Dopo Brexit / Il lavoratore europeo nel Regno Unito

12 Luglio 2016

Cosa significa vivere da cittadino europeo in Inghilterra dopo Brexit? E sottolineo Inghilterra perché parte proprio da qui la marea elettorale che sta provocato una crisi di nervi globale (come ha scritto qui anche Federico Campagna), ma che nell’immediato certamente interessa in maniera più pressante e esistenzialmente urgente i cittadini EU che da anni vivono e lavorano nel Regno Unito. 

 

Premesso che è ancora presto per comprendere quali saranno gli scenari istituzionali, legali, politici ed economici immediati e futuri, il primo dato da registrare è stata la forte risposta emotiva del 48% della popolazione favorevole al Remain, del tutto comprensibile visto l’impatto e le possibili ramificazioni sociali, personali, politiche del voto del 23 giugno. Per molti che come noi vivono in filter bubble internazionali come Londra, Oxford o Cambridge, c’è stato un generale senso di incredulità, misto a frustrazione e a rabbia, soprattutto nei confronti di una classe politica che ha messo a repentaglio la stabilità economica e sociale di un paese per mere beghe di potere interno. Anche i più compassati tra i colleghi inglesi hanno visibilmente perso il controllo e la loro naturale riservatezza nel commentare i risultati del referendum. I Conservatori sono ovviamente i primi responsabili per questo capolavoro di caos istituzionale che Brexit sta producendo. Molti sono stati travolti, inorriditi, esasperati dallo psico-dramma che si è consumato a Westminster, tra dimissioni in serie, falsificazioni e menzogne “su scala industriale” come è stato detto, machiavellismo di basso profilo (che del resto ha interessato anche i labouristi nella battaglia fra il leader Jeremy Corbyn e i fiduciari di Blair ancora in parlamento), e che potrebbe regalarci una nuova fase storica dominata da un Thatcherismo esasperato.

 

Molti stanno consumando intere giornate a seguire i dibattiti e le reazioni interne e internazionali, e a cercare di capire cosa ci aspetta nei prossimi anni. Altri sono impegnati con psicodrammi domestici dovendo gestire la difficile relazione con famigliari che hanno votato per Leave. Altri si sentono traditi da un paese che hanno consapevolmente eletto come il proprio, per scelta, e non per il puro dato casuale di esservi nato. Di contro una buona parte degli inglesi prova un senso di colpa e di vergogna nei confronti di amici e conoscenti comunitari, mista per altro a frustrazione e rabbia di fronte alla prospettiva di essere tagliati fuori dalle possibilità sociali e lavorative offerte dal continente, con cui sentono di condividere un legame consolidato e acquisito (da cui le file interminabili agli uffici postali irlandesi presi d’assalto dalle migliaia di richieste per la doppia nazionalità da parte di Nord-irlandesi e di chi può vantare almeno un genitore irlandese). 

 

Gli episodi di xenophobia registrati nei giorni successivi al voto certamente non hanno interessato comunità fortemente transnazionali come Cambridge, dove si percepisce piuttosto forte solidarietà nei confronti della variegata comunità europea che qui vive e lavora da tempo (qui il 75% degli elettori è a favore del Remain). D’altro canto basta guidare un quarto d’ora verso est, addentandosi nel cuore dell’East Anglia, che ha votato massicciamente per il Leave per comprendere che non è solo la working class delle zone degradate e impoverite delle città del Nord ad aver espresso nel miglior dei casi scetticismo, nel peggiore palese avversione razzista nei confronti dell’Europa e degli europei, ma un’Inghilterra rurale, ordinata, fatta di una rete di piccoli paesi pittoreschi, con un buon tenore di vita e una popolazione di immigrati del tutto residuale rispetto a Londra o Birmingham, la cui maggioranza ha votato Remain (di questo ha già scritto qui Sergio Benvenuto). Da sottolineare inoltre il razzismo a scatole cinesi di tutti quegli immigrati che hanno votato per Leave, forti dell’acquisizione di un privilegio recente da cui si affrettano a escludere gli altri.

 

 

 

Avendo molti di noi investito la nostra intera esistenza in una scommessa di mobilità internazionale, avendo plasmato la nostra identità europea in modo del tutto spontaneo vista la fase storica in cui ci siamo trovati a crescere, avendo inoltre costruito reti di relazioni personali e affettive transnazionali, Brexit è sentito da una parte come un tradimento storico, profondo e ingiusto, e le cui conseguenze a medio e lungo termine saranno percepite soprattutto dalle generazioni più giovani (che per altro sono in parte responsabili del risultato del 23 giugno, avendo in maggioranza disertato il voto), dall’altra rappresenta una sorta di reality check rispetto alle contradizioni e tensioni inevitabili che i processi di globalizzazione si stanno portando e che molti hanno cercato di rimuovere o compartimentalizzare. Si tratta di un reality check soprattutto per l’Europa che si trova impegnata nell’immediato a fare in modo che l’onda di contagio politico ed economico rimanga a un livello controllabile, dall’altra e più a lungo termine richiederà forme di intervento politico-istituzionale e culturale per ricomporre il rapporto tra centri decisionali e periferie, tra egoismi nazionali o regionali e cecità degli organismi transnazionali, tra le logiche di un capitalismo esasperato e internazionalizzato e le spinte identitarie di realtà locali impoverite economicamente ma soprattutto culturalmente. 

 

Certamente non fa piacere trovarsi in questo momento nella potenziale posizione di ‘bargaining chips’, pedine di scambio, o ostaggi di possibili contrattazioni negoziali a livello internazionale, come emerge dalle prime dichiarazioni di Theresa May — probabile prossima premier del Regno Unito e impegnata da anni come ministro dell’Interno a ridurre con ogni mezzo possibile l’immigrazione, al punto da richiedere anche la revisione del Human Rights Act. Del resto sembra esserci un consenso trasversale nel parlamento relativamente all’impegno di rispettare i diritti acquisiti dei cittadini EU presenti nel territorio britannico. Appare del resto chiaro il fatto che, vista la velocità con cui i Tories si stanno ricompattando e si stanno allineando alla decisione popolare (ma forse sarebbe meglio dire che il voto ha dato legittimazione sostanziale al loro pluriennale euro-scetticismo), l’invocazione del famoso articolo 50 del Trattato di Lisbona diventa evento sempre più certo (anche per il timore di perdere un elettorato che si sta spostando sempre più a destra e che non perdonerebbe i Tories se retrocedessero rispetto al risultato referendario). Anche su questo il caso inglese sembra essere eccezionale, visto che tutti i referendum consultivi fatti in questi anni sull’Europa (in Irlanda, in Danimarca, in Francia) sono stati praticamente ignorati dai governi locali che hanno proseguito sulla strada dell’integrazione europea. E a proposito ci si può chiedere se l’istituto referendario abbia senso quando si tratta di discutere di materie così complesse e strategiche come la sottoscrizione di trattati internazionali e di cooperazione (a quando il referendum sulla NATO o sul TTP?).

 

È chiaro che un sistema economico e sociale complesso come quello inglese non può fare a meno dei più di 3 milioni di lavoratori comunitari che operano nel paese, ma che non rappresentano più la risultanza di un processo di integrazione sociale internazionale ma saranno probabilmente contabilizzati, gestiti con il bilancino delle esigenze specifiche di settori particolari, già contraddistinte da uno strisciante razzismo da specializzazione post-coloniale (come è stato scritto recentemente, il paese ha comunque bisogno di “idraulici polacchi” e di “infermiere italiane”, dimenticandosi della cronica carenza di ingegneri o chimici sopperita con il reclutamento di migliaia di specialisti europei). Ci attendono mesi di trafile burocratiche e di incertezza, nell’attesa che le varie anime della Gran Bretagna Tory trovino la quadratura del cerchio cercando riconciliare le diverse esigenze dei propri referenti, da una parte le lobbies neo-liberaliste del turbo-capitalismo finanziario che ha fatto di Londra uno dei suoi più importanti hub internazionali e attorno a cui ruota l’intera economia britannica, dall’altra la fedeltà a un elettorato che ha chiesto una precisa posizione ideologica e identitaria anche a costo di impoverimento economico immediato. E da questo punto la frugalità intrinseca della cultura inglese tradizionale gioca a favore di un processo di contrazione identitaria, per cui si può mettere in conto di diventare più poveri per guadagnare un po’ di “libertà” simbolica o fantasmatica. E a proposito, ci si può chiedere quale sarà il prossimo obiettivo dei tabloid inglesi come il Daily Mail o The Sun, certamente tra i primi responsabili per il diffondersi questa psicosi anti-EU, nelle loro campagne di polarizzazione persecutoria. Contro chi si accaniranno ora che il mostro europeo è stato simbolicamente espulso?

 

 

Dalla prospettiva di un osservatorio molto parziale e sostanzialmente protetto come l’Università, i problemi con cui ci confronteremo saranno probabilmente un calo delle immatricolazioni nei dipartimenti di lingua e cultura stranieri, e l’ulteriore precarizzazione di quanti insegnano a contratto, una contrazione delle collaborazioni internazionali con i partner europei, la rinegoziazione di programmi fondamentali per l’integrazione culturale continentale come è stato il programma Erasmus, e un generale impoverimento dei rapporti con i paesi EU. Molti dei dottorandi o post-doc che hanno scommesso sul sistema inglese per proseguire la loro carriera in un contesto internazionale dovranno probabilmente rivedere le proprie strategie. Le università con più peso globale sposteranno il proprio asse di interessi e collaborazioni sempre più verso l’Asia e il Nord-America, ma certamente ci sarà un impoverimento di una delle forze del sistema britannico, la sua capacità di attrarre meglio di altri paesi europei i migliori ricercatori del continente. Si tratta di un settore specifico e non centrale nelle considerazioni politiche generali, ma sono proprio le Università e i centri di ricerca ad esse collegati i luoghi dove si costruisce prima che altrove un senso di apertura e di collaborazione internazionale, dove il continente mostra il suo volto migliore e i progressi reali nell’integrazione culturale e sociale dell’Europa. Riguarda certamente una minoranza, ma salvaguardare quanto più possibile questo spazio e possibilmente allargarlo ci sembra quanto mai urgente in questo momento storico.

 

Pierpaolo Antonello insegna al Department of Italian, Faculty of Modern and Medieval Languages. University of Cambridge.

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