Javier Marías, La metà del tempo

25 Novembre 2024

Nel 2008 Inés Blanca ha raccolto in volume gli articoli più autobiografici di Javier Marías. Il risultato è un libro composto da ottantadue testi di varia estensione e di diversa provenienza. Il più vecchio risale al 1987, mentre il più recente è del 2008, l’anno della pubblicazione. La raccolta è uscita da poco in Italia (Einaudi, trad. it. di Maria Nicola). Marías, nel frattempo, è morto, rendendo ancora più povero il già ristrettissimo club dei cultori dell’arte del romanzo. Nel mondo, attualmente, il loro numero non supera le dita di una mano. Esagero? Non credo. Tra le molte ragioni per cui il club è diventato così esclusivo, ce n’è una che salta agli occhi: il passato è diventato negli ultimi trent’anni sempre più una terra incognita, una terra invisibile abitata da gente invisibile. 

È un caso che Marías abbia dedicato quasi tutti i suoi articoli ai “valorosi invisibili” che hanno affollato la sua vita? Non credo. Non è neppure un caso se il libro – come afferma uno dei suoi fratelli, Miguel, nella prefazione – finisca per “assomigliare in modo inquietante a un necrologio”. “I valorosi invisibili”, infatti, siano essi genitori, amici, amiche, persone modeste e ignorate o celebri scrittori, sono convocati nel libro per lo più in occasione della loro morte. Il titolo stesso, La metà del mio tempo. Guardare indietro, come spiega Marías nella presentazione, è piuttosto indicativo: “il nostro radicamento nella vita ci rende molto difficile abbandonare l’idea alla quale siamo abituati, e cioè che abbiamo sempre se non tutto, almeno molto tempo davanti, e che il passato, di cui ci resta il ricordo, non possa essere – indefinitamente – la metà, quella metà”. 

Ora, è proprio “quella metà – ovvero ciò che forma “indefinitamente” il nostro passato (sia quel che abbiamo perduto che quel che è rimasto) – a diventare ai nostri giorni sempre più un fardello insopportabile. O meglio: un ostacolo da superare. Domanda: che cosa significa superare il nostro passato? A quella categoria di individui che pensano che ciò sia possibile, pena, come di solito affermano, il vivere continuamente nel passato, Marías oppone un’altra categoria di persone, quelle che sono impregnate dal passato e che lo portano sempre con sé: “non come un peso, bensì come un bagaglio senza il quale non si riconoscerebbero, o si sentirebbero spiacevolmente incomplete”. Dice di più: che anche coloro che appartengono alla prima categoria e che ai giorni nostri si vantano “con brutale sfrontatezza” di non guardarsi mai indietro e di “non pentirsi mai di niente”, bene, anche costoro, che lo sappiano o meno, portano con sé “la metà del loro tempo”. Anche costoro, come tutti gli esseri umani, sono portatori del passato. Non è un caso che un tempo come il nostro, votato a tagliare con ogni mezzo – linguistico, storico, estetico, esistenziale – i ponti con i secoli trascorsi, si chieda, in modo ossessivo e perfino grottesco, che cosa differenzi l’identità di un uomo da quella di una donna; si sforzi di affrancarci da una lingua comune attribuendo significati fittizi a nozioni purificate, se non epurate, da un uso plurimillenario; si adoperi con particolare masochismo ad eliminare ogni filo di continuità tra le società che ci hanno preceduto e la nostra. Che cosa conferisce identità agli individui e significato alle parole? Che cosa ci fa intuire, nelle nebbie del presente, ciò che stiamo diventando? “La metà del nostro tempo”, risponde Marías. Ed io con lui.

Come essere uno scrittore senza diventare un agente dello spettacolo?

Ecco una domanda che Marías, refrattario com’era a concedere al suo presente un luogo privilegiato rispetto a tutti i presenti di altre epoche, non ha mai dovuto porsi. E che altri, più giovani di lui, non si sono semplicemente mai posti, dichiarandosi in modo più o meno esplicito figli legittimi di una società in cui l’appetito commerciale, con il suo cinismo falsamente ribelle e con il suo successo a buon mercato, contamina proprio ciò che cerca di rivelare.

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Javier Marías.

Nato agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso a Chamberí, uno dei quartieri più caratteristici di Madrid, figlio di un filosofo allievo di Ortega y Gasset e di una madre tra le prime laureate in Lettere e sorella di un cineasta, lo scapestrato collezionista di riviste pornografiche zio Jesús, alias Jess Frank, iniziò giovanissimo a pubblicare e a tradurre. A trent’anni aveva già all’attivo quattro romanzi e diverse traduzioni: Hardy, Conrad, Stevenson e, soprattutto, Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo di Laurence Sterne. L’inglese – di anglofilia sarà accusato spesso e volentieri in patria – l’aveva imparato praticamente in fasce, dato che il padre, in rotta con il regime di Franco, si ritrovò ben presto a insegnare a Wellesley, Massachussets, e poi alla Yale University, New Haven, Connectitut. Nel pezzo diaristico che apre Una metà del mio tempo afferma che uno dei suoi ricordi più limpidi risale al paesaggio americano sempre coperto di bianco e al “suono della neve” sotto i suoi passi. “Lì c’è la mia prima infanzia, o almeno più che in ogni altro luogo”. Un altro fatto che ricorda è che lui e i suoi fratelli passavano buona parte della vita in costume, “giocando a essere altri… La cosa più divertente che sia mai stata inventata”. Beh, non male! Che cos’è la cultura, ha scritto un grande pensatore “se non una potente messinscena attraverso cui l’uomo cerca di rafforzarsi nella sua illusione originaria di non essere, in fondo, un semplice animale?”. E che cos’è il romanzo, ha detto un grande romanziere, se non quel luogo dove degli “io sperimentali” sono in grado di sondare le nostre infinite possibilità? E ancora: che cosa siamo noi, come avrebbe detto il maestro Ortega y Gasset, se non esseri di circostanza, esseri sempre in relazione, in grado, nei nostri momenti migliori, di mettersi nei panni dell’altro?

Poi, in altri articoli, l’infanzia e l’adolescenza vengono riesumate attraverso alcune figure. Ad esempio, “il cuore semplice” di Leonides Blanco, “la serva” che, nelle sue funzioni di cuoca, donna delle pulizie e bambinaia, ha rallegrato nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta la sua vita e quella dei suoi fratelli. Marías usa il termine “serva” andando volontariamente contro lo spirito politicamente corretto della nostra epoca, uno spirito che è una sorta di dittatura puritana imposta da un ristretto gruppo di individui in guerra permanente con il passato e nata da una nozione distorta del bene. Come se un cieco smettesse di essere cieco, solo perché lo chiamiamo “non vedente”. Travestire la realtà non è ancora nominarla.

Poi mi vengono in mente altri articoli: quello in cui si incontra con il suo amico Guillermo Cabrera Infante, l’autore di Tre tristi tigri. Qui l’infanzia non solo viene recuperata, ma rinasce ogni settimana. Mentre l’autore cubano odia il calcio perché, secondo lui, incita alla violenza, l’autore, da sempre tifoso del Real Madrid, rivive i suoi dieci anni ogni volta che la sua squadra entra in campo; quello in cui si diverte a spiegare come ha ereditato dallo scrittore John Gawswoerth il regno di Redonda, una piccola isola vicino ad Antigua; o quello in cui ricorda un cugino morto prematuramente, un “apripista”, che gli ha insegnato ad amare ogni tipo di gioco; o quello in cui celebra il maestro Juan Benet (non capirò mai perché opere come Un viaggio d’inverno, Lance spezzate e Nella penombra abbiano così pochi lettori in Italia); o un altro, in cui celebra le sue “vecchie” signore, madri, nonne, anziane amiche, a cui, secondo il precetto di Faulkner, ha sempre dato ascolto; e ancora un altro in cui descrive la sua passione per il cinema, anch’essa, come quella per il calcio, nata durante l’infanzia. E poi ci sono un paio di articoli in cui l’infanzia mostra il suo volto bifronte. 

Parlando del suo interesse per i mondi in miniatura (quello dei soldatini, ad esempio, di cui i suoi scaffali sono pieni), dice che probabilmente viene da una duplice inclinazione: puerile e letteraria. Il fatto è che i bambini amano inoltrarsi in ciò che è molto piccolo attribuendogli “una vita immaginaria enorme”. È così che, fino a pochi decenni fa, generazioni e generazioni si sono iniziate alla finzione creativa che spinge a inventare una storia. Tenere presente da adulti, avere sempre davanti agli occhi i soldatini, è un modo per l’autore di ricordarsi “quanto sia puerile” la sua attività di scrittore, di quanto non debba essere presa troppo sul serio, essendo alla fine solo un gioco. Tutto ciò, tuttavia, non ha nulla a che fare con la glorificazione dell’infanzia della nostra epoca che, da età della vita si è trasformata nella sola età dell’uomo, come se “l’unico e insensato disegno dell’umanità fosse quello di formare e forgiare bambini eterni”.

Potrei continuare. Non c’è un articolo del libro che non contenga qualche preziosa pepita di malinconica ironia su un mondo che non c’è più e che non smette di ritornare. “Per strano che possa sembrare, mi è sempre più difficile comprendere la differenza tra i vivi e i morti”. Dov’è, infatti la frontiera, per chi vive il proprio futuro come se fosse già alle proprie spalle? Non c’è un articolo in cui Marías non ci dia, con discrezione ed eleganza, il benvenuto nel suo passato. Una lezione di stile per il nostro eterno presente di eterni bambini votati anima e corpo all’indiscrezione e al Kitsch.

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