Il trionfo e l’umiliazione

30 Agosto 2014

L’unica novità, e non decisiva, è la serie di braccia alzate a scattare foto col cellulare. Tutto il resto è già visto, anche se non dalla nostra generazione. L’hanno già scritto alcuni giornali: è dalla Seconda Guerra Mondiale che non assistiamo a scene come quelle avvenute qualche giorno fa a Donetsk: per le vie centrali della città sono sfilati prigionieri ucraini in mano alle milizie filo-russe.

 

 

Ma non è poi così frequente imbattersi in episodi analoghi a quelli di Donetsk, con la folla disposta ai due lati della strada: uomini, donne, giovani che non si limitano ad assistere alla scena. Molti fischiano, alcuni si fanno avanti, urlano e fanno gesti minacciosi. I giornalisti presenti riferiscono che molti hanno lanciato oggetti contro i prigionieri. Questi ultimi sono tutti a capo scoperto, la maggior parte ha una tuta mimetica addosso ma alcuni indossano abiti borghesi. Quasi tutti hanno le mani legate dietro alla schiena.

 

 

Una scena simile si svolse a Mosca nel luglio 1944, quando decine di migliaia di soldati e numerosi ufficiali tedeschi furono fatti sfilare per le vie della città. Un filmato della propaganda sovietica fa vedere con precisione la preparazione del corteo: gli ufficiali vengono inquadrati da vicino, ben rasati e con le uniformi intatte, mentre si dispongono con calma in testa alla sfilata; non hanno le mani legate, come del resto i soldati, che però hanno uniformi stracciate e disordinate, le barbe lunghe o non curate.

 

 

Poi la folla, che fiancheggia numerosa il lunghissimo corteo; in nessuna inquadratura si vedono persone che insultano o gridano, tutti osservano calmi, compresi i ragazzini seduti su un carro armato e le persone sui balconi. Il cortometraggio termina con una sfilata di macchine, quelle che – sfollata la gente e chiuso l’evento – spazzano le strade della capitale russa: necessità pratiche e valenze simboliche si sovrappongono. Alcuni resoconti giornalistici raccontano di un’identica iniziativa anche a Donetsk, una volta caricati su furgoni e pullman gli ucraini catturati.

 

 

Tanto a Mosca quanto a Donetsk siamo davanti a una vera e propria cerimonia di guerra. E come la nostra generazione sta imparando, quando c’è una guerra lo scorrere del tempo è un’illusione. Satelliti, droni, precisioni chirurgiche ci illudono che le cose non siano ancora una volta le stesse: corpi di uomini contro corpi di altri uomini. Qualunque sia il mezzo, questa è la trama di ogni vicenda bellica.

 

L’aggressione del nemico è fatta di tanti momenti: prima le parole e le immagini della propaganda,  poi lo scontro diretto, le uccisioni o la prigionia e tutte le violenze che possono essere inferte a chi non può difendersi altrimenti; in quest’ultima fase il problema non è tanto e solo sfogare l’odio accumulato dall’inizio dei conflitti, quanto umiliare i vinti e rafforzare la coesione popolare.

 

Fu nella Roma antica che il triumphus assunse appunto una forma cerimoniale, trionfo che veniva concesso a un generale in occasione di importanti successi militari. All’interno di questa complessa sequenza rituale  – il trionfo poteva svolgersi nell’arco di più giornate – un momento speciale era appunto il corteo, lungo un preciso itinerario attraverso la città, dei prigionieri di guerra e del bottino conquistato.

 

In questo senso, allora, l’aggettivo “arcaico” che alcuni commentatori hanno usato per la vicenda di Donetsk non sembra il più adatto; sarà meglio usarlo per altre vicende odierne che sempre hanno a che fare con la guerra: le esecuzioni pubbliche, i condannati messi in ginocchio,  i pugnali sguainati, i volti coperti, le teste mozzate ed esibite.

 

 

Infatti la sfilata di Donetsk – ben altro che un’azione improvvisata – è una cerimonia doppia, da una parte l’umiliazione degli ucraini sconfitti, dall’altra la celebrazione dei filo-russi vincitori. Una doppia parata militare. L’efficacia dell’una e dell’altra cerimonia deriva prima di tutto dal fatto che gli uni e gli altri tengono uno stesso ritmo di marcia, quello baldanzoso dei vincitori coi fucili, quello avvilito dei prigionieri legati; come ha spiegato William McNeil (Keeping together in time, 1995) le marce dei soldati hanno da sempre il senso di mostrare e ricompattare una comunità; questo avviene anche nel caso degli sconfitti, che nel loro passo mesto vengono meglio individuati nella loro appartenenza a un gruppo nemico.

 

 

Se c’è qualcosa di arcaico in questa doppia sfilata, questo si annida all’interno dell’una e dell’altra. Vestiti stracciati e diseguali, mani legate dietro la schiena, ma, soprattutto, la testa reclinata, lo sguardo basso, i segni per eccellenza dell’umiliazione. Lo sconfitto cerca infatti di vedere il meno possibile, cerca di negare la propria inermità e di non assistere al trionfo del vincitore, deve fingere di non esserci. È tutt’altra situazione, ma pur sempre è prigioniero quell’uomo che in una foto segnaletica nell’Australia degli anni '20 non vuole aprire gli occhi davanti al fotografo (“this man refused to open his eyes”, commenta una scritta).

 

Assume le forme di sempre anche la celebrazione dei vinti: la fronte ben alta, le armi impugnate con fierezza, lo sguardo minaccioso; le baionette montate sui fucili – proprio come a Mosca nel 1944 – sono pressocché inutili dal punto di vista militare, ma diventano corredo eloquente di questo rito di guerra.

 

Nicolas Poussin, Trionfo di Davide, 1631-33

Nicolas Poussin, Trionfo di Davide, 1631-33

 

Quando, attorno al 1630, Nicolas Poussin immaginò il trionfo sui Filistei (I Samuele 18, 6-9), doveva avere in mente lo svolgimento dei trionfi romani e non solo per la presenza di elementi architettonici classici; è proprio una parata militare all’antica che si svolge in questa Gerusalemme. Sta di fatto che tra la folla che festeggia e commenta l’arrivo di Davide con la testa mozzata di Golia, ci sono anche madri con bambini; una di esse, premurosa, addita espressamente la testa del nemico sconfitto.

 

Come testimoniano i filmati di allora e quelli di oggi, anche nel 1944 le madri portarono in piazza a Mosca i loro bimbi e così hanno fatto ieri l’altro a Donetsk: possiamo essere certi che anche questa elementare pedagogia della vittoria e dell’umiliazione sopravviverà a lungo.

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