Paesaggi politici / Antropocene, Mediterraneo e giardini

3 Agosto 2021

Sembra che a Pantelleria, definita dai dépliant turistici “la perla nera del Mediterraneo”, si trovi una versione in miniatura del paradiso terrestre. Rispetto a Lampedusa, che gli onori della cronaca ci rimandano – tristemente – come un territorio dove è agevole sbarcare, Pantelleria ha costoni scoscesi lungo quasi tutto il suo perimetro. Nelle lunghe settimane battute dal vento, ai mercanti di ossidiana che la frequentavano da millenni sarà parsa inavvicinabile o, se già lì, impossibile da lasciare. Seneca, il primo dei suoi visitatori illustri, ne parlava come di “deserta loca et asperrima”, e ancora nel Settecento il geologo Donald de Dolomieu (prima di dare il suo nome alle Dolomiti alpine) dovette rinunciare ad approdarvi a causa delle alte onde che da troppo tempo la circondavano. Così, fu usata a lungo come luogo di confino per criminali o prigionieri politici; ed è stato necessario l’arrivo di Gabriel García Márquez, che se ne innamorò inserendola in diversi suoi racconti, per invertire la tendenza e fare di quest’isola vulcanica, arida e, appunto, ventosissima un luogo cool e anticonformista, frequentato da tossici in cerca di pace, nudisti scapestrati e variegati sessantottini, e diventando ben presto meta di vacanze facoltose, ville extralusso, ristoranti chic e vigneti curatissimi da cui fuoriesce un vino dolce, lo zibibbo, tra i migliori al mondo. 

 

 

Ma si tratta dell’immagine che di quest’isolotto sperduto nel centro del Mediterraneo ci si fa dall’esterno. Per gli abitanti che la abitano da sempre, la fisionomia – colturale e culturale – di Pantelleria è assai diversa. Pronti ad accogliere naufraghi e colonizzatori d’ogni tipo, e dunque etnie e lingue delle più diverse (lo si percepisce ancora dalla quantità di toponimi arabi come Rakhali, Kamma o Bukkuram), i contadini panteschi hanno perennemente coccolato la loro isola, non senza difficoltà e fatica (“sudore di millenni” secondo l’archeologo Paolo Orsi), disboscandola, terrazzandola, piantandovi ogni specie botanica, costruendo con la pietra lavica abitazioni assai particolari per raccogliere l’acqua piovana (i celebri dammusi), edificando villaggi fortificati, chilometri e chilometri di muretti a secco e una gran quantità di tombe megalitiche. Di modo che quello che avrebbe potuto essere un paesaggio brullo e inconsistente (Marquez pensava per esempio alla Luna) è diventato un’oasi di avvenenza, forse non una perla nera ma comunque un luogo incantevole, al tempo stesso rasserenante ed estremo, bello e sublime insieme. 

 

L’idea del paradiso terrestre ha comunque, a Pantelleria, una sua ragion d’essere specifica, ed è il cosiddetto giardino pantesco, una costruzione assai particolare che, discendendo forse da certe soluzioni architettoniche dell’antica Mesopotamia, caratterizza il paesaggio dell’isola, contando a tutt’oggi circa quattrocento esemplari. Di che cosa si tratta? Il giardino pantesco è una specie di torre di pietra a cielo aperto, il più delle volte circolare, che racchiude un solo albero, un agrume, arancio dolce o limone a seconda delle disponibilità del momento. Gli agrumi sono alberi d’origine tropicale, hanno bisogno di molta acqua per crescere bene e detestano il vento. Come dire che a Pantelleria, senza una sicura protezione e una continua abbeverata, non potrebbero attecchire. Hanno però un gran pregio: riescono a produrre insieme fiori e frutti, sintesi perfetta di bellezza e utilità. Così, la testardaggine e l’ingegno dei panteschi ha trovato la soluzione, con uno sforzo incredibilmente sproporzionato rispetto al risultato, se si ragiona in termini economici e funzionali, ma efficace e sensato da un punto di vista più ampio, olistico se si vuole, che include accanto alla razionalità economica anche bricolage dilettantesco, piacere estetico e cura del paesaggio, con tutt’un’etica del rispetto ambientale che plasma l’esistenza individuale e collettiva. Questa piccola, geniale invenzione, spiega l’agronomo e scrittore palermitano Giuseppe Barbera in Il giardino del Mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all’Antropocene (Il Saggiatore, pp. 282, € 22), è uno spazio chiuso e limitato, a tutti gli effetti un giardino dunque, “dove il meglio della natura si combina con il meglio della cultura” – dimostrando ancora una volta, potremmo aggiungere, che, a dispetto di chi si ostina a considerarle come domini separati, non c’è natura senza storia e viceversa.

 

 

Ma non finisce qui. Questa “stravaganza inaudita” che è il giardino pantesco, secondo la definizione che ne ha dato il maestro della cosiddetta architettura senza architetti che è Bernard Rudofsky, riserva una serie di sorprese. Innanzitutto, a esso si accede attraverso una porticina molto bassa, di modo che per entrare in questo spazio occorre inchinarsi, riverirlo insomma. Una volta dentro, l’ombra e la frescura improvvise accentuano l’impressione di introdursi in un luogo sacro, dove, data la prossimità fra il muro e la chioma dell’albero, si è costretti a muoversi con lentezza, con delicatezza, rispettandolo con garbo sia il muro sia l’albero; godendo quasi forzatamente del silenzio, degli olii essenziali sprigionati dalle foglie, dei profumi emanati dai fiori. Come se non bastasse, questa curiosa soluzione insieme architettonica e paesaggistica è anche – tecnica antichissima sempre secondo Barbera – “una macchina che condensa rugiada”, garantendo all’agrume tutta l’umidità di cui ha bisogno per sopravvivere. 

 

 

Ne deriva, come s’è detto, l’impossibilità di separare utile e bello, ma anche e soprattutto di capire se è venuto prima il desiderio di sacralità oppure la brama di tenere un agrume vicino casa: il giardino pantesco è sacro perché è stato concepito in quel modo, o invece è stato edificato così per desiderio di sacralità? Domanda oziosa, e tutto sommato inutile. Il dispositivo spaziale comunque funziona, a tutto vantaggio di una forma di vita operosa e insieme godereccia che, ne conclude Barbera, è un po’ il simbolo di ogni giardino ben fatto nel bacino mediterraneo. Non come quelli delle villette piccoloborghesi che a migliaia deturpano le coste di questo mare di mezzo, della Sicilia innanzitutto (a cui il libro è pressoché interamente dedicato), e meno che mai come le vaste distese di territorio dove vige una monocoltura massiccia (se non le distese di orridi impianti fotovoltaici e di ingombranti pale eoliche) a servizio di un’economia rapace che mira al puro profitto monetario senza minimamente badare alla salute degli esseri viventi e, in generale, alla loro qualità della vita. Piuttosto, il giardino pantesco è una specie di paradiso terrestre in miniatura perché ricorda in piccolo quel che nella storia sono stati – e raramente tuttora sono – luoghi come Halaesa (sui Nebrodi), la riserva dello Zingaro (tra Scopello e San Vito lo Capo), il lago di Pergusa (“ombelico della Sicilia” per Diodoro), il giardino della Kolympethra (nella valle dei templi di Agrigento), il Castello della Favara (detto anche Maredolce, a Palermo). 

 

 

Leggere il libro di Giuseppe Barbera, ricco di informazioni dettagliate e di citazioni letterarie (da Omero a Eschilo, da Humboldt a Maupassant, da Goethe a Borges, per non parlare dei siciliani Pirandello, Vittorini, Tomasi, Sciascia e Bufalino), è dunque un piacere della scoperta di luoghi dimenticati, ma è anche, e non per caso, un impegno politico. La descrizione e la narrazione di questi luoghi incantati, di questi paesaggi agrari che mescolano sapientemente etica ed estetica, funzionalità e diletto, non è mai fine a se stessa. Mira semmai a ricostruire una sfida possibile a quello che nel libro viene individuato come nemico da sconfiggere a tutti i costi: l’Antropocene, e cioè l’antropizzazione tanto accurata quanto selvaggia dell’intero pianeta, forma di dominio – e non di equilibrio – della storia sulla natura, una natura considerata non più come risorsa ma come limite da superare a tutti i costi. In Sicilia, del resto, l’Antropocene non ha avuto la forma della macchina a vapore o del fallout radioattivo seguito alle bombe atomiche, ma è arrivata “sotto il segno delle ruspe e del loro avanzare inarrestabile sui giardini fruttiferi ai margini delle città distrutte dai bombardamenti e sulle pianure costiere”. Come dire lo smantellamento progressivo e inarrestabile del paesaggio locale, di quel “modello per la stabilità ecologica che i continui episodi catastrofici sembrano definitivamente negare”. Ne deriva un’inversione della celebre indicazione di Voltaire a Candide: coltivare un giardino è gesto d’ottimismo, di speranza, comunque di lotta. Come fanno ostinatamente a Pantelleria.

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