4 aprile 1932 / Geoff Dyer e Andrej Tarkovskij, chi è il persecutore?

4 Aprile 2019

A un certo punto del suo ultimo libro, Sabbie bianche, Geoff Dyer descrive una fotografia di Luigi Ghirri. Ci è arrivato perché ECM l’ha messa in copertina a uno dei suoi amati dischi di free jazz. (Il racconto di “com’è arrivato” a un certo oggetto è mossa tipica di Dyer.) Come spesso quelle di Ghirri, il contorno della foto è cornice di un altro contorno (in questo caso, una porta da calcio sospesa nel verde), e a lui appare la quintessenza di una foto, «semitrasparente e infinitamente misteriosa». In quell’immagine «non succede assolutamente niente»; per questo ci affascina, ci attira, ci inghiottisce (in quella porta non possiamo non desiderare di entrare). 

Non stupisce che il film della sua vita sia Stalker di Andrej Tarkovskij: opera conclusa nel 1979, dopo anni di travaglio, e tratta da un romanzo di fantascienza dei fratelli Strugackij, Picnic sul ciglio della strada (in Italia tradotto da Marcos y Marcos). In queste due ore e mezza, infatti, non succede praticamente niente; ma forse mai, nella storia del cinema, il Niente è apparso così vicino a essere Tutto – secondo il sogno di Flaubert, ricordato da Dyer, di riuscire a scrivere, un giorno, «un libro sul niente», cioè senza soggetto: «poiché è lo stile a essere un modo assoluto di vedere le cose» (noi feticisti del piano-sequenza concordiamo colla sintesi di Dyer: Tarkovskij «comincia dove Antonioni si è fermato», cioè dal leggendario finale di Professione: reporter, e Lars Von Trier ricomincia da dove si è fermato Tarkovskij). Uno stile così caratterizzato da diventare, poi, maniera di se stesso.

 

Agli intervistatori rispondeva Tarkovskij che «la Zona non simboleggia niente […]: la Zona è la zona, è la vita, e mentre la attraversa un uomo può crollare o può farcela». Eppure, come quella porta vuota di Ghirri, tutto nel suo film ci scruta, ci interroga, ci sospinge all’entretien infini: come dimostrano le pagine scintillanti di Dyer che, pure, toccano solo alcuni degli infiniti détour possibili. La Zona è l’area protetta alla quale, dopo un Evento misterioso (nel romanzo, il passaggio sulla Terra di extraterrestri incuranti come divinità), è stato proibito l’accesso. Dal momento però che al suo interno si dice ci sia una Stanza nella quale ciascuno può realizzare il suo desiderio più segreto, tutti vogliono andarci. L’esercito spara a vista, ma il vero pericolo è rappresentato dalla Zona in sé – «la strada diretta non è la più corta; più si allunga e meno si rischia» – e dal suo evidente, ancorché indeterminato, stato di contaminazione. Se vogliamo percorrerla dobbiamo assoldare una guida, uno Stalker (così suona il calco russo – pronuncia con la «a» – dal verbo inglese che significa «muoversi con circospezione») che può condurci sino sulla Soglia della Stanza. Dove poi, però, solo alcuni di noi – scelti dalla Zona – potranno entrare: e, così, conoscere se stessi. Lo Stalker è l’unico a cui sia vietato anche il solo tentativo.  

 

 

Inevitabile considerare l’imagery di Stalker – i residuati bellici, la contaminazione, persino i reattori di una centrale nucleare in lontananza – una profezia dell’incidente atomico di Černobyl’, che sette anni dopo l’uscita del film segnò, simbolicamente, la fine dell’Unione Sovietica. Tanto che oggi davvero un gruppo di giovani paramilitari ucraini si fanno chiamare Stalker, e per denaro conducono i turisti dell’orrore all’interno della Zona d’Esclusione radioattiva (due videomaker, Alessandro Tesei e Pierpaolo Mittica, stanno montando un film intitolato The Zone. A Post-Atomic Journey; ma già nel 2006 Davide Ferrario e Marco Belpoliti girarono nella Zona un episodio del loro travelogue La strada di Levi; e Belpoliti ha raccontato quel viaggio in un libro, l’anno scorso ripubblicato da Guanda, che s’intitola proprio La prova). Nel libro di Dyer è riportata anche la diceria secondo la quale all’esposizione a rifiuti tossici, durante la lavorazione del film, sarebbe dovuta la morte per cancro di Tarkovskij (proprio nell’anno di Černobyl’), di sua moglie Larissa e del protagonista Aleksandr Kajdanovskij (il quale, invece, risulta morto d’infarto).

 

Al di là di questa leggenda nera non c’è dubbio che Stalker abbia fondato un immaginario (vi si sono ispirati una popstar come Björk, autori di videogiochi, artisti – come in Italia l’«Osservatorio Nomade» post-situazionista di Francesco Careri e Lorenzo Romito, alias appunto Gruppo Stalker, o Gian Maria Tosatti nelle sue liriche e oniriche “occupazioni temporanee” di luoghi abbandonati) e anzi, considerando la spiritualità dell’autore, una vera e propria religione (il lampeggiare, nella scena di più intollerabile bellezza del film – un’interminabile plongée su uno strato d’acqua torbida dal quale emergono oggetti enigmatici –, di un frammento dell’Agnello mistico dei fratelli Van Eyck allude alla qualità lustrale di quell’acqua, ma anche – forse – alla sua mortifera tossicità: nel polittico di Gand, infatti, il Battista è figura dell’altro Giovanni, l’autore dell’Apocalisse…). 

 

Non se ne può certo dire un adepto Dyer, materialista convinto (lasciamo ai lettori scoprire quale sia il suo “desiderio segreto”), ma a sua volta deve confessare una vera intossicazione ermeneutica. E ad affascinare è soprattutto il suo abbozzo di una teoria dell’ossessione: perché a un certo punto ci imbattiamo in un’opera quintessenziale (che cioè rappresenta, della nostra esistenza, un complemento da quel momento in avanti indispensabile)? Come la riconosciamo? E cosa è davvero lecito chiederle? La vera Zona, si capisce, è il film. E allora Zona diventa anche un trattato – sghembo, frammentario, inevitabilmente circospetto – su un modo di scrivere che non è narrativa e non è critica ma appunto stalking: nel senso che il verbo ha assunto oggi, di persecuzione ossessiva e paranoica. Il finale del film ci mostra un Miracolo (descriverlo, come sbagliando fa Dyer, è impossibile): forse anche il desiderio dello Stalker, per una volta, è stato esaudito. Nel caso dello stalker che abbiamo letto, il miracolo è il libro che ha scritto. 

 

Geoff Dyer, Zona. Un libro su un film su un viaggio verso una stanza, traduzione di Katia Bagnoli, il Saggiatore, 2018, pp. 189, € 24 

 

Questo articolo è uscito il 30 dicembre sul «Sole 24 ore».

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