Parole per il futuro / Entusiasmo

14 Febbraio 2022

Con Rosa ancora ci si scrive. Da quando parla inglese ha smesso di pulire case. Lavora in una mensa, corre la maratona e sogna un lavoro d’ufficio. Se qualcuno può farcela è lei, ha una volontà di ferro. Ci siamo incontrate in un’aula di periferia, le pareti macchiate di umido e il ruggito dell’autostrada in sottofondo – un corso d’inglese per stranieri. Ed è stato lì che per la prima volta ho assaggiato il sapore che ormai associo all’America: un mix di ottimismo, fantasia e voglia di futuro. 

Quella classe, stipata di adulti e tutte le ragioni per disperare, vibrava di entusiasmo. C’erano giorni in cui l’energia nell’aria faceva girare la testa. Soprattutto a me, perché negli ultimi anni in Italia quella frequenza ormai stentava a ingranare e sembrava roba da pazzi, visionari o sprovveduti.

 

E parlo del tempo che precede la pandemia, quando i motivi per guardare al futuro con entusiasmo non mancavano.

In quei mesi il mio cinismo ha iniziato a sciogliersi ma l’ho liquidata come una faccenda da immigrati. Speranza e ottimismo sono il bagaglio necessario di chi se ne va. “Per ricostruirsi una vita, si deve essere forti e ottimisti. E dunque siamo molto ottimisti”, scrive Hannah Arendt che in fuga dal nazismo ripara in America. Non è lo zucchero del lieto fine ma uno stato d’animo, scrive, “sempre prossimo alla disperazione”. Andarsene è ritrovarsi senza casa, lavoro, lingua, famiglia, amici – un buco nel posto del cuore, come le statue di Bruno Catalano sul lungomare di Marsiglia. Si perde un mondo, se ne trova un altro e il bilancio non finisce mai in pari. 

 

Vale per i cervelli in fuga come Arendt e per i miei compagni di allora. Messicani, siriani, filippini. Rosa, Luìs, le tre Marie, Hannah e Josè. Tutti a sbarcare il lunario nelle pulizie e nei giardini, nei cantieri e nelle cucine – i lavori dove la scolarità non serve e così l'inglese. Tutti decisi a imparare e andare avanti L'America ha smarrito il suo fascino agli occhi degli europei e degli intellettuali ma per una gran fetta di mondo rimane la stella cometa – la democrazia, la libertà, l'orizzonte delle possibilità. Forse non c'era posto migliore per ricordarmelo. 

Fuori da lì, mi sono buttata la storia dell’entusiasmo alle spalle. Se non che ci sono finita dentro di nuovo, di nuovo per l'inglese. Questa volta, in una di quelle traiettorie perfette che solo il caso sa confezionare, nel luogo più americano e meno accademico che si può immaginare: il Community College locale – diplomi di due anni, corsi professionali, prezzi abbordabili. 

 

Sono così tornata sui banchi con ragazzi dell’età di mio figlio. Letteratura, algebra, scienze. E infusioni quotidiane di ottimismo, fiducia, posività. Futuro. Una terapia d’urto spesso ingenua, irrealistica, esagerata, retorica. Una cura di cui in Italia avremmo però un gran bisogno – per lo meno una volta nella vita, per lo meno da giovani, quando la vita è ancora tutta da costruire e immaginare. Dove si va senza la fiducia nel futuro? E cosa succede quando si dimentica la speranza? 

Se parlo di quegli studenti è perché anche lì le ragioni di pessimismo abbondavano. La maggior parte era nata e cresciuta dalla parte sbagliata della voragine economica, sociale e razziale che attraversa l’America. Metà erano afroamericani. Tanti erano lì solo grazie agli aiuti, le borse di studio, i turni serali e i lavoretti nel weekend – i primi della famiglia a conquistare il diploma e i fiumi di lacrime che ho visto il giorno della cerimonia non li dimenticherò mai. Come non posso dimenticare che ho spesso sentito parlare di razza o pregiudizio, ma la corda del vittimismo di rado è stata sfiorata. Il lamento che in Europa è comune, è un tasto che qui non usa molto. Per citare John Kennedy, non chiederti cosa può fare il paese per te ma cosa tu puoi fare per il paese. 

 

Opera di Christiane Spangsberg.

 

La stessa idea dell’America ha a che fare con l’entusiasmo. Questa è una cultura allergica al fatalismo, ai pesi del passato, ai determinanti culturali e sociali che pure ovviamente esistono e pesano. Ragionare in termini di classe ha qualcosa di spigoloso e disturbante. È un paese che nasce in opposizione al sistema di tradizioni dell'Europa, la promessa del futuro è iscritta nel mito stesso della fondazione ed è un futuro eccezionale. “Saremo la città sulla collina”, predica il puritano John Winthrop nel 1630 nel bel mezzo della traversata atlantica, “gli occhi di tutti sono di noi”.

 

Da allora, come ricorda il filosofo irlandese Charles Handy, l'America vive nell’attesa di qualcosa di nuovo – la novità è un valore e così l’entusiasmo che l'accompagna. Il nostro “nessuna nuova, buona nuova” qui fatica a trovare corrispondenza. “Ronald Reagan – scrive Handy in Tocqueville Revisited – poteva proclamare che ‘Oggi è meglio di ieri e domani sarà meglio’ e non aspettarsi risatine dubbiose”. Da noi strapperebbe risate a scena aperta – siamo gente di mondo e sappiamo come va la vita. 

Gli americani invece ci credono. Sono ingenui, creduloni, pieni di sacro zelo e Dio mi perdoni le generalizzazioni perché parliamo di 330 milioni di persone. Qui tutti hanno un piano per migliorarsi e migliorare. Un’altra casa, un altro lavoro, un’altra città. Sono in moto perpetuo. Sono stancanti. 

Ma non è proprio questo mix di entusiasmo, vitalità, ingenuità a fare dell’America una società malgrado tutto dinamica e l’incubatore mondiale del nuovo? Questa è la terra delle opportunità e delle ripartenze. Fa riflettere che in passato tanti intellettuali europei abbiano trovato qui un ambiente congeniale. Al filosofo inglese Isaiah Berlin mancavano le sfumature degli europei ma in America ha vissuto alcuni dei suoi anni più felici e produttivi. Lo stesso si può dire, oltre che di Hannah Arendt, di Vladimir Nabokov che s'innamora dei paesaggi sconfinati degli Stati Uniti e qui scrive alcuni dei suoi capolavori o del raffinato Evtusenko che a lungo insegna con soddisfazione all’università di Tulsa in Oklahoma. 


L’ottimismo degli americani – che malgrado la pandemia e la crisi economica resiste anche negli ultimi sondaggi – non è una questione personale e lo spiega bene l’economista Robert Heilbroner, figlio di emigrati ebrei dalla Germania, in The impasse of American optimism (1959). È uno stato d'animo, scrive, che “si basa sul giudizio delle nostre capacità storiche. In sostanza, la filosofia dell’ottimismo è un’attitudine storica rispetto al futuro – un’attitudine basata sulla tacita premessa che il futuro accoglierà lo sforzo che vi portiamo”. 

È il portato di una storia diversa e meno traumatica da quella dell'Europa. Una visione che si rinforza nel flusso dell'immigrazione che continua a modellare il paese. Ed è il retaggio che ancora alimenta la dimensione della speranza e la certezza di trovarsi nel flusso vivo della Storia. 

 

La presidenza Trump con il suo epilogo brutale, gli attacchi razzisti e la pandemia sono stati un brusco risveglio per la coscienza del paese. Eppure, senza una sostanziale fiducia nel futuro, come si spiega un fenomeno immenso come Black Lives Matter? Le manifestazioni di massa si sono esaurite ma un esercito di scrittori, artisti e attivisti continua a portare avanti un lavoro di critica e testimonianza con intelligenza e passione – da Ta-Nahisi Coates a Nikole Hannah-Jones a Colson Whitehead. E che dire del climate change e dell’emergenza ambientale? Le voci di Rebecca Solnit, Jenny Offill e Jonathan Franzen da tempo hanno valicato l’oceano mentre una schiera di associazioni, grandi e piccole, ogni giorno lavora sul territorio a sensibilizzare, proporre, denunciare. 

Vorrei ritrovare nella mia Italia ferita dalla pandemia, dalla crisi e da una politica che si ostina a girare su se stessa la stessa passione e lo stesso slancio. So che bruciano negli insegnanti, i medici e gli infermieri, i giornalisti, i giovani e i lavoratori che ogni giorno, malgrado tutto, combattono la battaglia del domani – molti sono amici cari. Per questo patisco ancor di più il pessimismo, la lamentosità e il ripiegamento sul passato che traspira da un certo discorso pubblico.

 

Lo so. L'Italia non è l’America e l'America non è perfetta. Eppure qualcosa da insegnare ce l'ha, se anche il presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno si è sentito di esortare i giovani a non fermarsi, non scoraggiarsi, prendersi il futuro. E quel che ci mostra è che la fiducia non è un salto solitario che si avvita nel vuoto – è un sistema, una cultura e si nutre di fatti, azioni, riscontri. Qui il cambiamento non è un sogno perché è sempre sotto gli occhi. 

 

Un anno dopo l'esperienza del college, mio figlio è arrivato in visita dall'Europa. L’ho portato al campus e mi sono persa. Nel frattempo avevano tirato su un edificio di quattro piani per la facoltà di scienze, una palestra e relativi parcheggi. Per consolarmi, sono tornata a cercare la scuola per immigrati che era stata la mia introduzione all’America. Lungo la strada gli ho parlato di Rosa, di Luìs e del maestro Mark. E un'altra volta mi sono persa. L’edificio era stato demolito e così le botteghe di rigattiere dove dopo le lezioni mi fermavo a curiosare. Al loro posto, un parco con le panchine e le altalene, caffè e ristoranti. 

La nostalgia da queste parti non va lontana e non è detto che sia un male. Siamo finiti a bere una birra e mi sono tornate in mente le parole di Olga Tokarczuk. “Ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe durare addirittura per sempre”.

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