La discontinuità del lavoro culturale

18 Giugno 2014

Quest’anno, nella settimana del primo maggio, alle Officine Corsare di Torino – spazio sociale di produzione culturale e politica – si è svolta PRECARISSIMA: cinque giorni dedicati al lavoro e alla precarietà con l’obiettivo di andare oltre le rappresentazioni dominanti nel dibattito pubblico, e di partire dai problemi concreti per condividere pratiche e strumenti collettivi e definire insieme un piano di vertenze e proposte per la politica.

 

Parlare dei lavoratori della cultura, dell’arte e dello spettacolo significa affrontare questioni irrisolte, nuove trasformazioni e sfide inedite. Oltre la tradizionale penuria di fondi dedicati al mondo della cultura nel suo complesso, ciò che accomuna questi settori è il loro carattere essenzialmente discontinuo. Una caratteristica strutturale che – senza addentrarsi qui nell’analisi delle trasformazioni e dello sfruttamento del lavoro immateriale – espone di per sé i lavoratori al rischio della precarietà.

 

La naturale flessibilità del lavoro culturale, tanto più quanto connessa a forme di autoimprenditorialità, impone un ragionamento specifico sulle politiche che lo riguardano, se non si vuole lasciare che questo settore si trasformi definitivamente in una sacca di sfruttamento lavorativo e cognitivo. Da una parte occorre valutare l’applicazione di soluzioni più trasversali, come forme di reddito di base che possano rendere sostenibili discontinuità lavorative, a cui affiancare forme di reddito indiretto (accesso a formazione, cultura, trasporti, ecc.). Dall’altra rivolgersi a questioni specifiche: ad esempio gli aspetti legati ai contributi previdenziali, alle tutele in caso di disoccupazione, malattia, maternità o paternità.

 

La precarietà del lavoro culturale riguarda al contempo nuove sfide, come i mutamenti nelle modalità di finanziamento, che ha conseguenze nel funzionamento e nella struttura dei soggetti e delle organizzazioni culturali che hanno dovuto accettare (in assenza di alternative) di confrontarsi totalmente col mercato, spesso senza quei sostegni concessi invece ad altre tipologie di lavoro e impresa. La logica delle start-up, a fronte dall’autonomia offerta dalla dimensione autoimprenditoriale, significa anche lo scarico totale del rischio d’impresa e della ricerca delle risorse necessarie sui singoli soggetti, spesso giovani e privati di sbocchi occupazionali alternativi nel settore. I rischi si accentuano tanto più nell’ambito culturale e dell’innovazione sociale: un tipo di mercato dove la domanda privata è insufficiente e quella pubblica, comunque importante, mantiene logiche ben differenti.

 

La richiesta che oggi arriva da parte di molte realtà della cultura diffusa non riguarda infatti un esonero totale dal confronto col mercato. Riguarda prima di tutto il riconoscimento della peculiarità dell’ambito culturale, dove il solo meccanismo concorrenziale non può in alcun modo garantire la qualità della produzione culturale e guidare percorsi di sviluppo dei soggetti coinvolti. Perciò viene sollevata sempre più l’urgenza di una ridefinizione delle procedure amministrative e delle modalità di accesso ai contributi pubblici (ai quali alcuni soggetti tradizionali continuano comunque ad accedere), di modo da introdurre ulteriori elementi di sostegno e promozione, e quindi di scelta e definizione, all’interno del sistema culturale.

 

Le richieste degli operatori si concentrano tuttavia sempre più verso una trasformazione dell’amministrazione pubblica, uno svecchiamento delle competenze e della visione del proprio operato. Un cambiamento che potrebbe innescarsi a partire dalla semplice adozione di buone pratiche nella gestione delle politiche culturali.

 

Cosa vuol dire questo concretamente?

 

Al pubblico si chiede sostegno negli adempimenti burocratici, snellimento delle procedure, servizi di supporto: in questo senso uno sportello dedicato al settore culturale con funzioni di assistenza sui permessi e le procedure burocratiche potrebbe avere effetti positivi per un ambito in cui si fa sempre più grande il divario tra competenze e ore di lavoro amministrativo richieste, da una parte, e le disponibilità economiche per sostenere tale impegno, dall’altra.

 

Un altro aspetto centrale riguarda l’incapacità dei soggetti pubblici di attingere al meglio alle risorse europee, facilitando l’attivazione locale di progetti, la collaborazione tra le realtà diffuse, la creazione di reti internazionali. In questo senso una trasformazione dell’azione pubblica potrebbe vedere la nascita di gruppi di lavoro per la progettazione europea, capaci di assistere o di attivare loro stessi le realtà del territorio.

 

Il bisogno di questi cambiamenti – così come molti altri che emergono da quello spettro di esperienze che va dagli spazi autogestiti alle nuove imprese culturali, passando per i circoli, le associazioni e tutti i luoghi e i soggetti della produzione e fruizione culturale diffusa – nasce tuttavia da una differente percezione della realtà, della situazione e dei problemi in campo che spesso distanzia questi operatori culturali da quegli attori più vecchi o già affermati e organici ai sistemi di potere. Questa distanza costituisce una delle difficoltà per dei reali processi di trasformazione all’interno del sistema cultura italiano.

 

Si tratta di semplici pratiche e idee che richiedono al contempo di essere affiancate da un lavoro politico-culturale di definizione di orientamenti generali che, in mancanza di un dibattito dal basso totalmente partecipato, abbiano quantomeno come chiaro obiettivo la valorizzazione dei talenti e delle esperienze diffuse nel territorio.

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