto all’attore, anche al regista, naturalmente, ma di più all’attore. La sua vena drammaturgica sgorga in funzione del corpo – cuore e carne, mente e sesso – dell’attore. È, la sua, una poetica del sangue e delle viscere in cui si celebra il mistero della parola che si incarna. Certo, se all’attore Testori offre molto, anche molto gli chiede: esige infatti che si lasci possedere da un verbo incarnante e di farsene ricettacolo prima, por poi restituirne la forza, la violenza, la tenerezza, la sensualità sotto forma di voce ed espressione. Gli chiede anche di tenersi in perenne equilibrio tra la vis tragica e quella comica – così almeno è stato per me con Edipus, 1994; Cleopatràs, 1996; Erodiàs e Mater strangosciàs, 1998; di nuovo Erodiàs, 2008: quasi quindici anni di dedizione pressoché assoluta.

Al pari di quanto avviene in Pirandello, Schnitzler e Bernhard, autori che non sono stati esclusivamente drammaturghi ma anche narratori, la componente teatrale dello scrittore di Novate non si limita ai testi espressamente concepiti per le scene, ma percorre, più o meno sotterraneamente, tutti gli aspetti della sua opera. Mi è capitato di recitare in pubblico poesie, racconti, brani di critica d’arte e addirittura interventi giornalistici. E in ogni genere palpita la dimensione del teatro, non come magniloquenza e retorica, pur se alta retorica, piuttosto come dialogo diretto tra l’autore e il corpo d’attore di volta in volta chiamato a incarnarli. La scrittura di Testori reclama sempre una voce e un corpo che la assumano in sé e su di sé per esprimerla. Come anche Thomas Bernhard, che si è spinto a titolare sue pièces con i cognomi degli attori per cui li aveva scritti (Minetti. Ritratto di un artista da vecchio; Ritter, Dene, Voss – rispettivamente gli attori Bernhard Minetti, Ilse Ritter, Kirsten Dene, Gert Voss), Testori ha sempre pensato a specifiche figure d’attore, modulando la sua scrittura sulle loro risorse psico-fisiche: Franca Valeri, Lilla Brignone, Franco Parenti, Franco Branciaroli, Andrea Soffiantini... Ma l’afflato di un autore nei confronti di un attore, quando è così intenso e viscerale, è percepibile anche se l’attore o l’attrice in questione non sono più quelli cui originariamente il drammaturgo ha pensato. E così, negli anni di lavoro che mi hanno tenuto legato alla drammaturgia di Giovanni Testori, sempre sorretto dalla complicità di Giovanni Agosti e Federico Tiezzi, mi sono sempre sentito accanto la sua voce, e avevo l’impressione che quei testi fossero stati scritti espressamente per me. Del resto così mi confermò Testori stesso in sogno (una comunicazione post mortem?).

Il 16 marzo del 1993 Giovanni Agosti mi chiamò al telefono per dirmi della scomparsa dello scrittore e in quell’occasione, facendo seguito a miei ripetuti disagi nel gestire compagnie numerose, mi propose di rileggere il monologo Edipus, ultimo tratto della Trilogia degli Scarozzanti, pubblicato nel 1977 e portato sulle scene lo stesso anno da Franco Parenti interprete e André Ruth Shammah regista. Venendo da tre stagioni di lavoro sulla Commedia dantesca, non potevo non cogliere la violenza “comica” di alcune perle linguistico-espressive: la lamentazione di Iocasta sulle viscere e l’inno ai fiori dopo l’orgasmo col figlio, le invettive di Dioniso contro tutte le forme di potere che opprimono e strangolano la libertà dei sentimenti e delle pulsioni e, su tutte, la malinconia dello Scarozzante, il rimpianto delle sue passeggiate con la primattrice a spiare le vetrine del Corso Buenos Aires – malinconia non lontana dal clima tutto milanese di uno dei capolavori di Luchino Visconti, Rocco e i suoi fratelli, ispirato ai racconti e ai personaggi testoriani di Il ponte della Ghisolfa, clima che volli sottolineare commentando lo spettacolo con i brani della colonna sonora di quel film, dovuti a Nino Rota, e con una magnifica canzone, La sirena, parole di Dario Fo, musica di Fiorenzo Carpi, interpretazione, magnifica, di Ornella Vanoni. 

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Tutte le componenti di Edipus stanno raccolte sotto l’ombrello di un’invenzione felice: quella degli Scarozzanti, bislacca troupe di teatranti di giro evocante il tempo perduto in cui gli attori si sdoppiavano nei loro personaggi in una sorta di inconsapevole effetto di straniamento brechtiano. Numerosa nel primo tratto, L’Ambleto, la compagnia si riduce nel secondo, Macbetto, fino a presentare, in Edipus, un capocomico abbandonato dalla sua prima attrice, che ha preferito sposare un industrialotto brianzolo, «… un mobeliere, zoppo in più de una gamba …», e dal primo attor giovane che ha scelto di andare a fare il travestito in una compagnia «… no de tragichi, 'me eramo noi, imbensì de revistaroli e de cabarettisti!...»: un combustibile rovente, pronto a infiammarsi al contatto con un attore disponibile a farsi incendiare.

L’intenzione di Agosti, Tiezzi e mia aveva anche un risvolto di politica culturale. L’ultima stagione della vita e della produzione letteraria di Testori aveva coinciso con il suo avvicinamento a Comunione e Liberazione che se da un lato gli aveva garantito un pubblico giovanile sincero, numerosissimo ed entusiasta, dall’altro l’aveva spinto ad archiviare le componenti più virulente ed estreme della sua ispirazione, che sarebbero riemerse solo alla fine, con Gli angeli dello sterminio e i Tre Lai. Ma il mondo culturale italiano non aveva tollerato la scelta di Testori (curioso che tanti intellettuali fossero – e siano – pronti a perdonare a Céline l’antisemitismo in nome dello stile e non a Testori il cattolicesimo), e aveva tentato tutto il possibile per emarginarlo e ridurlo al silenzio, con l’eccezione del sostegno generoso di Giovanni Raboni. Si rischiava che la sua eredità culturale venisse frettolosamente archiviata appiattendola sulla sua ultima fase. Bisognava far riemergere l’aspetto erotico e dionisiaco, e mettere in luce la tinta quasi pop di certi suoi cortocircuiti tematici e linguistici. Ricordo quando Federico mi propose: e se invece di collocare Testori sempre e solamente tra Pirandello e Dario Fo, tra Ceruti e Morlotti, provassimo a pensarlo anche tra Gadda e Schifano, tra Tiepolo e Lynch?

La preparazione di un ruolo presenta in genere per l’attore la necessità di attraversare territori diversi: si parte con l’entusiasmo e poi poco a poco ci si ritrova ammalati, spersi in un deserto d’angoscia, in una palude da cui si ha l’impressione di non poter uscire: fuor di metafora, insomma, si è immersi nel timore di fallire e nell’orrore che questo comporta. Poi, a forza di studio e di applicazione, di ricerche e di prove, e anche aiutati da qualcosa che fiorisce tra il testo e noi senza che gli sappiamo dare un nome (l’inconscio?), si torna all’entusiasmo iniziale, e il compito interpretativo riesce. Al contrario, nella preparazione degli spettacoli testoriani mi sentii fin dall’inizio incamminato sulla strada giusta: in altre parole, fra i doni che Testori elargisce all’attore c’è anche la felicità del percorso interpretativo. Mi sentivo “stanato” dalla sua drammaturgia: tutto quello che di me attore era ancora restato inespresso veniva fuori con impressionante facilità, e con la gioia di sentirsi al centro delle cose. Ci vollero mesi, naturalmente: dovevo imparare i dialetti lombardi, documentarmi sulle compagnie di giro sul tipo di quella della Famiglia Rame, visitare i luoghi amati e studiati da Testori, primo tra tutto il Sacro Monte di Varallo, dove mi parve di individuare la radice della sua ispirazione: in quelle sculture di legno popolarmente espressive, dagli occhi di vetro e i capelli di stoppa stava il rapporto-contrasto tra vero e falso che intride di sé la Trilogia degli Scarozzanti. E mi resi conto di come nel massimo del falso e del posticcio riluca a volte un vertice di verità poetica e sentimentale. Dovevo inoltre decidere quale taglio drammaturgico dare a un testo multiforme che, se interpretato nella sua interezza avrebbe dato luogo a uno spettacolo interminabile. Mi concentrai sulla figura dello Scarozzante che, abbandonato dai suoi sodali, si è ridotto a sussumere su di sé tutti i ruoli. 

Il clima di compagnie itineranti che possono aver suggestionato Testori è ben raccontato da Franca Rame: «Ci muovevamo in massa. Facevamo base in un centro importante, per esempio: Varese. Di lì partivamo ogni giorno per andare nei paesi della zona. La domenica ci dividevamo in due gruppi per recitare due spettacoli in piazze diverse. L’organizzazione, tutt’altro che semplice, era affidata a zio Tommaso, uno strano e simpatico omino (…), che oltre a essere distratto nutriva eccessiva fiducia nell’imprevisto. Così accadeva di mettere su uno spettacolo e di accorgersi all’ultimo momento che ci mancava un attore, impegnato nell’altra compagnia. Lo zio rimediava immediatamente affidando a mio fratello una doppia parte, con immaginabili complicazioni. (…) Recitavamo a soggetto senza mai studiare a memoria la parte. Il nostro pubblico ci voleva così, ed eravamo contenti. Ora, invece, non mi trovo bene» (Sennuccio Benelli, Incontri impossibili, Milano, Lerici, 1964, pp. 145-146). 

La nostalgia di questo teatro randagio e capace di commuovere e divertire quel pubblico che non va mai nei teatri primari aveva in sé una componente politica tutta sorgiva e affatto ideologica, che mi dava un senso di pacificazione nel rapporto con me stesso mai provato prima. Spesso gli attori hanno problemi con il proprio corpo e con le proprie caratteristiche. Vorrebbero essere diversi: più alti, più magri, più robusti, più agili, meno ingombranti, più biondi, più bruni, più visibili, meno visibili. Si sottopongono a esercizi torturanti per essere diversi da quello che sono. È un deserto arido e spinoso, e solo l’averlo attraversato può dare la misura della felicità al momento di approdare all’oasi pacificatrice, al ritrovamento d’un rapporto equilibrato con sé stessi. Non mi ero mai sentito così a mio agio con un testo. In seguito quella esperienza mi consentì di agganciare con analoga felicità testi di Luzi, Pirandello, Aristofane… Ma l’intensità creativa di Edipus la ritrovai solo con i Tre Lai, pubblicati postumi nel 1994, che portai sulle scene in due soluzioni, la prima con Cleopatràs, la seconda accostando Erodiàs e Mater strangosciàs. E quella felicità è riemersa  recentemente, quando l’isolamento provocato dalla pandemia rese impossibile la ripresa dell’ultimo di questi titoli al Museo del Castello Sforzesco, e lo sostituimmo con un’opera video in cui, con in braccio un Cristo che Federico Tiezzi aveva voluto in braghette e guantoni da pugile come nelle celebri tele di Testori, pronunciavo il lamento della Madonna testoriana ai piedi della Pietà Rondanini, lacrimando sangue mentre Giovanni Agosti, come un Giuseppe d’Arimatea, me le asciugava (Sandro Lombardi, a cura di, Mater strangosciàs alla Pietà Rondanini, Brescia, Edizioni L’Obliquo, 2021).

 

Con questo testo di Sandro Lombardi apriamo una breve serie dedicata a Giovanni Testori in occasione del centenario della sua nascita.

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