Complex TV / The Queen’s Gambit: scacco al Maschio

24 Dicembre 2020

Walter Tevis, l’autore del romanzo The Queen’s Gambit, da cui Netflix ha tratto la splendida serie in 7 episodi che ha spaccato tutti i record di ascolto nelle ultime settimane, pubblicò il suo primo romanzo nel 1959: si intitolava The Hustler, e da quello fu tratto un film nel 1961, con Paul Newman protagonista; un altro romanzo, The Man Who Fell to Earth (1963) divenne film con protagonista David Bowie. Il romanzo che ha per protagonista l’incantevole Beth Harmon uscì nel 1983, un solo anno prima della morte del suo autore per un tumore al fegato, e lo si può leggere in italiano nell’edizione minimum fax del 2007: «Alla Methuen Home di Mount Sterling, nel Kentucky, a Beth veniva dato un tranquillante due volte al giorno. A lei come a tutti gli altri bambini, per “regolare il loro umore”. L’umore di Beth era a posto, per quel che si poteva capire, ma lei era contenta di prendere quella pasticchina. Le rilassava lo stomaco e la aiutava ad allontanare col sonno le ore di tensione in orfanotrofio».

 

Tevis forse è stato influenzato da The Lužin Defence (1930, leggibile in traduzione Adelphi), in cui Vladimir Nabokov racconta l’autodistruzione di Curt von Bardeleben, un genio degli scacchi che Nabokov conobbe personalmente prima del suo suicidio (si gettò da una finestra); anche Nabokov parte dal personaggio bambino, ne segue la passione che via via si contorce in ossessione, in allucinazioni, infine in vero e proprio delirio autodistruttivo: «L'unica cosa che sapesse per certo era che giocava a scacchi da tempo immemorabile, e nel buio della sua memoria, come in due specchi che riflettano una candela, c'era solo una prospettiva di luci convergenti con Lužin seduto a una scacchiera, e di nuovo Lužin alla scacchiera, soltanto più piccolo, e poi ancora più piccolo, e così via, un'infinità di volte». Oppure Tevis avrà letto Stefan Zweig e la sua Novella degli scacchi (scritta poco prima di suicidarsi, in Brasile nel 1942)…

 

 

Anche Beth, strafatta di pillole ansiolitiche antenate del Valium che negli anni Sessanta venivano correntemente somministrate ai bambini negli orfanotrofi, visualizza sul soffitto, nella notte, le sue partite di scacchi, giocate di giorno nello scantinato del custode, esperto giocatore, uomo murato vivo in quella istituzione, in totale solitudine. La solitudine, il deserto affettivo di quella bambina, con un padre scappato da una madre troppo intelligente e indipendente nel bigotto dopoguerra americano, si espande dopo il tragico incidente automobilistico con cui si apre su Netflix La regina degli scacchi (2020): quasi subito comprendiamo che la madre ha preparato la figlia a un suicidio di fatto, cercato con uno schianto frontale contro un camion. Sotto choc, quasi muta, Harmon comincia i suoi anni di orfana in un’istituzione statale. L’unico contatto affettivo è con una ragazzona afroamericana un po’ più grande di lei, che scherza con lei, e che le dà la prima dritta per accumulare le pillole quotidiane concentrandole per alcuni trip. L’unica ragione di sopravvivenza di Beth diventano gli scacchi, e l’unico pudico contatto umano con un adulto è quello con il suo primo maestro di scacchi, il custode, ruvido, di poche parole, ma conscio del talento innato di quella ragazzina minuta dai capelli rossi. Walter Tevis raccontava così quel personaggio al “New York Times” il 6 aprile dell’83: «Scrivere fa paura, come giocare a scacchi, e io voglio colpire i lettori così come Beth trema nel terrore della sconfitta». I personaggi di Tevis sono perdenti, solitari, alienati o alieni… «In realtà, considero The Queen's Gambit un tributo alle donne intelligenti. Mi piace Beth per il suo coraggio e la sua intelligenza. In passato, molte donne hanno dovuto nascondere il cervello, oggi non più». 

 

Non più ma il successo prodigioso di questa raffinatissima serie, perfetta in ogni suo aspetto produttivo (scenografie, costumi, musiche, fotografia…), è scaturito proprio dal modello di sofferenza e di riscatto individuale di una bambina sola in un mondo di maschi adulti desolanti e anaffettivi, e di donne alcolizzate se intelligenti, intrappolate in matrimoni-lager.

La relazione più bella della serie è quella tra Beth e la madre adottiva, pianista sacrificata alla schiavitù coniugale che progressivamente scopre, lei pure abbandonata dal marito, che quella ragazzina ha dentro di sé una forza di acciaio, che con i primi successi nei tornei nazionali e internazionali diventerà anche una fonte di guadagni, di benessere, di stile, di vita errabonda in begli alberghi: quando in un dialogo Beth concede alla titubante madre un aumento per le sue “royalties” di agente-genitore, si tocca una delle vette di solidarietà femminile della serie, così come quando, delicatamente, sul sedile posteriore di un taxi, le due si prendono, esitanti e tenere, per mano, saldando un conforto riservato e malinconico.

 


Beth Harmon, interpretata dalla favolosa Anya Taylor-Joy, cresciuta in Argentina e poi divenuta modella a Londra, entra nei favolosi Sixties in impeccabili abiti portati con una grazia sempre squisita, mai erotica. Ha difficoltà a relazionarsi con i giovani uomini che cominciano a innamorarsi di lei, ma via via allunga dietro di sé una scia di devoti che non la lasceranno mai, e che a più riprese, generosamente, cercheranno di impedirle di affondare nel vortice della dipendenza da psicofarmaci e alcol. Ed è proprio questa tribù di giovanotti che la sostiene infine in diretta telefonica quando lei affronta per la sfida letale con la sua bestia nera, l’elegante e enigmatico campione sovietico Borgov, così che, grazie ai case studies da essa compulsati, Beth riuscirà a trionfare su un campione russo, nel gioco nazionale russo, nella Russia sovietica, andando sulle prime pagine dei giornali americani come eroina del genio americano nel tempo della Guerra Fredda.

 

 

I creatori di questa complex tv, Scott Frank e Allan Scott, vengono dalla sceneggiatura cinematografica e il regista Scott Frank riesce in una impresa eccezionale: trasformare il più lento e mentale dei giochi da tavolo in una battaglia di menti, di campi e controcampi, di continue verticali che appassionano come un kolossal sulla battaglia di Waterloo. Gli occhi di cerbiatta di Anya Taylor-Joy più e più volte riempiono lo schermo, inceneriscono l’avversario e innamorano noi che la guardiamo, stupiti che il suo quasi autismo Asperger dell’infanzia maturi con la sua tenacia e con la sua sofferenza, e con la sua capacità di accettare infine l’affetto degli altri, in una maturità di campionessa del look, dell’educazione, della libertà, dell’indipendenza, dell’internazionalità, nella sua splendida giovinezza.

La serie è vietata ai minori di anni 14 fondamentalmente perché si racconta di una minorenne in preda alle droghe, ma appena compiono 14 anni mettete davanti a questo gioiello di narrazione visiva i vostri figli, maschi e femmine, perché apprendano resilienza, eleganza, bellezza, affinando il loro pensiero computazionale nell’iperselettivo cimento degli scacchi, e imparando come si fa scacco al Maschio.

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