Tutto Munari

9 Maggio 2024

Tempo fa, lessi che una catena della grande distribuzione aveva messo in commercio arance e banane già sbucciate, confezionate in vassoietti chiusi da cellophane. Mi venne subito in mente Good Design, esaltazione del miglior progetto di packaging mai architettato, e non da mente umana. Progetto che, tuttavia, per essere visto in una arancia e raccontato come tale, necessitava di una mente altrettanto concreta, ingegnosa e raffinata di quella della natura. 

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Questa cosa mi è tornata in mente visitando la mostra, affollatissima, Bruno Munari tutto, in corso alla Fondazione Magnani Rocca, a Mamiano di Traversetolo, a cura di Marco Meneguzzo (visitabile fino al 30 giugno).  E ha preso forma nel sospetto che probabilmente non è mai esistito un tempo tanto poco munariano quanto il nostro, e non solo per via delle arance e delle banane. Pensiero quantomeno paradossale, perché Munari, fin dai suoi esordi, pur disinteressato alle mode, non è mai stato avverso alla modernità, se mai questa è sempre stata una forma del tempo da osservare, e raccontare nei suoi aspetti più sottili e, allo stesso tempo, materiali. Se è vero, come scrive Marco Meneguzzo nella sua bella introduzione al catalogo di cui è curatore insieme a Stefano Roffi (Dario Cimorelli editore), che una delle sue frasi ricorrenti è stata: “bisogna riuscire a fare la rivoluzione in silenzio”, viene da riflettere che periodo cupamente reazionario sia il nostro e quanto rumoroso, rumorosissimo.

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In sostanza, visitando Bruno Munari tutto, e affacciandomi sull’oggi dall’altezza della sua rigorosa semplicità, quella dei Filipesi, delle Alte tensioni o delle Macchine impossibili (che nel 1930, con un salto degno di Ermes, erano già nel XXI secolo), ho avuto la netta sensazione che il modo in cui pensiamo e viviamo il nostro tempo, se guardato con gli occhi di quest’uomo nato nel 1907, sia vecchio, sorpassato, inadeguato, spento, pesante, lontano dalle rivoluzioni silenziose, ma imponenti che richiederebbe: nei comportamenti, nelle abitudini, nei pensieri, nelle pratiche, nelle esperienze, nei sentimenti. 

Bruno Munari, spiega Meneguzzo, ha avuto, nel tempo, un successo eccezionale, una popolarità che «rasenta tuttora l’idolatria, oggi tipica solo dei fan delle rockstar», idolatria che non fa che crescere, e al di là dell’indubbia genialità del suo lavoro che ha toccato, come è noto, ambiti molto diversi fra loro, è interessante chiedersi da cosa possa dipendere, riflessione non disgiunta dal riproporre una nuova mostra a lui dedicata, che ne assevera l’attualità. 

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Osservando le opere esposte, circa 250, che ricoprono settant’anni di attività, organizzate in cinque aree tematiche a dar conto dei loro fondamenti teorici e soprattutto metodologici (Essere nel tempo; Dalle due alle tre, alle quattro dimensioni; Sperimentare il limite; Annullare il tempo; Scoprire il mondo), la mia risposta alla domanda è stata all’incirca questa: le sue opere, tutte insieme, costituiscono una sorta di gigantesco anticorpo ai problemi del nostro tempo, un catalogo di attitudini necessarie a venire fuori dall’impasse che opprime la nostra epoca, una lezione eccezionale per chiarezza, e tuttavia, proprio per questo, sfuggente, distante a causa di cattive abitudini di cui senza accorgerci siamo diventati prigionieri, la prima delle quali è un disinteresse verso l’esistente, radicatosi in una difficoltà a leggerlo, indagarlo. In sostanza l’esatto contrario di quanto Munari ha fatto per tutta la vita. Un insegnamento così ben dissimulato, il suo, da apparire per quello che non è: facile, alla portata, riducibile a gratificante consumo estetico e alla dimensione di intrattenimento e divertimento ‘intelligente’, licenza a una nozione di creatività intesa come libertà priva di coerenza e senso che lo storytelling mainstream del marketing globale spaccia per leggerezza e, invece, ha, soprattutto nei suoi esiti consumistici, il peso del piombo. 

Sono diverse le ragioni di questa disposizione all’equivoco.

Scrive Enrico Morteo, nel contributo Good design, presente nel catalogo della mostra: «Quando si parla di Bruno Munari, le parole che si sentono più spesso ricorrere sono quelle del gioco, della leggerezza, dei bambini, della fantasia, del divertimento. Probabilmente sbaglio, ma non mi pare proprio che alcuna di queste parole descriva in realtà il senso del suo lavoro. Per prima cosa, non ho mai avuto l’impressione che Munari fosse una persona così infantile, dolce, remissiva o ridanciana. Anzi, al contrario, mi è sempre parso di una straordinaria lucidità, pungente, ben determinato a perseguire i suoi obiettivi, scarsamente incline a perdere tempo in vani divertimenti.»  

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Per quanto sia inevitabile che ognuno si crei un Munari personale da spendere come meglio crede, un utile antidoto alla sua mistificazione sarebbe rinunciare al mito. Mito che, accrescendosi, ha reso la sua figura poco maneggevole, una sorta di icona più da venerare che da conoscere. Curioso destino perché Munari, come si evince dalle numerose testimonianze di coloro che l’hanno conosciuto, aveva una tale disposizione alla conoscenza e alla curiosità, una tale ironia nella decostruzione delle convenzioni e una tale incrollabile fiducia nella possibilità dell’intelligenza di indagare la realtà, per esempio attraverso lo strumento dell’immaginazione, da risultare, come esprime a chiare lettere la sua intera opera, il designer, il grafico, l’artista meno caratterialmente portato alla costruzione mitologica della propria immagine (anche a partire dall’abbigliamento sobrio rimasto invariato attraverso i decenni). Un tipo di atteggiamento, fra l’altro, rintracciabile nella grande disponibilità e apertura verso le persone, ovvero verso chiunque fosse interessato al suo lavoro, interesse al quale nelle più diverse occasioni non si sottraeva. Per non parlare dell’attenzione che i suoi progetti rivelano, in modo gentile, mai dichiarato, ma evidente, verso i bisogni degli individui e della collettività, per la portata liberatoria del pensiero che sottendono, come dimostra bene tutta l’attività di educatore a cui dedicò un impegno costante e che nel tempo prevalse sulle altre sue attività. 

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Munari mostra ai bambini una tecnica per usare l'argilla al laboratorio tenuto al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza. © Bruno Munari. Tutti i diritti riservati alla Maurizio Corraini s.r.l.

Il lavoro di Munari è, nella lettera e nella sostanza, profondamente democratico, e per questo particolarmente importante in un tempo come il nostro in cui il discorso massmediatico punta all’esclusività, all’unicità dell’individuo, all’identitarismo, come ben spiega la filosofa Francesca Rigotti in L’era del singolo. Segnato da una ricerca di chiarezza come presupposto da una parte metodologico, dall’altra espressivo (il linguaggio sia verbale sia visivo caratterizzati da una ricerca formale mai disgiunta dal senso), tutto il lavoro di Munari è pervaso dalla necessità profonda di farsi capire da tutti, Scritture illeggibili comprese che con eleganza sopraffina comunicano la coerenza logica e formale che contraddistinguono ogni linguaggio, anche quello di cui ancora non possediamo la chiave, e che vediamo affiorare nella misteriosa e ironica bellezza di segni incomprensibili. 

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L’assenza pressoché totale di protagonismo, difficile da capire per un’epoca che ad autori/artisti chiede di diventare brand, è testimoniata anche da un interesse privo di distrazioni nei confronti del fare, come le sezioni della mostra segnalano, a partire dai primi lavori di grafica degli anni Trenta, che dai presupposti del futurismo si distaccano rapidamente per approdare a una solida indipendenza di visione, sebbene attenta alle maggiori esperienze delle avanguardie novecentesche. 

Munari fu, infatti, fin da subito, un costruttore instancabile di oggetti, progetti e idee tanto più innovativi quanto più sganciati dalle culture visive e tecnologiche più strettamente legate al momento, per una capacità del tutto autonoma di guardare al presente e al passato rielaborandone le narrazioni, e ponendosi oltre il tempo, teso all’utopia dell’anonimato, come suggerisce la proposta di un Compasso d’oro agli anonimi costruttori di oggetti quotidiani così compiuti ed efficienti da essere senza tempo, come un lucchetto per serrande o un  leggio. Un costruttore così assorto e prolifico, disinteressato a sé e interessato alle cose, da risultare, al fondo, inafferrabile nella sua essenza. 

«La cultura è fatta di sorprese, cioè della scoperta di ciò che ignoriamo» ha scritto Munari. 

Riflessione di intelligenza scintillante che va in controtendenza rispetto a un tempo che alla cultura chiede rispecchiamento, identificazione, conferma di sé e del proprio mondo, trasformandola in tante piccole nicchie di mercato. 

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Convinto fautore dell’esistente, come spiega Meneguzzo, per cui nutriva un interesse inesauribile e dall’osservazione del quale nacque l’ispirazione per tutte le sue opere,  – libri, sculture, poster, oggetti, mobili, giocattoli –  anche quelle più apparentemente ‘fantastiche’ come le Macchine inutili, Munari punta a ottenere la massima resa formale attraverso la maggior economia di mezzi possibile, approccio che coincide con la sintesi, una sorta di matematica della precisione, espressione della rapidità e della profondità dell’intuizione e del pensiero. Ne sono esempio, fra gli altri, i testi meravigliosi, esemplari per chiarezza, dei libri che progettò per i bambini, come Da lontano era un’isola o L’uomo del camion. E, a questo proposito, sarebbe stato interessante leggere nel catalogo un contributo di un esperto di letteratura illustrata per ragazzi capace di mettere a fuoco in cosa consista la novità dei libri di Munari per i piccoli, non solo dei celeberrimi Libri illeggibili, novità, viene il sospetto, a tutt’oggi non del tutto intesa, fra bibliofilia e mitizzazione. 

Quanto sia facile fermarsi alla soglia dell’intelligenza di Munari, lo si nota, per fare solo un esempio, nella traduzione francese (del 1946, per Editions du Pré aux Clercs) di uno dei suoi volumi per bambini editi da Mondadori nel 1945, L’uomo del camion. Nella penultima pagina, il papà autista, grazie a una serie di mezzi di trasporto, dal camion ai piedi nudi, attraverso moto, bici, monopattino eccetera, raggiunge casa, dove lo aspetta il figliolino che compie gli anni. Lo vediamo mentre suona alla porta di casa con un gran pacchetto. Aperta la porticina di carta, finalmente al lettore appare il bambino.  

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Il testo di Munari dice: 

Oh! Ciao papà! 
Ciao, ciao, ciao, 
ciao, ciao. 
E tutti furono felici. 

Ma cosa c’era 
in quel pacchetto?

Il testo tradotto in francese suona così:

Oh! Papa! Papa! C’est toi!...
Bonjour mon petit papa chéri.
Comme tu es gentil d’être venu me voir!
Et tout furent heureux.

Ma que pouvait bien contenir
Le paquet qui avait été dans le camion et l’auto, 
sur la motocyclette, la bicyclette, 
la patinette et le patins a roulette, 
et finalement dans le bras du papa de Marc?
Vous le demandez, mes chers enfants?
Eh bien, que votre curiosité soit satisfaite.
Ouvrons-le ensemble.

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Un tradimento davvero stupefacente dello spirito del libro, della sua ironia e sagacia, della sua rapidità e sintesi, e, sopra ogni altra cosa, della capacità di calarsi nella felicità espressiva di un bambino piccolo, tradimento la cui unica spiegazione plausibile è un tentativo dell’editore di gratificare il possibile acquirente adulto del libro, offrendogli una chiave immediatamente comprensibile di ipotetici intenti valoriali. È straordinaria la distanza che c’è fra il modo di Munari di costruire una storia attraverso testi, immagini, formati della carta, organizzati in una struttura perfetta e brillantissima di senso e la zavorra costituita da un testo prolisso, impostole artificiosamente e arbitrariamente, secondo il tipico stereotipo, tuttora in corso, che le immagini non siano generatrici di senso organicamente strutturato all’interno di una narrazione visiva, ma accessori decorativi in un contesto in cui è la parola a veicolare ‘buoni’ ed espliciti significati. 

Fidarsi dell’intelligenza dei bambini, della loro capacità di leggere le immagini e le parole, del loro amore per la rapidità e il gioco è quello che dichiarano ai lettori adulti non solo tutti i libri di Munari, ma anche i progetti di design pensati per loro, come il letto Abitacolo, bellissimo già dal nome: uno spazio dove trovare casa, una struttura nuda, a metà fra la zattera, il letto a castello, l’astronave, il rifugio, completamente priva di decori, fatta per accogliere il mondo in formazione e in cambiamento del suo abitante, come una sorta di capanna per Robinson del futuro. E fa impressione pensare a quanto Munari progettasse sempre per sottrazione, tanto più dove vi fossero bambini, per lasciare loro campo libero, quanto più spazio possibile, come dimostra Abitacolo. E quanto, invece, oggi, ogni centimetro di spazio nelle stanze dei bambini sia gremito, occupato di cose, assediato da oggetti, in una sorta di horror vacui furbescamente riempito dal marketing di un comparto commerciale che fa affari d’oro, trasformando in consumi il tempo dei bambini e le relazioni familiari.   

La chiarezza delle opere di Munari richiede acume, perché non ha niente a che fare con la facilità. I suoi scarti nel fantastico e nel paradosso (tutti i mezzi usati dall’uomo del camion si rompono; alla fine perde persino i lacci delle scarpe e arriva a casa a piedi nudi), non sono leggibili come fughe dalla realtà, ma geniali messe a fuoco di come funzionano le cose, a guardarle bene e secondo punti di vista nuovi: nel caso dell’Uomo del camion impariamo come funziona un racconto, ma anche un papà, un bambino, e cosa succede quando l’immaginazione arriva a sovvertire le regole e permette di trovare nuove soluzioni a problemi di sempre: mantenere una promessa, coprire una distanza, imparare a contare, volersi bene, fare una sorpresa. 

La più bella definizione dei libri di Munari si legge nel contributo di Steven Guarnaccia al catalogo: «Ho scoperto un mucchietto di libri argentati, tutti nello stesso formato, quello del taccuino, i suoi block notes, che sembravano manuali per pensare.». 

La mostra Bruno Munari tutto ribadisce con forza questo concetto, mostrando in filigrana al visitatore che ogni oggetto esposto è esattamente questo: un frammento di un sorprendente manuale per ricominciare, per reimparare a pensare.

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