Sotto le foglie: l'enigma dell'ambivalenza
Quando, in una fiaba, incontriamo una donna anziana dentro un bosco si danno due possibilità, che di solito fissano un’antitesi: o si tratta di una nonnina indifesa esposta al rischio di essere mangiata da un lupo cattivo; oppure sarà una strega, intenta a preparare pozioni magiche e velenose. La protagonista di Sotto le foglie (Quand vient l'automne) di Ozon è, simultaneamente, molto dentro e molto fuori rispetto a questo schema, perché Michelle (Hélène Vincent) può sembrarci sia una nonna mite e affettuosa, che passa il tempo cucinando torte, sia una persona dai poteri speciali e sorprendenti. Già questa sua condizione doppia, ibrida, sfuggente, in qualche modo anche ingannevole, fa di lei una delle protagoniste più intense della filmografia di Ozon, regista che da Sitcom (1998) a oggi ha realizzato ventitré lungometraggi. Più di venti film, che pur essendo tutte opere diverse, lavorano ogni volta con un intreccio dove c’è un pezzo mancante. Potrà trattarsi di una parte taciuta, di un passato famigliare, o di un vissuto personale doloroso, traumatico; oppure della cancellazione di una memoria storica; o di un’identità segreta nascosta (Una nuova amica: 2014; Frantz: 2016); di un mondo immaginario parallelo (La piscina, 2003); di un lutto che non si vuole accettare – come in Sotto la sabbia (Sous le sable, del 2000, a cui si è probabilmente ispirata la traduzione del titolo dell’ultimo film).

Anche per questo continuo lavoro sul tema della rimozione, la detective story è uno degli schemi narrativi più seguiti dalle sue opere (8 Femmes, 2002: 8 donne e un mistero). In perfetta fusione con le sceneggiature, il lavoro filmico asseconda il gusto formale delle ellissi, della suspense; la macchina da presa compone situazioni voyeuristiche in cui i personaggi si guardano, o si spiano reciprocamente, senza tuttavia riuscire a decifrarsi o a far tornare le tessere a posto. Perché è qui infatti che arriva “l’atmosfera Ozon”: il mistero messo in scena non si svela mai del tutto, e, andando avanti, o persino arrivando al finale, gli indizi seminati dalle inquadrature e dai dialoghi fanno crescere il senso di un’opacità permanente, piuttosto che di una chiarezza. A volte, questo cinema che ha sempre bisogno di mostrare e raccontare che nulla è come sembra diventa un gioco compiaciuto, persino caricaturale, come in Mon crime (La colpevole sono io: 2023). Guardando Quand vient l'automne, invece, è come se ci sentissimo sempre più in sintonia, e paradossalmente – ma anche questo è un “effetto Ozon” –, con un film che compie l’incantesimo di liberarci gli occhi e la mente per farci accogliere, durante la visione, o pure dopo, ripensandoci, una forma di vita molto estranea alle categorie consuete o alla morale. Stavolta infatti assistiamo alla storia di un probabile assassinio, consumato dentro gli spazi simbolici di un tabù; spiamo la vita di una madre, una nonna, persino un’amica, che a pensarci non sarebbe così tanto raccomandabile nella vita reale. Ma non importa: guardando il film sentiamo la sua verità e siamo dalla sua parte, anche se qualcosa ci turba, o forse proprio per questo.

Il titolo trovato per la distribuzione italiana, stavolta, anziché depistarci, potrebbe invece favorirci, cioè arricchire il bosco di significati in cui ci fa entrare il film, come se stessimo inseguendo uno strano coniglio. È vero, si perde il senso autunnale della fine prospettato dalla determinazione di tempo che era suggerita dalla versione originale (Quand vient l'automne), ma Sotto le foglie, come fa anche il disegno sulla locandina, si riferisce bene, anche con un pizzico di umorismo, a certi funghi che avranno un’importanza decisiva nello sviluppo del racconto e della sua crisi; rimanda pure alla scena finale, e in più già suggerisce, simbolicamente, una delle chiavi più importanti di questo film che continuamente fa esistere il sentimento di cose, emozioni, sofferenze o decisioni rimaste sotto la superficie o lasciate fuori scena (anche perché “oscene”, in senso morale come drammaturgico).
Si comincia e si finisce dentro un bosco. Nell’arco della sua durata, Sotto le foglie fa riaffiorare, progressivamente, e farà progressivamente risprofondare, riassorbendola con una naturalezza anche visiva che ci comunica il senso di un ciclo vitale, la storia di Michelle Tessier, una donna anziana in pensione che dopo aver lasciato la casa di Parigi a Valérie (Ludivine Saigner), la figlia di trent’anni a cui la lega una relazione piena di ombre e ostilità, si è ritirata a vivere in un paesino tagliato fuori dal mondo, in Borgogna, dove fa passeggiate con la sua amica di una vita, e aspetta che la figlia e il nipote vadano a farle visita e a trascorrere un po’ di tempo con lei. Valérie, infatti, si è appena separata dal marito, che è in procinto di andare a lavorare a Dubai. Quando finalmente la vacanza tanto attesa arriva, accade però un incidente che provoca una rottura e la decisione di separare il nipote dalla nonna. Valérie infatti, dopo un’intossicazione da funghi provocatale da un piatto cucinato proprio da sua madre, decide di tornare a Parigi, portando con sé il bambino. Il film però non ci fa seguire la sua storia (che potrebbe in effetti sembrare, a prima vista, più interessante), bensì quella della madre, che nel frattempo ha pure stabilito una relazione molto affettuosa e protettiva con Vincent, il figlio della sua amica storica Marie-Claude (la bravissima Josiane Balasko), un giovane coetaneo di Valérie, uscito da poco di prigione. In un certo senso, Michelle entra in competizione con le altre madri di questa storia, cercando di sostituirsi a loro nella relazione di nutrimento e di cura. A un certo punto scopriremo che tale comportamento, che ha qualcosa di compensatorio, potrebbe valere anche come risarcimento di una vita passata che deve essere stata molto complicata da gestire – e non solo per la madre, anche per chi era figlia.
Mentre ancora, svolgendo il filo del racconto, non abbiamo saputo che lavoro facessero Michelle e Marie-Claude, le immagini intanto ci fanno incontrare e vivere uno degli archetipi narrativi più forti, vale a dire il modello psichico della relazione madre-figlia, e proprio usando, anche fotograficamente, il campo lungo di un bosco che, in termini junghiani, è il simbolo del mondo inconscio, dove possiamo riscoprire e accogliere parti di noi che ignoravamo.
Dopo l’episodio del rischio di morte per avvelenamento, la storia va avanti in un crescendo di suspense costruito con trovate formali e drammatiche di gusto hitchcockiano, come la trama dell’omicidio per interposta persona, o l’attenzione insistente al potere narrativo e visuale di certi oggetti trasformati in dispositivi di racconto e di tensione, come il telefono, gli occhiali, e naturalmente i funghi. Il punto massimo di tensione arriva alla morte di Valérie, precipitata dal balcone della sua casa di Parigi. È stato un incidente? Una fatalità? E fino a che punto Michelle è stata complice? Il fascino di Quand vient l’autumne si gioca principalmente nell’equilibrio perfetto di motivi e toni contrastanti, fatti reciprocamente interagire senza arrivare a mai a un punto di soluzione. Lo scioglimento, piuttosto, si dà nell’esperienza che facciamo, anche come spettatori e spettatrici, di una storia che accade, al di fuori di una morale. Così, il vero enigma messo in scena non è quello di un misterioso delitto da risolvere, ma quello dell’ambiguità più umana che esiste, ossia l’enigma dell’ambivalenza delle relazioni – «ci amavamo sai – dirà il marito di Valérie – ma ci amavamo male». In particolare, l’ambivalenza delle relazioni più forti ma, proprio per questo anche più vulnerabili e più a rischio di reciproco avvelenamento: quelle tra genitori e figli/e. Tutto ciò che di impuro e di perturbante può far parte di questo rapporto è lasciato vivere, in Sotto le foglie, senza didascalie o soluzioni consolatorie.
Senza avere accesso alla sua vita interiore, affidandoci a quello che possiamo sapere osservandola dall’esterno, Michelle non prova sentimenti di rimpianto o di colpa, al contrario della sua amica Marie-Claude, che come la protagonista ha “fatto la vita”, come si diceva un tempo per definire la prostituzione, con un’espressione tanto datata e discriminante quanto però efficace, qui, a restituirci la trama formale di Sotto le foglie.

Siamo state delle cattive madri, dice Marie-Claude all’amica, quando sta per morire. No, le risponde Michelle, abbiamo fatto meglio che potevamo. Non è un facile relativismo, perché stavolta, guardando Quand vient l'automne, sentiamo che questa imperfezione è una delle illusioni più vitali che il cinema sa rappresentare. “Abbiamo fatto meglio che potevamo”: mentre stiamo per tornare nel bosco, l’eco di questa frase si riverbera anche sull’ultimo inestricabile enigma: quello delle parole pronunciate dal nipote quando, di nuovo a tavola dalla nonna, da adulto, dichiarerà che i funghi gli piacciono, al contrario di quello che lo avevamo sentito dire quando era piccolo.
