L'ironia malinconica di Wilde / E baciò sulla bocca il Principe Felice

24 Dicembre 2016

Il Principe Felice di Oscar Wilde comincia dove di solito le fiabe si sono concluse da un pezzo. Cioè, molto dopo il canonico lieto fine: il principe ha già vissuto la sua splendida vita (nella reggia di Sans Souci, puntualizza nel racconto, accennando al suo passato di spensieratezza ed egoismi) e infine è morto. È allora che la cittadinanza, grata, l'ha trasformato nell'icona del più invidiabile dei destini: un principe gigantesco e tutto d'oro, svettante sulla città, su un'imponente colonna, con due zaffiri al posto degli occhi e un rubino sull'elsa della spada; così più in alto di ogni cosa da risultare irraggiungibile. 

Che l'omaggio della cittadinanza sia, in verità, di sopraffina perfidia lo racconta lo stesso Principe alla fatua rondinella, coprotagonista in questa storia che è un incantevole, ma inesorabile passo a due verso la morte: «E ora che sono morto mi hanno messo quassù, così in alto, che posso vedere tutte le brutture e le miserie della mia città. E benché abbia il cuore fatto di piombo, non posso fare a meno di piangere.»

 

 

Oscar Wilde, The Happy Prince, illustrazioni di Walter Crane, 1889.

 

L'ironia malinconica di Wilde, diventa subito chiaro al lettore, comincia dal titolo: la più triste delle storie, poiché questa è davvero una storia fatta per spezzare il cuore, esattamente come accade a quello del Principe, ha per protagonista un Principe Felice che è in realtà il più infelice che mai conobbe fiaba e non solo, probabilmente.  

Sul piedistallo della sua colonna, il Principe Felice osserva e ascolta ogni cosa: vede tutto ciò che accade nelle case, sente ogni frase pronunciata per strada. E prende atto della naturale inclinazione del cuore umano alla stupidità, all'indifferenza, all'egoismo e, nel peggiore dei casi, alla crudeltà. Ricorda il giovane Siddhartha che, evaso dalla gabbia dorata del suo palazzo, è costretto alla conoscenza del Male.

In questo senso, l'incipit del racconto è fulminante. Tutti i cittadini, osservando la statua, lo ammirano. 

«È bello come una banderuola» osservò uno dei Consiglieri Comunali che voleva farsi una reputazione di gusti artistici; «solo, non altrettanto utile», aggiunse, per paura che la gente lo considerasse poco pratico, accusa che non gli si poteva certo rivolgere.

 

«Perché non puoi essere come il Principe Felice?» chiese una saggia madre al figlioletto che piangeva domandando la luna. Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nessun motivo.»

«Mi fa piacere che ci sia qualcuno veramente felice al mondo» borbottò un uomo deluso, guardando la statua meravigliosa.

«Sembra proprio un angelo» dissero gli Orfanelli, uscendo dalla cattedrale con le loro vivaci mantelline rosse e i lindi grembiuli bianchi.

«Che ne sapete, voi?» disse il Maestro di Matematica, «non l'avete mai visto un angelo.»

«Ah! Ma sì, invece, in sogno» risposero i bambini; e il Maestro di Matematica si accigliò e assunse un'espressione molto severa perché non approvava che i bambini sognassero.»

Il concentrato di vanità e malanimo che l'acume psicologico di Wilde intesse nelle apparentemente innocue parole di questi onesti cittadini, tutti dediti alla virtù di un pratico buon senso, è straordinario. La posizione di prestigio che il Principe occupa è in realtà, a ben vedere, una gogna: nonostante le sue dimensioni e il suo sfarzo, ognuno trasforma il Principe nelle specchio attraverso cui non vede che se stesso, la propria vita, o si conferma nelle proprie convinzioni e interessi. Una violenza silenziosa, invisibile, spietata che gli esseri umani si fanno l'un l'altro, e che è causa della solitudine di ognuno di loro. Una premessa che non lascia molte speranze, riguardo al proseguo della storia.

 

Oscar Wilde, The Happy Prince, illustrazioni di Walter Crane, 1889. 

 

L'arte letteraria di Wilde, tuttavia, dissimula nel passo danzante della fiaba la profondità della visione e delle intuizioni. Ecco, infatti, appena presentato il Principe, entrare in scena la coprotagonista: «Una notte volò sulla città una piccola Rondine. Le sue amiche erano volate in Egitto già da alcune settimane, ma lei era rimasta indietro perché si era innamorata di un bellissimo Giunco.»

Questo andamento fluttuante fra disperazione e leggerezza, oscurità e luce, cupezza e gioia, dramma e commedia è la cifra di questa incredibile fiaba, probabilmente la più bella di Wilde, di certo la più nota, in cui il suo talento di narratore rimane in esatto equilibrio fra necessità e divagazione, sintesi e ricchezza immaginativa, senza cedere alla tentazione dell'eccesso.

 

Pubblicata nel 1888, con le illustrazioni di Walter Crane e Jacomb Hood, artisti scelti da Wilde che da raffinato bibliofilo era sensibilissimo alla qualità editoriale delle proprie pubblicazioni, la storia nacque probabilmente per essere raccontata ai figli piccoli, nei confronti dei quali Wilde, come spiega Masolino D'Amico nell'introduzione all'edizione Mondadori da lui curata (non scegliete alcun altra traduzione che la sua), era, a stare ai racconti dei figli, tenerissimo padre, compagno fantasioso di giochi, narratore sublime e generosissimo. E come segnala D'Amico, sua regola d'oro era che il narratore dovesse adeguarsi all'uditorio: appesantirlo, vessarlo, annoiarlo sarebbe stata, da conversatore di genio quale fu Wilde, «una mancanza di tatto imperdonabile». Dove adeguarsi a un uditorio di piccoli significava per Wilde raccontare la più meravigliosa delle storie: anche la più triste, se la più triste era la più meravigliosa, come ben sapeva anche un altro grande narratore di fiabe, Hans Christian Andersen.

 

La Rondine e il Principe costituiscono una coppia perfetta: all'immobilità della statua, greve di materiali preziosi e di pensieri luttuosi, la piccola Rondine migrante fa da contrappeso. Agile, leggera, aerea, invisibile. Rapidissima nel porre rimedio alle miserie che il Principe dall'alto scopre e che le chiede di riparare. Una ricamatrice che confeziona abiti lussuosi, ma non ha niente con cui nutrire il figlioletto malato; un giovane scrittore squattrinato in una soffitta; una piccola fiammiferaia sola nel freddo della notte, terrorizzata da un padre violento. A ognuno andrà un pezzo di Principe, – zaffiri, rubini, foglie d'oro – in un processo di spoliazione che ha fine solo quando l'ultimo frammento prezioso che copre la statua sarà consegnato per riparare alle sofferenze dell'ultimo dei poveri. Perché come spiega il Principe alla Rondine: «Non c'è Mistero grande come la Miseria.» Un'affermazione che ricorda le riflessioni di Simone Weil su quella che nei suoi libri è definita malheur, sventura, condizione muta di prostrazione fisica e psichica, di cui parte integrante è l'incapacità di essere detta da chi la soffre.

 

 

Oscar Wilde, The Happy Prince, illustrazioni di Charles Robinson, 1913. 

 

La frivola Rondine per amore del Principe ubbidisce, nonostante l'incipiente inverno, procrastinando un giorno dopo l'altro la partenza per l'Egitto, dove è attesa dalle compagne. Una terra luminosa, questa, calda, piena di meraviglie di cui dipinge all'amico ipnotiche visioni: «Gli raccontò delle ibis rosse che stanno ritte in lunghe file sulle sponde del Nilo, e catturano col becco pesci d'oro; della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e sa ogni cosa; dei mercanti che avanzano lenti sui loro cammelli e portano in mano perline d'ambra; del Re dei Monti della Luna, che è nero come l'ebano, e venera un grande cristallo; del grande serpente verde che dorme in una palma, e ha venti sacerdoti addetti a sfamarlo con torte di miele; e dei pigmei che attraversano un grande lago su ampie foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.»

 

La città dove ha luogo la fiaba e il lontano Egitto formano la seconda coppia intorno a cui è costruito il racconto, analoga a quella dei protagonisti, Principe-Rondine. Se la città sotto il suo aspetto florido e benestante è gravida di infelicità e sventure, l'Egitto si configura come terra misteriosa, di fantastico splendore dove dèi, animali, uomini vivono insieme nel tempo sospeso e favoloso del mito. Il loro alternarsi, nel racconto, costituisce un contrappunto musicale di grande sapienza compositiva.

«Laggiù» continuò la statua in tono basso, musicale, «Laggiù in una stradina c'è una povera casetta. Una finestra è aperta, e da questa posso vedere una donna seduta a una tavola. Ha il viso magro e stanco, e le mani ruvide, rosse, tutte bucate dall'ago, perché fa la cucitrice. Ricama passiflore su di una sottana per la più bella damigella d'onore della Regina, che la metterà al prossimo ballo a Corte. In un lettino nell'angolo, giace malato il suo bambinetto. Ha la febbre e chiede delle arance. Sua madre non ha altro da dargli che un po' d'acqua di fiume, e lui piange. Rondine, Rondine, piccola Rondine, vuoi portarle il rubino dell'elsa della mia spada? Io ho i piedi attaccati a questo piedistallo e non posso muovermi.»

«Mi aspettano in Egitto » disse la rondine. «Le mie amiche stanno svolazzando su e giù lungo il Nilo, e chiacchierano con i grandi fiori di loto. Ben presto si addormenteranno nel sepolcro del gran Re. C'è anche il Re in persona lì dentro, nella sua bara dipinta. È avvolto in lenzuola gialle, e imbalsamato di spezie. Intorno al collo ha una collana di pallida giada verde e le sue mani sono simili a foglie secche.»

 

Oscar Wilde, The Happy Prince, illustrazioni di Charles Robinson, 1913. 

 

Un celebre testo in cui Wilde dà voce alla seduzione che su di lui esercitarono le atmosfere orientali e in particolare l'Egitto, è la poesia The Sphinx dedicata a Marcel Schwob e pubblicata nel 1894 in un'edizione decorata da Charles Ricketts, nei dettagli mitologici e archeologici debitrice alle atmosfere nilotiche di La tentation de saint Antoine di Gustave Flaubert. Così comincia: «In un angolo scuro della mia stanza, da più tempo di quanto mi figuri, una Sfinge bella e silenziosa mi fissa nell'oscurità che cade. Inviolata e immobile non si alza e non si muove, poiché le lune d'argento sono niente per lei, e niente il ruotare dei soli.  […] Le albe si susseguono e le notti invecchiano, e frattanto questo curioso gatto se ne sta sempre accucciato sulla stuoia cinese con occhi di raso bordati d'oro. […]Avvicinati, o squisito grottesco, mezzo donna e mezzo animale! Avvicinati, mia bella e languida Sfinge! E posami il capo sul ginocchio!  […] Mille stanchi secoli sono tuoi, mentre io non ho visto che una ventina di estati spogliarsi del verde per le vistose livree dell’autunno. Ma tu sai leggere i geroglifici sui grandi obelischi di arenaria, e hai discorso con i Basilischi, e hai contemplato gli Ippogrifi. […] Alza quei grandi occhi di raso nero, che sono come cuscini in cui si sprofonda! Ronfa ai miei piedi, fantastica Sfinge! E cantami tutti i tuoi ricordi!» 

 

 

Oscar Wilde, The Happy Prince, illustrazioni di Charles Robinson, 1913. 

 

Alla temibile Sfinge del poema, amante di mostri e dèi, fu ispirata la tomba al Père-Lachaise, a Parigi, in cui nel 1909 Oscar Wilde fu tumulato, commissionata dall'esecutore testamentario Robert Ross allo scultore Eric Epstein. Un sepolcro di marmo bianco in cui Epstein scolpì una grande sfinge in volo. La tomba, come colui che vi era sepolto, sollevò polemiche e proteste a non finire per l'ambiguo erotismo che esprimeva, basti dire che al suo arrivo fu piantonata dalla polizia e che l'ultimo atto di vandalismo nei suoi confronti  è del 1961.

In un passo del De Profundis, uno dei numerosissimi in cui Wilde rimprovera all'amante, Lord Alfred Douglas, responsabile della sua reclusione nel carcere di Reading, di averlo sfruttato per il carisma e la ricchezza, non solo materiale, è scritto: «Dalla mia parte, oltre all'attrazione dell'intelletto, stava l'abbondanza della terra d'Egitto.» È una frase interessante che se da una parte mostra quanto questo immaginario fosse familiare allo scrittore, dall'altra segnala che la metafora doveva essere facilmente leggibile anche per l'epoca vittoriana, e non solo nei termini di riferimento alle vicende bibliche. L'egittofilia di Wilde, infatti, fu caratteristica della sua epoca. La passione per l'Egitto, che era un aspetto della moda dell'Oriente diffusa in tutta Europa, era largamente condivisa in Gran Bretagna. Una fascinazione antica che, come spiega Jurgis Baltrušaitis in La ricerca di Iside, è parte di una una storia lunga e complessa, sviluppatasi di pari passo alla formazione del mito dell'Egitto come culla di civiltà, terra di esotismi e straordinari misteri, avviatasi già in epoca romana e approdata fino a noi attraverso diverse forme. In particolare, i semi dormienti dell'egittomania, coltivati in ogni epoca, dal Medioevo al Rinascimento fino alla Rivoluzione Francese, esplosero in Europa con la spedizione napoleonica del 1798 che, con i 10 volumi della Description de l'Égypte, opera di 43 autori, corredata da 3000 immagini e venduta in un mobiletto-leggìo alla moda egizia al modico prezzo di un migliaio di franchi, inondò letteralmente i paesi europei di visioni egiziane. 

 

 

Oscar Wilde, The Sphinx, illustrazioni di Charles Ricketts, edizione a tiratura limitata, Elkin Mathews et John Lane, Londra 1894. 

 

Nella cultura anglosassone l'interesse per l'Egitto, la sua arte e la sua storia si manifestò non solo in ambito artistico, ma anche nella vita quotidiana. A Roma, a Piazza di Spagna, il Caffè degli Inglesi, cosiddetto perché frequentato da intellettuali e artisti della comunità britannica, verso la fine del Settecento fu decorato da Giambattista Piranesi, che lo frequentava con Johann Joachim Winckelmann, Anton Raphael Mengs e Robert Adam, con fastose raffigurazioni ispirate a monumenti e antichità egiziane: faraoni, sfingi, scarabei, coccodrilli, geroglifici, sciacalli, templi e piramidi. E nel cimitero inglese di Firenze, altra città egittomaniaca per via dell'influenza esercitata dalla spedizione archeologica tosco-francese di Rosellini-Champollion del 1828-29, sono numerose le sepolture ottocentesche di cittadini britannici con riferimenti ai monumenti e alla simbologia funeraria egizia che rimanda alla rinascita e alla vita eterna: piccole piramidi, obelischi, rilievi e lapidi che riportano impressi simboli tratti dall'iconografia egizia, come dischi solari o scarabei.  

 

L'amore per l'Egitto e la sua storia in epoca vittoriana innescò anche la voga dei romanzi storici.  Uno fra gli autori di maggiore successo fu, nella seconda metà dell'Ottocento, l'archeologo Georg Moritz Ebers che dedicò al tema una serie di romanzi divenuti molto popolari. A Ebers si deve una riflessione illuminante riguardo alle visioni egiziane del Principe Felice. Tratta dal volume del 1878, Egypt: Descriptive, Historical, and Picturesque, stabilisce un nesso fra infanzia e immaginario egizio di cui ognuno di noi, a quasi due secoli di distanza, può ancora cogliere la verità: «Chiunque, che sia di bassa o alta estrazione sociale, ha sentito parlare dell'Egitto e delle sue antiche meraviglie. I bambini imparano i nomi dei Faraoni crudeli o magnanimi, prima di imparare quelli dei regnanti dei loro Paesi.»

 

Come testimonia il filone dei “romanzi della mummia” di cui Baltrušaitis porta a esempio Le roman de la momie di Théophile Gautier, storia di un un lord inglese che s'innamora retrospettivamente della regina Tahoser, di cui è ritrovata la mummia durante una spedizione archeologica, la popolarità dei faraoni egizi è indissolubilmente legata al mito del loro ingresso nell'Aldilà, delle magnifiche sepolture in cui furono tumulati, delle mummie che conservarono i loro corpi divini, delle stanze splendidamente dipinte che ospitavano i simboli della loro regalità, degli inimmaginabili tesori che accompagnarono il loro sonno eterno, e infine delle maschere funerarie che immortalarono la loro aurea giovinezza.
Lungi dall'aver scelto le ambientazioni egizie del Principe Felice come semplici sfondi esotici, Wilde, profondo conoscitore di arte e letteratura, introdusse le antiche visioni consapevole dei significati simbolici legati alla leggenda dell'Egitto che se da una parte aveva il vantaggio di essere cara all'infanzia e straordinariamente popolare (nel 1882 l'Egitto divenne un dominio coloniale indiretto della Gran Bretagna), dall'altra era legata al mistero della morte, che è uno dei temi cardine di questa fiaba.

 

Oscar Wilde, The Happy Prince, illustrazione di Ota Janecek,1969. 

 

Quanto Oscar Wilde abbia raccontato di sé attraverso la storia profetica del Principe Felice la cui statua, una volta persa la bellezza, viene abbattuta, e il suo cuore di piombo per ordine dei Consiglieri Comunali gettato nella discarica insieme al corpo della Rondine, non è dato sapere.  

Quando la Rondine, a causa del gelo ormai definitivamente sopraggiunto, si accorge di essere sul punto di morire, scrive Wilde:

 «ebbe appena la forza di volare sulla spalla del Principe per l'ultima volta. «Arrivederci, caro Principe!» mormorò, «posso baciarti la mano?»

«Mi fa piacere che finalmente tu parta per l'Egitto, piccola Rondine» disse il Principe, «ti sei fermata troppo tempo qui; ma mi devi baciare sulla bocca perché io ti voglio bene.»

«Non è in Egitto che vado» disse la Rondine, «vado nella Casa della Morte. La Morte è la sorella del Sonno, non è vero?»

E baciò sulla bocca il Principe Felice e gli cadde ai piedi morta.

Chissà se i baci tinti di rossetto che decine di visitatori giunti da tutto il mondo ogni anno lasciano sul marmo bianco della tomba di Wilde, a Parigi, non siano un inconsapevole omaggio al bacio che chiude questa singolare storia d'amore.
Di sicuro Wilde sapeva che fra letteratura e vita i nessi sono sottili, ma forti. E sapeva quanta verità vi sia anche nelle pagine che appaiono più lontane e fantastiche. Anche di questo nel Principe Felice parla ai bambini, fra i pochi lettori che sappiano davvero quanto ciò corrisponda al vero. Per loro scrisse che un Angelo scelse il cuore spezzato del Principe e il corpo della Rondine come le cose più preziose di quella città.

 

 

Quanto Oscar Wilde fosse sensibile ai bambini, al loro modo di sentire, è testimoniato da una lettera che il 27 maggio del 1897 scrisse al direttore del “Daily Chronicle” per denunciare i maltrattamenti e le violenze subiti dai minori nel carcere di Reading, dal quale era appena stato rilasciato. Uno scritto poco conosciuto che basterebbe da solo a ridimensionare l'icona del Wilde decadente esteta chiuso nel proprio sogno di bellezza. L'episodio che scatenò la lettera fu il licenziamento in tronco del secondino Martin, reo, per i Commissari del Carcere di Reading, di aver dato un biscotto a un bambino affamato che vi era rinchiuso.


«La crudeltà esercitata giorno e notte sui bambini nelle carceri inglesi è terribile, se non per coloro che vi hanno assistito e che conoscono la brutalità del sistema», scrive Wilde. E prosegue: «La gente oggigiorno non sa cosa sia la crudeltà, la considera come una sorta di terribile passione medievale, e la riferisce a uomini della razza di Ezzelino da Romano e altri, ai quali infliggere deliberatamente il dolore procurava un'autentica, folle voluttà. Ma gli uomini dello stampo di Ezzelino sono semplicemente casi anomali di individualismo pervertito. La crudeltà comune è semplicemente stupidità. È la totale mancanza di immaginazione. È il risultato ai nostri giorni di sistemi stereotipati di regole spicce e pratiche, e di idiozia. Ovunque vi sia centralizzazione, c'è stupidità. Quello che è disumano nella vita moderna è la burocrazia. L'autorità è distruttiva per coloro che la esercitano come per coloro su cui è esercitata. La Direzione carceraria e il sistema che mette in atto, sono la fonte primaria della crudeltà esercitata in carcere sui bambini. Chi sostiene il sistema ha intenzioni eccellenti. Chi lo applica è a sua volta umano nelle intenzioni. La responsabilità viene scaricata sui regolamenti disciplinari: si presume che se una cosa è conforme alla regola, è giusta. Il trattamento riservato oggi ai bambini è spaventoso, in primo luogo perché la gente non capisce la peculiare psicologia della natura infantile. Un bambino è in grado di comprendere una punizione inflitta da un individuo, sia esso un genitore o un tutore, e la sopporta con un certo grado di acquiescenza. Quello che non può capire è una punizione inflitta dalla società. […] Il trattamento disumano di un bambino è sempre disumano, da chiunque sia inflitto. Ma il trattamento disumano ricevuto dalla società è per il bambino tanto più terribile in quanto non c'è appello.»

 

I Commissari del Carcere di Reading sono parenti stretti dei Consiglieri Comunali del Principe Felice. Nello stesso momento in cui la società vittoriana venerava e scopriva l'infanzia trasfigurandola in età dell'oro, esercitava su di essa l'idiozia feroce e astratta delle istituzioni e dei regolamenti atti a controllarla e a disinnescarla. Era già una società moderna. Fra poco è Natale, ricordiamocelo.

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