L’ultima utopia. Gli jihadisti europei

3 Dicembre 2015

Renzo Guolo insegna Sociologia dell’Islam all’Università di Padova e da trent’anni si occupa di islamismo politico nelle sue diverse varianti. Pochi giorni prima degli attentati di Parigi è uscito il suo ultimo lavoro dal titolo L’ultima utopia. Gli jihadisti europei (Guerini e Associati 2015).

 

 

 

 

 

Professore, nel testo lei traccia una distinzione tra le diverse generazioni di jihadisti. Quali sono queste generazioni e che caratteristiche ha quella degli attentatori di Parigi?

Il “panislamismo combattente” non è un fenomeno recente, negli ultimi tre decenni è successo più volte che volontari occidentali siano andati in teatri di guerra per rispondere alla chiamata dello jihadismo. La prima generazione di combattenti è quella formatasi in Afghanistan contro i sovietici passando poi per Bosnia, Algeria, Filippine ed Egitto. Vi sono poi i qaidisti di Bin Laden e infine la terza generazione: i “siriani” di Al Baghdadi che combattono nelle piane mesopotamiche dopo essere passati per Al Nusra (gruppo affiliato ad al Qaeda). In Siria dal 2011 vi è poi una parte di persone che ritiene che l’esperienza tra le fila del Daesh possa anche essere temporanea. Molti di loro hanno compiuto un viaggio dalla Francia alla Siria di andata e ritorno. Sono i figli di un’epoca frammentata dell’individualizzazione estrema e dell’istante. Il filo verde che li accomuna alle precedenti generazioni di militanti islamisti è la centralità del concetto di jihad come obbligo individuale e non comunitario.

 

Dal libro si comprende come il profilo dei foreign fighters europei, come quelli entrati in azione in Francia, non sia sconosciuto agli specialisti e alle forze di sicurezza ma il loro numero sia troppo elevato per esercitare un efficace controllo preventivo. Possiamo costruire un idealtipo dello jihadista europeo?

Direi che l’idealtipo è più semplice da costruire se si osserva la Francia dove abbiamo i banlieusard e gli jihadisti delle classi medie. Per quanto riguarda paesi come la Germania o l’Italia il modello non è valido.

 

Lei spiega come siano cambiati i luoghi della re-islamizzazione in senso radicale anche per effetto dei maggiori controlli: meno moschee e più “rete”, dunque?

Le moschee hanno perso la centralità nei processi di islamizzazione in senso radicale e la rete internet fa passare contenuti che nella vita reale trovano più difficoltà a filtrare. Nelle moschee poi non troveremo più personaggi così ingenui da fare apertamente proclami a favore della jihad proprio per evitare controlli e chiusure degli edifici di culto. All’interno delle moschee è possibile però trovare dei facilitatori (in gran parte ex combattenti) che favoriscono le partenze per le zone di guerra. Vi è un mimetismo come risposta ai controlli delle polizie e si cerca di “dissimulare” le proprie idee in linea con quanto scritto dall’islamista siriano Abu Musab al-Suri in un manuale consultabile anche in rete.

 

Lei parla anche di miniaturizzazione delle cellule, cosa intende?

I gruppi si sono ridotti, abbiamo amici, fratelli, ed eventualmente dei lupi solitari alla Anders Breivik (l’attentatore di Oslo del 2011 e dell’isola Utoya) che provengono dalla devianza e spesso sono stati in carcere. Qui hanno incontrato nuovamente la religione in versione radicalizzata e grazie al carisma di qualcuno hanno aderito allo jihadismo. Nelle piccole cellule invece vi sono lunghe relazioni amicali tra i membri che non necessitano di dipendenza gerarchica. È una “jihad senza leader” dove l’elemento di unione è rappresentato dall’ideologia condivisa. La polverizzazione evita poi di avere infiltrati delle forze di sicurezza e consente un maggiore controllo sui pochi aderenti.

 

Veniamo alla Francia nello specifico, quali sono i problemi della società francese e quali gli errori dal punto di vista della sicurezza e dell’integrazione che le autorità transalpine hanno compiuto in questi anni?

Le banlieues rimangono incubatori di risentimento. Questo non significa che l’islamismo e il terrorismo vengano per rapporto causa-effetto dalla disuguaglianza ma l’ideologia mortifera degli attentatori trova contesti più favorevoli proprio nelle zone degradate. La presenza di una memoria coloniale tra i colonizzatori e i colonizzati è un elemento importante in alcuni soggetti che hanno scelto di diventare islamisti.

 

Perché la propaganda dello Stato islamico funziona così bene e perché ha scalzato attori come i gruppi della galassia qaedista?

La comunicazione di al Qaeda è “vecchia”, unidirezionale e prevalentemente orientata a questioni teologiche piuttosto noiose per un giovane cresciuto in Europa. Quella della rete dello Stato Islamico è interattiva e decisamente più moderna, capace di evocare un mondo avventuroso più affascinante e coinvolgente.

 

Il fenomeno è destinato a esaurirsi?

Questo terrorismo è resistente ad ogni forma di sconfitta militare (che probabilmente ci sarà almeno in Siria) e se soffocato si riclandestinizzerà per poi rifiorire quando i tempi saranno maturi. Rappresenta quindi un pericolo con cui gli europei dovranno convivere a lungo.

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