L’Italia e l’intelligenza del mare
C’è un Mediterraneo che abbiamo ormai dimenticato.
Alla fine del secolo scorso lo sognavamo e lo cercavamo in tanti. Era anche un luogo un po’ ingenuo ovviamente: quello dei tramonti, delle case bianche di calce, della bellezza antica delle sue scogliere. Ma era anche e soprattutto il Mediterraneo di un sogno politico. Negli anni Novanta sembrava davvero che quel piccolo mare fosse al centro del mondo: ne parlavano con entusiasmo ministri e diplomatici e rilanciavano economisti e sociologi con riflessioni decisamente ottimistiche. Persino l’Unione Europea, a cui allora credevamo un po’ tutti, sembrava pronta per proiettarsi a sud. Parternariato, fu la parola d’ordine della Conferenza di Barcellona nel 1995: un rapporto, un reciproco scambio economico e culturale da costruire con i paesi delle altre rive mediterranee. E tutto questo con ricadute entusiasmanti: dalle università dove spuntavano i primi corsi sul Mediterraneo, sino alle piazze della Penisola dove si moltiplicavano le “feste dei popoli”, quelle dove senza troppe preoccupazioni filologiche si mangiava cous cous, ballando la pizzica e ascoltando musica balcanica.
Lo ricordo bene quel momento: per chi come me si affacciava in quegli anni allo studio della storia quell’idea di Mediterraneo sembrava una scommessa strepitosa: la dimensione ideale per abbandonare finalmente le limitate dimensioni dello stato nazione e cercare radici comuni molto più ampie, fatte di mescolanze di uomini e donne, dell’incontro di lingue, conoscenze e beni materiali. Qualcuno ci volle vedere una storia irenica, la storia di un improbabile e assurdo Mediterraneo dove tutti si erano voluti bene. Per molti bastò pensare a una storia segnata dalle connessioni e dagli scambi, senza dimenticare però la violenza e le guerre (che alla fine dei conti sono uno dei modi più consueti e orribili di scambio).
Naturalmente da storici lo sapevamo che anche quel Mediterraneo sognato da tutti era un’invenzione. Peraltro abbastanza recente.
Fu solo un paio di secoli fa, infatti, che il nostro mare cominciò a diventare ciò che non era mai stato prima. Per secoli, forse da sempre, le coste non erano state luoghi molto frequentati. I porti, certo, facevano eccezione. Ma il mare, la riva, era qualcosa da cui tendenzialmente si preferiva rifuggire: luogo di pirati e ancora di più di malattie, come la malaria. La gente di mare, i marinai, era spesso vista come diversa, strana, dotata di un linguaggio a parte, incomprensibile all’umanità di terra. Si poteva governarlo, il mare, si poteva percorrerlo e sfruttarlo, ma fondarci la propria appartenenza, questo forse era un po’ troppo. Era la terra la patria: il mare, al più, la circondava.
Poi nel Settecento le cose cominciarono a cambiare. Per tanti motivi, per una nuova sensibilità borghese, per un mutato senso della natura, i viaggi. C’era già un po’ in illuministi come Diderot o Buffon, l’idea che “mediterraneo” indicasse l’appartenenza a un luogo specifico, a un’unità geografica. Ed erano sempre di più coloro che ritenevano che questa unità fosse legata anche e soprattutto al clima. Clima in senso greco: un’idea di regione definita dalle stesse caratteristiche, temperatura compresa. A metà dell’ottocento, questo ormai lo si studiava anche nelle università (quelle francesi soprattutto): il “clima mediterraneo” corrispondeva a un’idea unitaria fatta di mare e terre circostanti. Era una strana combinazione di storia e geografia, dicevano gli studiosi del tempo: che il Mediterraneo fosse cioè «un mare di congiunzione tra le tre masse continentali dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, tra gli Ariani, i Semiti e i Berberi» e dunque, come si amava ripetere, una “culla di civiltà”. Inoltre quegli studiosi vedevano nella storia mediterranea quello che ancora ci vedevano i tanti viaggiatori francesi e inglesi che scendevano a sud alla ricerca delle loro radici greche e romane. Alla ricerca, come disse qualcuno, di un «mare sacro, mare di tutta la civiltà e di quasi tutta la storia, cinto dai più bei paesi del mondo». Così il mare fu associato sempre di più alle tracce dei monumenti antichi: colonne, templi, mura, sbiancate dai secoli e dal vento. Segno di quella grande tradizione culturale da cui tutti in Europa sentivano di venire. Non solo, quelle antiche colonne, rimandavano anche a un’idea politica, perché era nei romani e nei greci che bisognava cercare la culla della civiltà attuale. E questo faceva ancora di più del Mediterraneo un luogo delle origini.
Clima e radici antiche: era sostanzialmente questa la base dell’idea “mediterranea”. Un’idea che riecheggiò in Goethe, ma anche in Schiller, Schlegel, Marx e Nietzsche. Anche grazie ai loro scritti, poco a poco il Mediterraneo divenne uno spazio unitario, una distinta regione del globo, definito da un clima («la terra dove il limone… e un dolce vento soffia dal cielo blu», aveva detto Goethe) e da un popolo innocente, ingenuo, appassionato e aperto. Soprattutto, un mondo immobile, il mondo di un eterno passato e di un continuo presente.
Così questo mare, idealizzato dai letterati e reso sempre più unitario dai geografi, finì con l’attirare anche l’interesse degli storici. Prima come sfondo, poi come protagonista. A metà del Novecento Fernand Braudel scrisse un’opera che avrebbe cambiato letteralmente il modo di guardare al passato: Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Il suo problema di partenza era il seguente: se si volevano davvero capire le cose, al di sotto delle strategie politiche e della storia fatta di battaglie, bisognava guardare a una storia diversa, più lenta. E nello spazio mediterraneo quella storia più lenta era quella segnata dal mare, dal suo clima, dalla sua geografia e dunque dai suoi ritmi, dalle sue abitudini secolari. Oggi a questa storia non ci crediamo più, ma dobbiamo almeno ammettere che Braudel ci ha insegnato a osservare il mondo e il suo passato con occhi diversi, allargando lo sguardo, e superando i nostri stretti confini di terra, per aprirci alla vastità del mare. Chi è venuto dopo, ha cominciato a guardare altrove: Peregrine Horden e Nicholas Purcell nel loro enorme e specialistico Il mare che corrompe spiegarono che si trattava di una storia molto più frammentata; David Abulafia, cominciò invece a cambiare prospettiva interrogandosi su come il mare e l’attività marinara abbiano direttamente influenzato coste e abitudini. Si era agli inizi degli anni Duemila e sembrava quasi un presagio di cosa stava per succedere.

Già negli anni dopo il Processo di Barcellona, l’inerzia politica e diplomatica aveva fatto capire che tutta questa voglia di Mediterraneo non è che in Europa ce l’avessero davvero. E se questo non fosse stato sufficiente, arrivarono i disastri di inizio millennio a mettere la pietra tombale su simili idee: le guerre, le migrazioni sempre più spaventose e tragiche, la crisi economica e la violenza cieca del terrorismo. Alla fine di tutto questo, dei tanti sogni Mediterranei rimasero solo dei brandelli, raggruppati in due posizioni sempre più antitetiche (anche se sotto sotto spesso tristemente complementari). Quelle di chi continua con ostinazione a guardare a quel mare come luogo della mescolanza e dello scambio; e quelle di chi nel Mediterraneo non vede altro ormai che una tragica e antica linea di faglia, segnata da sempre da un’insanabile guerra tra oriente ed occidente.
Così adesso è diventato ancora più urgente chiedercelo: ha ancora senso scommettere sul Mediterraneo? E se sì in che modo? Credo che non sia del tutto un caso il fatto che ultimamente stiano uscendo più libri che tornano a occuparsi del nostro mare, ma da una prospettiva più circoscritta: forse uno sguardo più preciso, focalizzato, può essere più utile per i difficili tempi che viviamo. È questo che fa ad esempio Luca Misculin con il suo Mare aperto (Einaudi, 2025). L’autore è un giornalista che si occupa da tempo con grande competenza tanto di migrazioni quanto di antiche storie mediterranee. E del mare offre appunto una chiave di lettura interessante e circostanziata, come si legge nel sottotitolo: Storia umana del Mediterraneo centrale. Come fosse una sorta di laboratorio, ci dice: un Mediterraneo in scala più piccola. E il Mediterraneo centrale di cui parla è quello che corrisponde allo spazio che sta tra le coste libiche e tunisine e le coste siciliane; lo spazio definito centralmente dal Canale di Sicilia e punteggiato da alcune isole: da Malta a Lampedusa sino a Pantelleria.
Un ottimo punto di partenza per cogliere tutta l’antichità geologica e umana di questo mare. Dalle connessioni sottomarine tra i due continenti, sino alle antichissime cave di ossidiana di Pantelleria, già usate in epoca preistorica. E poi una storia secolare, di scambi e di connessioni tra le due coste, di pirati e di schiavi venduti tra mondo cristiano e mondo musulmano. Scoprendo anzi che quel posto, così frequentato da marinai e pescatori, rende spesso difficile distinguere così nettamente tra barriere religiose. Proprio come tutto il resto del Mediterraneo, verrebbe da aggiungere.
Ma da buon giornalista, Misculin racconta il passato anche attraverso la cronaca del presente, attraverso gli incontri avuti con persone di tutte le rive, mostrando come da quel lembo di mare, a guardare con attenzione, si colga il mondo. Così a ragionare sulla produzione tunisina di quell’ottima salsa piccante che si chiama Harissa, si scopre che le difficoltà attuali nella coltivazione dei peperoncini necessari sono un’ottima cartina di tornasole per mostrare le trasformazioni del cambiamento climatico. Oppure è il caso dei pescatori siciliani il cui duro lavoro quotidiano racconta dei pericoli dell’eccessivo sfruttamento del mare e dei delicati equilibri tra uomo e ambiente; ed è una storia che parla dei pericoli della pesca a strascico, dei rischi per le altre specie e della sovrabbondanza di plastica che ormai ci circonda.
E poi un cambio di prospettiva. Smettendo di guardare questa storia dalla superficie ma spingendoci nel profondo, sino ai fondali, dove il Mediterraneo si rivela attraversato da una rete di fili da cui dipende ormai letteralmente la nostra esistenza visto che è da lì che passano tutti i dati internet. Piccoli tubi, spessi come canne da giardino che corrono per i fondali del Canale di Sicilia alimentando le nostre connessioni tra Europa e Africa. Persino il cavo più lungo del mondo passa da lì, 45000 chilometri che uniscono Barcellona al Regno Unito facendo il giro lungo, attraverso il Canale di Suez e circumnavigando l’Africa. Basterebbero i denti di uno squalo per tranciarne uno e obbligarci a giorni e giorni di silenzio. Basterebbe un sabotaggio… e non è così impensabile visto che qui il mare non è poi così profondo. E basta guardarle così le cose per capire che il Mediterraneo è ora anche e soprattutto uno spazio strategico. Si tratta della tragica emergenza dei migranti, che dall’Africa spingono proprio lì, sulle coste della Libia, in vere e proprie prigioni per schiavi, in attesa di una partenza per il mare aperto che non sempre equivale a una salvezza. Ma si tratta anche di problemi militari che coinvolgono economia, politica e strategia internazionali. A tale proposito è curioso come sempre di più le forze di difesa e gli esperti di geopolitica (termine che, noto con piacere, Misculin non sembra amare troppo) parlino di questo mare: come di un “Mediterraneo allargato” che dall’Atlantico giungerebbe in concreto al Golfo di Guinea. Uno spazio enorme, ma che trova la sua ragion d’essere nelle attuali tensioni internazionali a cominciare da quelle, drammatiche, che infiammano e insanguinano il Medio Oriente.
E forse è tutto qui il senso di questa storia: in un Mare che negli ultimi decenni, davanti ai nostri occhi, ha dismesso le forme e i toni assolati di un sogno da vacanza, per trasformarsi in un luogo di conflitto e disperazione.
E si potrebbe chiudere qua, se non fosse che arrendersi alle fatiche dei tempi può essere talvolta un atto di realismo, ma è sempre comunque una resa rispetto alla speranza. E invece se ancora si può scommettere sul mare forse la chiave è nella prospettiva che proprio Misculin ci offre: una dimensione diversa, una scala più piccola. Uno spazio attraversato da sempre, un mare aperto, che a interrogarlo non è solo onde e abissi, ma è soprattutto storie e persone. Storie e persone che, se ascoltate, sono capaci di raccontarci tutto il mondo. E forse proprio da quell’ascolto dovremmo ripartire: chissà se questa volta capiremo che quelle storie parlano di noi.
In copertina, Dione ©Petros Koublis.
