Speciale
Gli Etruschi, il fascino dei non-antenati?
Campi Bisenzio, Firenze. Dibattito in teatro su paesaggio, memoria e sul miracoloso Piano paesaggistico della Toscana. Ma prima, guidati da Sandra Gesualdi, la direttrice del teatro, non si può non visitare, a pochi metri di distanza, il museo archeologico di Gonfienti (dall’età del bronzo all’insediamento etrusco e romano). Mi concentro sull’insediamento etrusco e i suoi reperti, conservati nella magnifica Rocca Strozzi: provengono da una città di impianto ortogonale di età etrusca arcaica (che richiama la struttura di Marzabotto vicino a Bologna) delimitata dal fiume Bisenzio, dalle pendici della Calvana e un tempo anche dal torrente Marinella (di qui il toponimo confluentes da cui deriva anche il nome della cittadina di Gonfienti). L’antica città fu fondata tra il VI e il V secolo a .c. (ignoto il nome etrusco) con un innovativo impianto urbanistico che esercitava funzione di controllo sul territorio e sugli scambi commerciali verso la rotta adriatica e la Grecia seguendo il fitto disegno della presenza etrusca nel centro Nord.
Osservo con l’amica urbanista Anna Marson (autrice del suddetto Piano paesaggistico della Regione Toscana) il tracciato delle fondamenta e soprattutto la ricostruzione di un abitato con il corredo di oggetti d’uso quotidiano emersi dagli scavi. Non si trattava dunque di tombe, quelle di Vulci, Cerveteri, Tarquinia, su cui, nell’infanzia o quasi, si era sbizzarrita la mia fantasia quando ho visitato le necropoli etrusche (con mio zio che lavorava all’Ente Maremma e aveva presieduto, anni prima, agli scavi del re Gustavo VI di Svezia nella zona). Ho di allora il ricordo di tombe doriche scavate nella roccia, di camere mortuarie. Di teste scure con occhi vuoti. Anche perché delle abitazioni costruite in legno, e dunque deperibili, non erano rimaste molte tracce. In ogni caso mi era apparso come mondo a sé quello degli Etruschi che mi aveva attratto forse proprio perché dotato più di altri di una sorta di appassionante indecifrabilità ad alto tasso spirituale ma insieme consegnato alla rozza materia della roccia e delle pietre: discosto, laterale non facilmente riconducibile, anche se in parte autoctono, alle origini “italiche” del nostro Paese.

Il museo di Gonfienti riproduce, oltre la superficie nascosta delle tombe a cui ero abituata, con una attenzione filologica straordinaria, la distribuzione degli spazi interni di una casa, disposti intorno a un cortile, con pozzo laterale, delimitato da un portico. Le sale corrispondono agli ambienti domestici ed espongono in primis pezzi di ceramica attica tra cui la coppa cosiddetta di Douris a figure rosse; nella zona dei banchetti e del simposio trovano posto (quasi a riprodurre le stratigrafie degli scavi) il vasellame in bucchero di uso quotidiano, bacili, piccoli piatti, olle, brocche e nell’area dedicata ai riti e alle cerimonie grandi bacili per il vino e tazze-attingitoio con decorazioni stilizzate a figura umana o vegetale.
Ma lo spettacolo inaspettato è sicuramente la ricostruzione di una porzione di tetto del portico del grande edificio (oltre 1400 mq) emerso nel corso degli scavi. Un tetto a due spioventi con tegole e coppi, con anche coppi di colmo nella parte centrale e coppi chiusi con antefissa a palmetta affacciati sul cortile. Tra queste una testa femminile come motivo ornamentale… E tutti a riconoscere quasi con sorpresa le stesse tipologie dei tetti ancora in uso negli edifici della Toscana!

Così questo museo che parla di case, cortili, tetti, mi ha riportato a quell’esperienza ibrida, rimasta forte in me, degli scavi a Tarquinia cui ho partecipato da più grande, anni del liceo, organizzati dai Gruppi archeologici romani e dove il loco tombale in cui operavo con la sua misteriosa aura spirituale, sembrava convivere senza alcuno stridore con i pezzetti di buccheri e anche di ossa, frammenti di ceramiche in terracotta chiara, di età romana, di uso quotidiano, tutti mescolati alla terra che eravamo intenti a setacciare.
Tracce di oggetti domestici e di coppi del tetto “toscano”: certo risuonano in me gli accenti profondi dell’Ecomemoria a cui mi dedico (e che si legge a vista nei secoli) ma c’era qualcosa di più in quel ritrovarsi faccia a faccia con il mondo etrusco reso quasi domestico (certo in linea con Marzabotto) nei ritrovamenti di Gonfienti.
Tra gli oggetti del museo ciò che riappariva, in conformità con i miei scavi del liceo, era una visione meno ctonia, del mondo degli Etruschi. Dove vita e morte, così come nei frammenti (i cocci) che mi ero trovata fra le mani, non erano disgiunte. Lo indicavano anche le scene delle tombe dipinte di Tarquinia con i viventi a banchetto e il defunto ritratto nello stesso atto del banchettare mentre riceve il vino dagli schiavi nei buccheri neri (propri del corredo di ogni casa) e le ghirlande gioiose offerte da una donna.

È così che mi viene in mente il libro di D. H. Lawrence, Luoghi etruschi (Neri Pozza 2022) acquistato di recente e al ritorno di questa inaspettata immersione tra gli Etruschi lo divoro. Tra quelle pagine, in una sorta di visione /danza intorno alle immagini del mondo etrusco colte dallo scrittore inglese nei lontani anni Venti del ‘900 è come se ritrovassi il senso dell’attrazione provata fin da piccola al contatto con il mondo etrusco: quell’accostarsi a loro da una linea laterale, fuori dall’asse del continuum greco romano e della classicità come ci è pervenuta. Da un tempo della storia così inconsueto in cui, nelle parole immaginifiche di Lawrence, vita umana e natura sembrano potenziarsi a vicenda, assecondando un flusso sanguigno ininterrotto – anche al di là della morte – in stretto contatto fisico con i misteri, definibili, come fa Lawrence, nient’altro che sentimenti e stupori: quegli stessi, suggerisce, che guidano il tuffatore, ancora vivo e splendente, a immergersi con naturalezza nell’aldilà del mare così come è ritratto nelle tombe etrusche. È una religione dell’intimo, quella etrusca, sempre in bilico fra fuoco e acqua, nella lettura di Lawrence, in cui l’uomo attinge la sua libertà dalla natura mediante quegli stessi simboli che ritrova dentro di sé e “che gli consentiranno di farvi ritorno in sapienza e sorriso”.
Un mondo capace di attingere la vita “da profondità’ che a noi però oggi sono negate” – ho trovato attuali le riflessioni di Lawrence su cui meditare – destinato a perdersi nel corso di quel divenire forzato dell’Occidente che parla un’altra lingua. Certo nella cesura del rapporto fra l’uomo e una natura progressivamente subordinata a sé ma anche con la vittoria schiacciante di chi è vivo sui morti che nel nostro mondo sono privi di voce, radicalmente separati oltreché muti, non rappresentabili, rimossi.
Divenire, progresso, potremmo aggiungere “modernità”: questo excursus un po’ legato forse alle ansie che provo nell’oggi, fa sentire il vuoto, il venir meno di quel gioco di correnti complici e naturali (ne parla anche il poeta Cardarelli) proprio di una sapienza ctonia, come quella etrusca, ma insieme vitale, vitalissima che a noi è precluso, forse per sempre.
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