Speciale
L’Ecomuseo parla con una App
È una domenica di giugno: mi aggiro per il Villaggio Leumann, fondato alla fine dell’Ottocento nell’area torinese (Collegno) da un imprenditore svizzero, Napoleone Leumann, e divenuto dagli anni Novanta Ecomuseo provinciale. A riprova di quanto l’esperienza operaia così dominante in città e dintorni fino a pochi decenni fa si sia fatta archeologia, o se si preferisce memoria archeologica. È vero, si percepisce una distanza un po’ esotica alla vista degli edifici stile Liberty (diversi in questo dal villaggio Crespi nel bergamasco) dal giallo cromo al beige, dal grigio chiaro allo scuro mentre con gli auricolari in funzione ascolto, grazie alla recentissima LeumApp creata dall’Associazione amici della Scuola di Leumann, la storia del villaggio istituito a ridosso del cotonificio Leumann: come funzionavano la scuola, lo spaccio aziendale, l’ambulatorio, il convitto delle ragazze, il dopolavoro. E foto d’epoca mi raggiungono sullo schermo del tablet…
Provo però emozione, non lo nego (ricordi antichi del borgo Olivetti di Ivrea) perché è come se una comunità si fosse tradotta in spazio, luogo, e ogni casa, su due piani, con i tetti a punta, le sue formelle in ceramica – nel progetto di Pietro Fenoglio – fosse qualcosa di più: una trama, è stato detto, un contesto di sentimenti mai venuti meno, collettivi e solidali. Certo i villaggi operai di origine inglese si diffusero in molte aree del Paese, così le Società di mutuo soccorso (nel Regno di Sardegna dopo lo Statuto albertino del 1848 erano più di 230) rivelandoci un mondo proto-industriale, in particolare a Torino, ricchissimo, con una composizione produttiva e sociale davvero variegata: dall’industria del legno e del mobilio (5000 operai) ai laboratori dolciari (6000 addetti), alla produzione di strumenti musicali (2000), alle concerie di pelli, fabbriche chimiche, per non dire di armi, fabbriche di candele (più di 300 operai)… Lascito dell’antica corte sabauda.

Così diversa dal sapore omologante e monoculturale della One company town targata Fiat che abbiamo conosciuto. Con amministrazioni lungimiranti in quel tempo lontano, non certo chiuse tra le pareti del salotto di nonna Speranza, e che in seguito al trasferimento della capitale da Torino a Firenze nel 1864 attirarono imprenditori italiani e stranieri per costruire nuove fabbriche, promettendo agevolazioni e benefici, per ridare nuovo vigore all’economia torinese. Tra questi proprio gli svizzeri Leumann che vi impiantarono quattro filatoi della seta, due filature, una conceria di pelli, una ferriera per utensili agricoli, varie botteghe arrivando a impiegare circa 900 persone. Intorno, il Villaggio operaio che garantiva maggiore salubrità dell’abitare, servizi e socialità per i lavoratori e maggior controllo su questi da parte della proprietà.
È la scuola (Elementari e Asilo) nella piazzetta del Villaggio, sottoposto a costanti restauri, ad ospitare la presentazione della LeumApp: tanti affollano l’aula, discendenti, i più, dalle famiglie degli antichi abitanti che lavoravano al cotonificio (rimasto attivo peraltro fino ai primi anni Settanta del ‘900). Si coglie, sui volti, la consapevolezza di aver preso parte a un’esperienza straordinaria come documentano le numerose testimonianze raccolte dall’Associazione, tanto più in quest’edificio frequentato dai figli degli operai (anche quelli degli stabilimenti vicini) per un totale di circa duecento allievi, coi libri di testo gratuiti e la presenza di una biblioteca circolante.
Ed ecco, mi avvicino alla palestra: grande importanza veniva attribuita alla ginnastica: – l’App mi istruisce al proposito – scopro che ogni giovedì un insegnante arrivava da Torino per addestrare gli allievi nel cortile che ho di fronte (e scorre in bianco e nero nelle immagini sullo schermo) mentre nell’Asilo ci si atteneva al metodo d’insegnamento frobeliano (ideato da un famoso pedagogista tedesco) che prevedeva anche giochi, attività di giardinaggio, disegni e canti.

Un clima da Nord Europa si respira anche al cospetto della Chiesa, centrale nella disposizione del villaggio: di culto cattolico, intitolata a Santa Elisabetta (dal nome della figlia perduta) a pianta longitudinale con navata unica. Presenta ai lati due cappelle, vetrate e decorazioni interne di gusto liberty realizzate – apprendo – da pittori diretti da Fenoglio stesso. Colpiscono più di tutto i due campanili con riferimenti alle scuole cosiddette carolingie d’oltralpe con la parte terminale decorata da croci in ferro battuto. Perché specifico “di culto cattolico”? È un altro aspetto interessante della storia: Napoleone era protestante ma decise di erigere una chiesa di culto cattolico perché di quella fede erano i suoi dipendenti anche se l’edificio manteneva le forme e il carattere spoglio dei luoghi di culto di tradizione protestante.
Sono immagini certo lontane e un po’ avulse dal paesaggio consueto ma ancora cariche di mondi vitali e memorie comunitarie. Non così, rifletto, è per tante aree dismesse negli anni ‘90 del secolo scorso – area Fiat di via Cigna ed esempio – e per edifici importanti nella storia più recente di Torino come la grande acciaieria Teksid, a lungo rimasta un vuoto industriale, sorta di disegno astratto, muto, che non rimandava ad alcuna forma di vita. O il contiguo ma etimologicamente contraddittorio Vitali Park, punteggiato di tralicci di un colore marrone con le braccia volte al cielo rugginoso – scrivevo qualche tempo fa nei miei appunti –. E dove un imponente complesso progettato di recente nel cuore di Vitali Park dall’archistar Jean-Pierre Buffi, ricalca la sagoma del sottostante capannone industriale in mattoni. Ospita laboratori artigiani, collegati tra loro, all’interno, da ferree scalinate. È tutto un gioco di spot a riquadri rossi e gialli che rispondono alle tessere di vetro e metallo di cui si compone il tetto semitrasparente. Inquieta, devo dire, più che rassicurare, nelle architetture cresciute tra i vuoti, questo ammiccare, senza però riportarle in vita, alle geometrie delle fabbriche dismesse.
Qui ogni forma di memoria, comunitaria o meno, è annientata come se il paesaggio industriale Fiat e indotto, relativamente recente se si pensa al Villaggio Leumann, non la potesse riflettere in alcun modo quella memoria, impigliata nel non sense di geometrie funzionali ora venute meno e poco più.
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