Bifo, Fenomenologia della fine

13 Settembre 2020

Nell’autunno del 2018 ho contribuito a organizzare un incontro del FILL, il festival di letteratura italiana a Londra, intitolato The Hisotry of Now: i tre ospiti erano Walter Siti, Olivia Laing e Ali Smith e il tema era quello del rapporto tra scrittura e una realtà che già allora appariva in vorticosa trasformazione. Il programma descriveva l’evento così:

 

Literary writing works on a different time scale than the tumultuous flow of news that we live in. How can a literary story, taking months or years in the writing, try and reflect the turns and shocks of a world that seems to change radically day by day?

 

Gli ospiti erano stati scelti perché autori di una scrittura sperimentale che faceva del confronto con il presente la propria cifra stilistica: Ali Smith per il “seasonal quartet” pubblicato in Italia da Sur, Olivia Laing per Crudo (inedito da noi) e Walter Siti – be’, Walter Siti per la sua intera opera. 

 

All’epoca non potevamo immaginare che nell’arco di poco più di un anno una pandemia globale avrebbe trasformato quella scrittura avanguardistica nella forma letteraria dominante del 2020: dall’inizio del lockdown a oggi il mercato editoriale è stato sommerso di instant books in cui filosofi, saggisti e scrittori cercano di cogliere, appunto, “the history of now”, la pandemia nel momento stesso del suo svolgimento.

 

Sono nati progetti innovativi (Virus di Žižek, un e-book che per un po’ si è aggiornato automaticamente, in Italia con Ponte alle Grazie), vere e proprie collane (i microgrammi di Adelphi, i semi di Nottetempo), antologie di racconti (L’ultimo sesso ai tempi della peste per Neo Edizioni, a cura di Filippo Tuena) e progetti più ambiziosi e ibridi come il Decameron Project e l’antologia And We Came Outside and Saw the Stars Again, a cui hanno partecipato autori del calibro di Margaret Atwood, Andrew O’Hagan o Paolo Giordano. Sono stati raccolti sogni e status di Facebook. 

 

Poco dopo il ritorno a questa strana, anormale normalità che abbiamo cominciato a vivere, autori come Zadie Smith (Questa strana e incontenibile stagione, Sur) o tra gli italiani Giuseppe Genna (Reality, Rizzoli) hanno provato a dare una forma letteraria all’inaudito della pandemia. La lista è, ovviamente, molto parziale, ma serve a dare un’idea dell’esplosione di letteratura “in presa diretta” a cui abbiamo assistito – un buon esempio di ciò che si intende quando si dice che la pandemia ha funzionato da acceleratore dell’immaginario. 

 

Apprestandomi a leggere l’ultimo libro di Bifo Berardi, Fenomenologia della fine (Nero), non ho potuto esimermi dal confronto con questa enorme e per certi versi piuttosto spettrale massa di letteratura emersa sulla scena culturale a tempo record, un vero e proprio genere apparso dal nulla e il cui posto nella storia delle lettere è ancora tutto da decifrare. 

 

Alcuni degli esempi citati sopra sono ottimi libri, altri tradiscono la fretta e una comprensione del momento non del tutto focalizzata (il caso di Agamben dovrebbe insegnare che fornire letture prima che il proprio paradigma interpretativo abbia avuto il tempo di adattarsi alla realtà può essere controproducente). Certamente si è avuta fin da subito l’impressione di una saturazione del pensiero non necessariamente funzionale ai fini della produzione di opere letterarie di valore: come ha riflettuto sulle pagine del New York Times Sloan Crosley all’inizio del lockdown, il rischio che tutti i romanzi della pandemia finiranno per somigliarsi in maniera quasi indistinguibile è concreto, e questi primi mesi di letteratura pandemica sembrano darle parzialmente ragione. 

 

Eppure il libro di Bifo ha qualcosa di diverso, una freschezza le cui origini potrei riassumere in una parola: sincronicità. Sembra che Bifo stesse aspettando da tutta la vita di scrivere questo libro, e in un certo senso è proprio così. Non ci troviamo davanti a un autore a cui è stato chiesto di parlare del virus, ma a un autore che ha sempre parlato del virus fino a quando questo è arrivato per davvero e le cui riflessioni a riguardo, quindi, suonano puntuali ed efficaci. Per usare un’immagine che risuona con la citazione di Burroughs che apre Fenomenologia della fine, quella della lingua come agente patogeno che ha infettato l’essere umano hackerandone il sistema nervoso, tra il Covid e Bifo sembra esserci una simbiosi perfetta.

 

 

La prima e più lunga parte di Fenomenologia della fine, intitolata Cronaca della psicodeflazione, è comparsa a puntate su Not, la rivista online di Nero: nel caos informativo dei primi tempi di lockdown, che nella mia condizione di expat mi arrivava duplicato e asincrono (le notizie dall’Italia e quelle dal Regno Unito che si sovrapponevano e contraddicevano come due trasmissioni radio parallele), in un momento in cui la mia psiche era colonizzata dalla pandemia e la mia capacità di prestare attenzione alla parola scritta frammentata dal senso di catastrofe globale, le Cronache della psicodeflazione erano una delle poche letture che riuscivo a portare avanti con interesse e anche, per quanto possa sembrare strano, con piacere.

 

Il che ci riporta a ciò che scrivevo all’inizio dell’articolo, perché una delle cose che conferiscono valore a questo breve ma denso libro è la sua forma letteraria: qualcosa di sospeso tra il diario e il saggio, o tra il saggio e la fiction, un’autofiction forse, o meglio una theory-fiction, distinguere è diventato difficile perché viviamo in un mondo così assurdo ed eccessivo (un mondo che sembra un incesto orrendo ed esilarante tra Burroughs e Philip Dick, come leggiamo nella prima, molto bella, delle Meditazioni sulla soglia che compongono la seconda parte del libro) che non è mai possibile sapere con certezza in quale punto del continuum tra realtà e finzione ci troviamo in questo momento. 

 

Ma con Fenomenologia della fine sappiamo di trovarci da qualche parte in quel territorio di soglie e ibridazioni, nel centro di un racconto in cui il personaggio Bifo commenta gli articoli di giornale e gli eventi della giornata ma ci dà anche conto delle poesie che gli vengono mandate via mail, ci narra di quella volta che incontrò Edi Rama in un appartamento di Parigi (allora non era il primo ministro dell’Albania ma un pittore punk), ci mette a parte dei suoi progetti musicali con Lydia Lunch o semplicemente ci regala qualche quadretto intimista della vita di Bologna durante il lockdown (una ragazza fa esercizi in maniera goffa; il fumo non arriva più con la stessa frequenza di prima e poi smette di arrivare del tutto).

 

Se la lettura è così piacevole però si deve soprattutto al fatto che Bifo è chiaramente a suo agio a parlare del virus: al fatto, cioè, che in tutta la sua opera ha parlato in un modo o nell’altro del ribaltamento totale del paradigma capitalista, anche quando la Storia sembrava andare in direzione opposta. Mi viene da pensare a un fotografo che passa quarant’anni a preparare l’inquadratura per uno scatto le cui condizioni sa misteriosamente che si materializzeranno nel lontano futuro: alla fine il soggetto giusto passa davvero davanti alla macchina fotografica e i tasselli vanno miracolosamente al loro posto. È il talento e la condanna dei visionari.

 

Come Donna Haraway, un’altra intellettuale riportata in Italia da Nero dopo decadi di oblio nelle biblioteche di Cultural Studies con il bellissimo e quanto mai attuale Chtuluchene: sopravvivere su un pianeta infetto (2019), anche Bifo raccontava già il mondo del futuro quattro decenni fa, in un cortocircuito temporale che risuona con l’hauntologia dei nostri tempi: questo futuro di accelerazione e automazione, di postcapitalismo e virus psichici, di crisi permanente e apocalisse al rallentatore che abitiamo sgomenti. 

 

Questo futuro, per citare il titolo di una rivista brevemente pubblicata da Bifo nel 1977, in cui finalmente il cielo è caduto sulla terra – e ora che la realtà ha compiuto l’atto surrealista della sovversione radicale con questo mondo sottosopra dobbiamo fare i conti. Nelle sue 250 pagine scarse che si leggono come fossero meno della metà, Fenomenologia della fine offre una quantità sorprendente di idee e spunti, analisi e categorie per immaginare una via d’uscita dalla crisi che non sia l’ennesimo tentativo di mantenere in vita artificialmente il cadavere di un sistema agonizzante da anni.

 

Così il virus viene visto come un dispositivo psico-semiotico, un agente dell’inconscio collettivo di un mondo in crisi permanente che ci porta a una transizione che consapevolmente non avremmo avuto il coraggio di compiere (“Da tempo l’economia mondiale ha concluso la sua parabola espansiva, ma non riuscivamo ad accettare l’idea della stagnazione come nuovo regime di lungo periodo. Ora il virus semiotico ci sta aiutando alla transizione verso l’immobilità”); il virus è l’implosione dopo la grande accelerazione (“Ora il virus sgonfia la bolla dell’accelerazione (…) è il corpo che ha deciso di abbassare il ritmo”); il virus è la soglia attraverso cui accedere pienamente a un sistema sociopolitico nuovo (“Siamo entrati ufficialmente nell’era biopolitica, in cui i presidenti non possono nulla, e solo i medici possono qualcosa”) se non addirittura in una nuova epoca psichica (“Tutt’a un tratto mi rendo conto del fatto che stiamo entrando nella terza epoca dell’Inconscio, e quindi nella terza epoca della psicoanalisi”).

 

Fenomenologia della fine propone ricette politiche (“Per la sopravvivenza degli umani non è necessaria la crescita infinita, è necessaria una distribuzione egualitaria di ciò che l’intelligenza tecnica e l’attività libera possono produrre. E inoltre è necessaria una cultura della frugalità, che non significa né povertà né rinuncia, ma spostamento dell’attenzione dalla sfera dell’accumulazione alla sfera del godimento”) e talvolta si lascia andare a un wishful thinking che forse potrà essere considerato ingenuo, come quando immagina che finita la crisi i giovani spegneranno i loro dispositivi elettronici e abbandoneranno il mondo online, associando la vita in rete a un periodo di morte e solitudine, ma che è meno ingenuo di quanto sembri se si pensa che oggi più che mai “vincerà la guerra” chi per primo saprà immaginare il futuro. E immaginare il futuro, oggi, è una sfida enorme: guardare nel buco nero del domani e immaginare una via attraverso, una forma possibile.

 

Fenomenologia della fine, credo, rimarrà come un diario intelligente e appassionante della crisi, un distillato di riflessioni, di immagini, di pensieri talvolta contraddittori, di momenti di sfogo, di esperienze e di veri e propri slanci poetici che ben catturano l’inconcepibile di questo annus horribilis e, più in generale, le coordinate ancora incerte di questa nostra strana epoca ipermoderna. Non avrebbe potuto scriverlo nessun altro che Bifo, che si conferma uno dei pensatori più attuali che abbiamo in Italia, tra i più attrezzati per fornire un senso a questa “history of now” così simile a un incubo o a un sogno, sempre che tra le due cose ci sia ancora differenza. 

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