Lingua, critica e antropologia

3 Gennaio 2014

Può sembrare strano che vi sia una relazione tra critica letteraria e antropologia. La critica letteraria si occupa di un’attività umana molto particolare, a cui si applica con una certa difficoltà il criterio della razionalità strumentale: faccio questa cosa per ottenere questo fine. Anzitutto perché non è possibile definire in modo univoco l’attività stessa, il che cosa è la letteratura. In secondo luogo non è immediatamente chiaro a cosa serva. In realtà le risposte a queste domande sono state molte e talora in contraddizione le une con le altre.

 

L’antropologia invece si occupa di una questione di estrema rilevanza, nella quale ne va dell’identità stessa dell’uomo, vale a dire la questione della relazione tra corpo e mente.
La letteratura produce, secondo Platone, mondi finti, popolati da uomini che compiono azioni che non esistono nella realtà anche se assomigliano al mondo e agli uomini veri, l’antropologia studia il funzionamento dei corpi e delle menti degli uomini veri.

 

Per capire il nesso che lega questi due ambiti di studio bisogna considerare la novità di una ricerca sull’uomo libera da ipoteche religiose e metafisiche, interessata a capire le sue caratteristiche attraverso l’osservazione empirica dei suoi comportamenti e utilizzando i metodi delle scienze per generalizzare i risultati acquisiti.

 

Quest’ottica nuova, che per la prima volta esplora per conoscere ciò che non si conosce anziché confermare verità già fissate a priori, consente di rappresentare il funzionamento reale della sfera sensibile – percezioni, sentimenti, passioni – e di quella intellettiva – esercizio della razionalità per produrre concetti e leggi universali. E la scoperta più interessante e anche più inquietante è che l’essenza dell’uomo non è costituita dall’armonico concorso delle sue facoltà sensibili e intellettive ma da un fondamento tendenzialmente aporetico in cui domina la discordia e la contraddizione.

 

E la letteratura? La letteratura si occupa soprattutto di “persone che agiscono” (Aristotele), il suo compito è quindi di decidere che tipo di persone scegliere e che azioni far compiere ad esse. Ed è su questo piano che si gioca la differenza tra i mondi storici e le loro espressioni letterarie. Nell’età dell’antropologia, cioè nel XVIII secolo, i personaggi delle narrazioni e dei drammi sono figure che tendono ad assumere su di sé il fondamento aporetico di cui sopra, vale a dire la contraddizione tra le loro inclinazioni sensibili e la loro identità intellettuale. Sono persone quasi sempre non sicure della loro identità morale. E le azioni che compiono riflettono questa incertezza e questa contraddizione. Ma non solo: nell’età dell’affermazione dell’antropologia anche il passato e la sua traduzione mitopoietica assumono nuovi significati. La mitologia, ad esempio, non è più soltanto un repertorio di figure e narrazioni da usare nel gioco delle combinazioni e dei riusi che le diverse epoche, a cominciare da quella greca, hanno espresso. La mitologia viene intesa come espressione di un bisogno originario dell’uomo di rappresentare figurativamente e narrativamente i grandi quesiti intorno alla sua esistenza e collocazione nel cosmo. Mitologia quindi come discorso intorno all’origine dell’uomo, non diversamente dallo studio sull’origine della lingua.

 

Un fatto interessante, che accadrà in Germania nella seconda metà del Settecento, sarà l’istituirsi di una relazione del tutto nuova e inattesa tra antropologia e critica letteraria: se l’uomo è un’entità complessa e dimidiata, anche la sua raffigurazione letteraria dovrà fare i conti con questa sua caratteristica. Ne conseguirà che una letteratura di questo tipo non potrà più riconoscersi nei modi tradizionali di idealizzazione dei personaggi e delle loro azioni (si pensi agli eroi omerici) impiegati dalle letterature antiche greca e latina e dai suoi molteplici imitatori. Anche dal punto di vista formale la perfetta compiutezza dell’azione, prescritta da Aristotele nella Poetica, traduceva in termini strutturali gli esiti dell’elevazione ideale dell’Azione (cioè della “composizione dei fatti”). Ora, le nuove scritture della Modernità, per esempio il romanzo o il dramma cosiddetto borghese (altrimenti detto con palese ossimoro “commedia seria”) non si riconoscevano più nelle scelte formali che la tradizione letteraria di derivazione classica aveva adottato. Di qui la sperimentazione di nuove forme compositive e di nuovi modi di costruzione della narrazione.

 

Da queste sperimentazioni innovative derivò un cambiamento anche dei criteri di interpretazione e di valutazione dell’opera letteraria: in una parola della critica letteraria. E l’ibridazione di antropologia e letteratura ha dato origine a una nuova disciplina, ancora poco studiata in Italia, l’‘antropologia letteraria’.

 

In questo capitolo analizzeremo le origini di questa disciplina e come tra la questione dell’origine, intesa fondamentalmente come origine dell’umano, e l’idea di una letteratura che fa i conti con le specificità dell’uomo esista un nesso assai stretto. L’obiettivo è qui di tracciare una mappatura, sia pure incompiuta e fatalmente provvisoria, di questa connessione.

 

Johann Gottfried Herder e Karl Philipp Moritz rappresentano da questo punto di vista due esponenti fondamentali di un pensiero sull’origine della capacità mitopietica dell’uomo che si iscrive in un processo di complessa e, come vedremo, contraddittoria secolarizzazione di questioni, tradizionalmente accolte negli edifici sistematici della teologia, delle filosofie e delle poetiche.
“The proper study of mankind is Man” diceva Alexander Pope nel suo Essay on Man (1734): un’affermazione in cui lo sguardo genealogico, l’interrogazione sull’origine e sulla storia dell’uomo si identifica con la determinazione finita, con la psicologia e la fisiologia del singolo uomo, con il suo modo di relazionarsi con il mondo.

 

Nella Germania del secondo Settecento questa affermazione di Pope può essere assunta come emblema di una transizione che segna il passaggio dalle cosiddette Schulphilosophien, quella di Christian Wolff in particolare, che le vulgate storiografiche presentano come “il più eminente filosofo tedesco tra Leibniz e Kant”, e la nascita dell’idealismo e del protoromanticismo di Jena.

 

Ma tra Wolff e Kant il cammino è assai più lungo e ramificato di quanto non faccia supporre il breve tempo che li separa. La tentazione di collocare questo tratto di strada dell’Illluminismo tedesco sotto il segno dell’antropologia è forte: ne forniscono l’occasione il Kant precritico, e questo è forse l’aspetto più noto, ma anche e soprattutto le nuove discipline che disegnano una scienza empirica dell’uomo, le cui sedi non sono le accademie ma una molteplicità di fori di discussione e di elaborazione di pensiero che la storiografia filosofica ha rubricato sotto l’etichetta di Popularphilosophien.

 

A uno sguardo più ravvicinato si coglie con sufficiente chiarezza un campo di tensione dialettica fra due estremi, che per semplicità possiamo chiamare ‘materialismo’ e ‘teodicea’. Da un lato la ricezione delle dottrine francesi tra sensismo e materialismo – Condillac, La Mettrie, Helvetius, d’Holbach ma anche e soprattutto del ginevrino Charles Bonnet –, dall’altra quella coazione quasi ossessiva a pensare il mondo in termini di armonia universale, ancorché dissimulata nella multiforme congerie degli eventi empirici, prima della resa finale a quella che Max Weber ha chiamato la Entzauberung der Welt, il disincanto del mondo, e che Leo Spitzer, in sintonia con Novalis, ha definito la decristianizzazione dell’Europa moderna.

 

E tra questi due poli la presenza magnetica e insieme contraddittoria del pensiero di Rousseau, nei cui confronti Herder avanza riserve, pur subendone, come molti della sua generazione, una profonda e pervasiva influenza.

 

Matematica, dimostrazione, deduzione erano i fondamenti dell’imponente edificio filosofico in cui Christian Wollf ha dato sistemazione compiuta e definitiva al pensiero leibniziano e con esso a una rappresentazione dell’uomo come essere razionale, la cui natura si iscrive nel disegno metafisico di un universo regolato dalla volontà divina: non c’è una verità di fatto al di fuori della verità di ragione e il rapporto tra anima e corpo è regolato a priori dalla volontà razionale di Dio.

 

Da qui alla conclusione che tutto ciò che è proprio dell’uomo, ivi inclusa la sua facoltà di relazionarsi mediante la lingua ai suoi simili, sia riconducibile al disegno armonico dell’universo il passo è non solo breve ma necessariamente deducibile dalle premesse metafisiche del suo pensiero.

 

Quando Herder nel 1769, lasciando Riga, decide di partecipare al concorso indetto in quell’anno dall’Accademia delle Scienze di Berlino, che presentava ai candidati il tema dell’origine naturale del linguaggio, chiedendo ad essi di fornire un’ipotesi che spieghi “attraverso quali mezzi” gli uomini sono giunti all’invenzione della lingua, la sfida si presentava sotto un duplice aspetto: da un lato si trattava di fare i conti con le ipotesi francesi, in primo luogo quella di Condillac, condivisa da Rousseau, basata sulla natura sensitiva dell’uomo, quella che lo accomuna agli animali, dall’altro con l’ipotesi metafisica che dichiara l’origine divina della lingua, quella sostenuta autorevolmente da Johann Peter Süssmilch in un saggio del 1756 allora assai noto.

 

Origine naturale, dunque, o origine divina? La risposta di Herder, da un punto di vista strettamente argomentativo, si presenta come una sorta di compromesso tra le due ipotesi antitetiche ricordate prima. Lingua e pensiero si implicano a vicenda, ossia non si dà lingua senza pensiero né pensiero senza lingua – questa è anche la tesi di Süssmilch, come lo fu molti secoli prima di Agostino nel De Magistro – ma il pensiero, e quindi anche la lingua, sono iscritti nella natura dell’uomo, che partecipa della natura animale sotto il profilo della sensibilità ma si differenzia da esso per le modalità di elaborazione dei contenuti della percezione empirica.

 

L’aspetto che qui interessa non è capire quanto la tesi di Herder sia originale, se liquidi o meno un’ipotesi metafisica circa l’origine del linguaggio o se faccia proprie le posizioni di Condillac o di Rousseau, quanto piuttosto la peculiare relazione che egli stabilisce tra natura e linguaggio. La chiave del suo saggio e insieme la risposta al quesito dell’accademia berlinese – “Abbandonati alle loro capacità naturali, gli esseri umani hanno potuto inventarsi il linguaggio?” – sta già tutta nell’incipit: “già in quanto animale l’uomo ha un linguaggio”. Un incipit che deve essere letto in stretta relazione con l’esergo ciceroniano: “Vocabula sunt notae rerum”. Dunque origine naturale, nel senso di ‘animale’ e nello stesso tempo capacità simbolica (“Itaque hoc idem Aristoteles symbolon appellat, quod latine est nota”, afferma sempre Cicerone).

 

L’uomo ha dunque in comune con gli animali dotati di organi di fonazione l’istintiva reazione vocale agli stimoli emotivi del mondo. Ma, a differenza di tutti gli altri animali, questa risposta si articola in una varietà molto più estesa di reazioni possibili. Tale varietà è dipendente dalla ricchezza di esperienze del mondo che è propria dell’uomo. Mentre gli altri animali, anche quelli delle specie più evolute, hanno un raggio esperienziale limitato, l’uomo, paradossalmente, in virtù della sua ‘fragilità sensoriale’, deve entrare in relazione con una molteplicità di situazioni ambientali, che all’animale è sconosciuta. Da qui nasce l’esigenza di nominare gli oggetti della sua percezione per poterli ordinare: “stiamo discutendo – dice Herder – della genesi intrinseca e necessaria di una parola, intesa come contrassegno di una lucida coscienza…”. La parola ha dunque un carattere ‘necessario’: è questo l’aspetto forse più rilevante dell’argomentazione herderiana.

 

La parola è necessaria sotto un duplice aspetto: è l’espressione di un’urgenza emotiva attivata dall’esterno, in modo non dissimile dal verso emesso da un animale, ma è anche il solo modo che l’uomo ha di governare selettivamente la complessità della sua vita di relazione. Se l’uomo non identificasse le cose che vede e ascolta (l’udito è per Herder il senso primario della nominazione), se non le marcasse singolarmente con l’emissione di un suono specifico strettamente connesso con una rappresentazione mentale, egli sarebbe sopraffatto dalla natura.
Ma si può ancora parlare di necessità naturale, considerato il ruolo che l’intelletto gioca in questa vicenda?
Diamo la parola a Herder:

 

posto nello stato di sensatezza (Besonnenheit) che gli è proprio e tale sensatezza (riflessione) per la prima volta operando liberamente, l’uomo inventò il linguaggio. Infatti, che cos’è la riflessione e che cos’è il linguaggio? (...) Questa sensatezza è un carattere peculiare dell’uomo, essenziale al suo genere: altrettanto lo sono il linguaggio e l’invenzione personale del linguaggio.

 

E poco oltre:

 

ecco inventato il linguaggio, e inventato in una maniera altrettanto naturale e necessaria all’uomo quanto il suo essere uomo”.

 

Herder ritiene dunque che la ‘passività’ dell’espressione emotiva immediata e l’‘attività’ dell’esercizio analitico della ragione siano entrambi la manifestazione della natura dell’uomo, di una natura che diviene e si trasforma mediante l’esperienza del mondo.

 

La conclusione di questo ragionamento è che l’esercizio della razionalità, la facoltà di pensiero, che si manifesta verso l’esterno attraverso la parola proferita, scaturisce da un’esigenza naturale: pensare e sentire non sono in opposizione tra loro ma due momenti strettamente connessi. Una tesi che avrà importanti effetti sulla concezione herderiana della poesia e della mitologia situate nello stesso orizzonte razional-percettivo.
Con questo ragionamento pare dunque confutata definitivamente l’ipotesi di Süssmilch e di coloro che affermavano l’origine divina della lingua. Ma si tratta davvero di una confutazione della spiegazione religiosa?

 

Sicuramente la posizione di Herder appariva tale dal punto di vista dei deduzionisti puri, ossia dei fautori di una metafisica che si riconosceva nella tradizione, che da Aristotele, attraverso San Tommaso, arrivava fino a Wolff, secondo la quale natura e ragione sono ontologicamente separate.
Al contrario, dal punto di vista di un panteismo di ispirazione spinoziana, vale a dire da una prospettiva monistica, lingua, pensiero, ragione possono essere intese come profondamente radicate in quella stessa natura di cui partecipano l’uomo, gli animali e tutto ciò che esiste al mondo. Se il divino è nel mondo stesso, physis, aisthesis e logos costituiscono nell’uomo un’unità inscindibile.

 

Sull’influenza di Spinoza sul pensiero di Herder sono state scritte pagine autorevoli e persuasive e non mi diffonderò quindi su questo argomento.
Questa filigrana spinoziana del suo saggio consente ora di capire la duplicità a cui si accennava prima e che per semplificare abbiamo chiamato ‘materialismo’ e ‘teodicea’.
E, al di là di Herder, ma certamente anche sotto la sua influenza, spiega perché l’antropologia letteraria dei romanzi di formazione – penso all’Anton Reiser di Moritz ma anche, sia pure in modo più cifrato, al Wilhelm Meister goethiano – sia in bilico tra una sofferenza rassegnata alla disarmonia del mondo e l’utopia di un disegno armonico dell’universo in cui la dissonanza del singolo uomo trova la sua compiuta risoluzione.

 

Vedremo fra breve come questa dicotomia dell’illuminismo troverà nell’antropologia letteraria una sua declinazione particolare: all’ottimismo metafisico di una ragione che separa, unisce e dispone le singole tessere della vita nel grande puzzle metafisico di un’eterna armonia celeste si contrappone la ‘malinconia’ come disunione, inazione, dissonanza, taedium vitae, oscurità, desperatio dei. Non a caso la patografia moritziana dell’anima malata di Reiser è il tratto visibile di quella Verwirrung der Seele che nel Meister goethiano porta alla rassegnata eterodirezione della vita, che si piega a una ratio, che all’eroe protagonista rimarrà fatalmente estranea e incomprensibile.

 

Ma torniamo ancora per un momento al saggio herderiano e al tema della genesi della parola.
L’apprendimento del linguaggio è un processo in cui si mediano di continuo, come abbiamo visto, intelletto e sensibilità, conoscenza e passione. Tale processo si iscrive nell’orizzonte antropologico più generale della Menschwerdung des Menschen, vale a dire l’essere uomo non come condizione data, e ancor meno come un rousseauiano stato edenico originario, ma come conquista di una finale compiutezza. Dall’animale all’uomo, dai “gridi della sensazione” all’uso consapevole della parola per nominare l’oggetto percepito si dà una progressione in cui si rispecchia la formazione dell’uomo a prescindere dalle epoche storiche del corso dell’umanità. E quando la formazione è compiuta nell’uomo, scrive Herder,

 

tutto si bilancia, tutto si risparmia e reintegra, tutto è disposto e ripartito a ragion veduta. Una coerente unità, un ordine armonioso, un insieme, un sistema: una creatura dotata di sensatezza e linguaggio, di coscienza e di creatività linguistica.

 

Il lascito maggiore del saggio di Herder sull’origine del linguaggio sta, a nostro avviso, proprio in questa utopia della compiutezza dell’umano, che diventa una sorta di paradigma a cui attingeranno tutti coloro a cui starà a cuore la dimostrazione di come l’essere dell’uomo debba coincidere con il suo ‘dover essere’.
Uno degli esiti più interessanti di questa fenomenologia della Vollendung des Menschen è rappresentato dal romanzo di formazione, la cui missione è di dare una risposta alla domanda centrale dell’antropologia settecentesca: chi è l’uomo e che uomo sono io? Rappresentare la formazione di una “vita in forma di libro”, ossia narrandone la storia, è il modo in cui, per usare le parole di Karl Philipp Moritz, “i fili spezzati si riannodano nuovamente, ciò che era confuso e intricato si riordina (…) e la dissonanza, quasi inavvertitamente, si trasforma in melodiosa armonia”.

 

Dalla filosofia del linguaggio herderiana a quella che Thomas Saine ha chiamato la “teodicea estetica” di Moritz si compie un passaggio che mette tuttavia a nudo l’ambiguità costitutiva che inerisce alla scommessa di sposare l’antropologia con l’estetica (intesa come scienza della percezione sensibile e delle sue rappresentazioni): la scienza dell’uomo, per quanto progredita sul piano sperimentale e per quanto si sia affrancata dalle ipoteche del razionalismo wolffiano, fatica ancora a liberarsi dall’ottimismo metafisico del “migliore dei mondi possibili”.

 

Il caso Moritz, peraltro, è interessante soprattutto se consideriamo quella singolare intrapresa editoriale, a cui l’autore dell’Anton Reiser darà vita nel 1783, che è «Gnothi Sauton oder Magazin zur Erfahrungsseelenkunde», titolo che potremmo tradurre con «Rivista di psicologia empirica».
Rivolgendosi ai suoi futuri lettori, nell’annuncio programmatico del 1792 sulla «Vossische Zeitung», Moritz dichiara che il suo scopo sarà quello di pubblicare soprattutto testimonianze biografiche e autobiografiche ed esorta i suoi futuri lettori a sottoporgli “facta”, fatti realmente accaduti, vicende di cui loro stessi sono stati protagonisti o testimoni, purché siano “osservatori scrupolosi”, attenti ai particolari minimi e si astengano dalle generalizzazioni teoriche.

 

Ma di quali fatti si tratta? Scorrendo le pagine della rivista si incontra un’impressionante varietà di storie private la cui radice comune è a vario titolo la patologia mentale o, per usare la dizione più frequente in Moritz, la “malattia dell’anima”. Malattie minime e degenerazioni profonde e irreversibili, piccole anomalie comportamentali – ad esempio stati ipnotici, fenomeni di sonnambulismo, allucinazioni, premonizioni – e comportamenti criminali: gesti collerici, omicidi, infanticidi, o comportamenti autodistruttivi, suicidi.

 

A ben vedere, le cause patologiche più frequenti ci mettono dinanzi un quadro in cui domina quella che Hans-Jürgen Schings e Wolf Lepenies hanno visto come la malattia egemone della Germania del XVIII secolo – la malinconia – con tutto il ventaglio delle sue varianti: ipocondria, isteria, spleen, acedia, noia, misantropia, mestizia, inanità, esaltazione, Weltschmerz.

 

Se osserviamo la scena letteraria tedesca di questo periodo – siamo nell’ultimo quarto di secolo del Settecento – e in particolare ciò che accade sul versante del romanzo, ci accorgiamo che la figura dell’entusiasta malinconico nelle sue più diverse declinazioni è la figura dominante, e non solo nel romanzo di formazione.

 

È come se intorno a questo emblema della dissonanza dell’uomo rispetto al disegno armonico dell’universo si fosse raccolto tutto lo spettro delle dissociazioni fra l’agire e il pensare, fra la vita reale e quella immaginata, fra la Lebenswelt e i mondi possibili che la patologia mentale costruisce come realtà sostitutive a quella della propria determinazione storica per sfuggire alla sofferenza della vita.
Ormai l’ipoteca metafisica, che dominava il Versuch über den Roman di Friedrich von Blanckenburg, il manifesto teorico del romanzo di formazione pubblicato nel 1774, sembra archiviata o relegata in una dimensione non più esplorabile con gli strumenti della ragione. E forse nemmeno più accessibile a quell’intuizione a cui spettava il compito di illuminare la connessione tra la vita del singolo e la totalità dell’universo.

 

Molti indizi inducono a credere che il Moritz psicologo sperimentale, forse a dispetto delle sue stesse intenzioni, abbia aperto una strada che porta in una direzione assai lontana rispetto alle premesse gnoseologiche della sua teoria estetica. L’Anton Reiser, il romanzo che ostinatamente non trova un finale, in cui Bildung e psicologia si oppongono senza potersi conciliare, è forse la prova più evidente del fondamento aporetico del suo pensiero. Un’aporia estesa, che contagia soprattutto quelle zone di confine del pensiero filosofico settecentesco che si misurano con le acquisizioni della psicologia sperimentale, con la medicina e la fisiologia e che troveranno rappresentazione in quel tentativo ante litteram di fondazione di una mitologia moderna che sono i romanzi in chiave biografica o autobiografica.

 

L’impossibilità della Bildung è la prova che tra l’essere dell’uomo e il suo dover essere si è aperta una frattura che nessuna metafisica riuscirà a comporre. Eppure l’ostinazione con cui Moritz si adopera, sia negli articoli che pubblicherà sulla sua rivista, sia nei saggi dello stesso periodo, ad esempio i Beiträge zur Philosophie des Lebens e la Kinderlogik, a risolvere l’‘anomalia’ dell’uomo mediante un ricorso alla sua storia individuale, ricostruendo le vicende della sua vita a partire dall’infanzia, dalle prime parole e rappresentazioni del mondo, è la prova di un pensiero che vede nell’origine, sia in quella del singolo uomo, sia in quella dell’umanità, la possibilità di leggere in nuce un futuro, un percorso necessario e coerente, un destino.

 

Da ultimo occorre soffermarsi sull’apporto di Herder alle generazioni impegnate a liquidare l’eredità del classicismo europeo e a ripensare le ragioni della poesia moderna a partire da una revisione radicale dell’eredità dell’antico.
Si tratta precisamente del punto in cui la filosofia del linguaggio di Herder incrocia la sua riflessione sulla mitologia degli antichi e si apre all’ipotesi di una mitologia moderna.
Mi limiterò a evidenziare alcuni passaggi del discorso herderiano che trovano una singolare risonanza una decina di anni più tardi nell’importante studio di Moritz dedicato alla mitologia antica sotto il titolo di Götterlehre oder Mythologischen Dichtungen der Alten (Dottrina degli dei ovvero le poesie mitologiche degli Antichi).

 

La mitologia, al pari della lingua, attinge alle origini dell’umanità e la sua genesi non è l’arbitraria invenzione di uomini inclini a fantasie fini a se stesse, ma una forma di conoscenza e di appropriazione del mondo. In un testo rimasto inedito, nel Fragment einer Abhandlung über die Mythologie, besonders über die indische (Frammento di un trattato sulla mitologia, in particolare su quella indiana) Herder dichiara:

 

È una prospettiva un po’ troppo angusta, a me pare, se si considerano le mitologie dei popoli come mera idolatria, come traviamenti della ragione umana, ovvero come una miserevole e cieca superstizione. Perché, sebbene esse lo siano state e lo sono ancora presso la gran parte dei popoli della terra, e quasi presso ogni classe, e debbano essere considerate tali dallo studioso di religioni, tuttavia al filosofo dell’umanità è riservata una visione diversa e più sottile. Egli le considera infatti attività della ragione (Vernunft) umana anche sul cammino dei suoi traviamenti, come i primi infantili tentativi di ordinare le cose intorno a sé in idee o immagini, di rappresentarsi lo spirito di ciò che è e di ciò che accade, di esprimere le emozioni che esse provocano e quindi non solo di fissare questo piccolo tesoro di astrazioni umane tramite costumi, canti, narrazioni, ma di raccomandarlo anche ai posteri.

 

Herder assegna dunque alla mitologia una qualità esplicitamente gnoseologica: la facoltà mitopoietica dell’uomo è la sua facoltà conoscitiva originaria e l’infanzia dell’umanità viene così a coincidere con l’infanzia come età della vita dell’uomo.
Anche secondo Moritz “le poesie mitologiche devono essere considerate come una lingua della fantasia”, la “cui essenza è di dare forma”.

 

(…) Il fatto che nelle poesie mitologiche si celi contemporaneamente una traccia segreta della storia più remota, ormai andata perduta, conferisce ad esse un’autorevolezza maggiore, perché non sono una mera fantasia o un mero gioco dello spirito, che si disperde nell’aria ma, in virtù della loro connessione con gli accadimenti più originari, acquistano una rilevanza tale da impedire la loro trasformazione in semplici allegorie.

 

Proviamo ora a tirare le fila di queste osservazioni. Abbiamo visto come una connessione stretta unisca le riflessioni settecentesche intorno all’origine di ciò che caratterizza l’uomo, le sue facoltà sensibili e intellettive con il rinnovamento dell’idea di letteratura. L’anello che unisce questi due ambiti tradizionalmente separati è l’indagine sui fondamenti e sull’origine della mitologia. In Herder filosofia del linguaggio e mitografia sono momenti complementari di un discorso sulla natura dell’uomo affrancato dalle ipoteche metafisiche tradizionali, dal dualismo mente e corpo, res cogitans e res extensa. Il suo lessico filosofico è ispirato a Spinoza e ancora più profondamente, come ha rilevato Dilthey, alla tradizione del neoplatonismo rinascimentale, al panteismo di Giordano Bruno e alla sua ripresa in Shaftesbury, la cui influenza su Herder, Goethe, Schelling, Friedrich Schlegel e Schleiermacher, per quanto già rilevata da Dilthey e Cassirer, meriterebbe ulteriori approfondimenti.

 

Anche in Moritz la natura dell’uomo partecipa della stessa idea di “organismo vivente” in cui si ricompone la scissione tra res cogitans e res extensa. Anche per lui esiste una Urkraft, una ‘forza originaria’ che si manifesta in ogni singolo punto dell’universo, come in ogni singolo momento della vita individuale. Solo che questa fiducia nell’origine divina e nella connessione universale di tutte le cose incontra sulla sua strada il potere demoniaco della disgregazione, della frantumazione delle coscienze, della malattia dell’anima. La sua psicologia sperimentale gli fornisce un teatro della dissoluzione e della disarmonia dinanzi al quale l’ottimismo della ragione vacilla.

 

Il romanzo della vita diventa allora un “romanzo psicologico” dall’epilogo impossibile, opera aperta, indecidibile, sospesa fra sogno e realtà. Anton Reiser, l’eroe che sogna il suo riscatto improbabile sul palcoscenico di una compagnia teatrale di giro è l’emblema di un mondo che ha ormai preso congedo da Dio ma che, forse proprio perciò, si ostina a cercarlo.

 

Nei capitoli che seguono vedremo come questa ricerca ostinata prenda le mosse da una diagnosi del poetico di natura filosofico-storica a fronte di una Modernità vissuta come età della lacerazione, della mancanza e della nostalgia per l’Antichità come età della compiutezza e della perfezione perdute.
Alla generazione di giovani studiosi ed eruditi del cosiddetto romanticismo di Jena, quella che nel 1798 diede vita alla rivista «Athenaeum», si deve il passo decisivo verso una costruzione del futuro della Modernità e quindi dell’inversione dell’utopia: dal lontano passato della classicità a un futuro ancora in larga parte inconoscibile, ma che per lo meno concedeva l’illusione di poterlo progettare e costruire a propria misura.

 

Questo rovesciamento di prospettiva utopica, che ha segnato in profondità l’immagine della Modernità, ha richiesto tuttavia una dose massiccia di nuovo incantamento del mondo (Entzauberung der Welt) sotto la forma di un misticismo estetico, di cui Friedrich Schlegel, Friedrich Schleiermacher e Novalis furono i massimi rappresentanti.
La stagione dell’antropologia e della scienza dell’uomo secolarizzata fu neutralizzata dall’avvento dell’idealismo e dal reincantamento romantico. Così l’età del disincanto definitivo venne allontanata di molti decenni.

 

Questo saggio è un estratto da Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria (Mimesis) da pochi giorni in libreria

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