Memoria ritrovata / La bottega degli occhi

26 Giugno 2016

C’è un vicolo nella Gerusalemme vecchia, nel labirintico quartiere arabo. È labirintico anche quello ebraico, come quello armeno: forse il dedalo nella Città Sacra non è casuale, ma scelta necessaria per l’incombere di verità assolute: una sorta di teologia urbanistica. La Via Crucis taglia tutti i quartieri con le sue botteghe di ricordini del Calvario: la Main Street della sacralità.

 

In quel vicolo discosto c’è una sola bottega, un negozio di macellaio che espone sul marciapiede, in grandi ceste, la sua atroce mercanzia: grasse code di pecora gravide di sugna, teste di pecora decapitate e due ceste ricolme di occhi strappati alle orbite ovine, ognuno con la coda del nervo ottico, che possono sembrare, a un’occhiata distratta, lumachine. Sono migliaia, accatastati alla rinfusa, quei bulbi oculari, e per via del caos ci sono sempre in quelle ceste occhi che seguono imploranti chi passa di lì. Si tratta, com’è evidente, di un mero fatto statistico (almeno spero). Ma l’angoscia non lo è: è la condizione del pianeta in cui viviamo, di prede e predatori. Nemmeno le pecorelle sono mica innocenti, come vorrebbero apparire: loro predano l’erbetta verde e sono fortunate, oltre che spietate, perché l’erba non ha occhi e non geme. 

 

Felice di essermi lasciato alle spalle quel vicolo di terrore, mi ritrovai in un altro posto strano di quella città inquietante. La folla cosmopolita premeva per svoltare a destra ad angolo retto in un vicolo, lasciando a sinistra, nell’incontro vuoto fra una casa e l’altra, nello spigolo concavo fra i muri di pietra rosa elegantemente sbrecciata, una specie di nicchia, un andito morto, in cui si trovava, solo e accovacciato di fronte alla folla costretta a sfilargli davanti, un uomo tremendamente vivo che cercava occhi vivi, immobile nella sua abside come un idolo di pietra.

 

Ero vestito da turista imbecille, con la mia penosa Nikon F2, monocola infaticabile, che mi pendeva sulla pancia. Ero “Paperino fotografo”, ridicolo ma innocuo o almeno così credevo che credesse il mondo, prima di trasalire per quel che poi mi parve accadesse: mi parve, perché non accadde nulla. 

 

Nell’angusto spazio, con le gambe incrociate sul lastricato, assideva quello che avrebbe potuto essere un mendicante, se non fosse stato per il ricco vestito orientale, drappeggiato come un laticlavio senatorio. L’ampio drappeggio era di lana di cammello morbida e calda, ricca e spessa per ripararsi nella Gerusalemme fredda e nevosa. L’educazione ebraica di mia mamma consisteva quasi esclusivamente nello spiegarmi che i cattolici non sanno nulla di nulla, e quindi si inventano, nei Presepi, di far cadere la neve a Gerusalemme, luogo orientale e tiepido, dove non nevica mai. A Gerusalemme nevica tutti gli inverni, povera la mia mammina!

 

Una falda del mantello gli copriva la testa e cadeva ampia sull’altra metà del volto, quella dove batteva il gelido vento dei deserti dell’Asia. Il solito profeta, pensai, come tanti in questa città così pericolosamente vicina a Dio. Il loft elegante del Dio unico, che si occupa soprattutto di Storia, ovviamente nel senso di infliggerla, non di studiarla e raccontarla. Figuriamoci poi di patirla!

 

Non era un profeta quell’uomo, e nemmeno un mendicante; era, anche lui, come il macellaio del vicolo fuori mano, un negoziante di sguardi. Ma ne spacciava uno solo, il suo, attendendo con pazienza di adescare gli occhi di qualche passante per vendergli il suo sguardo d’ira, minaccia, furore, indignazione, vendetta inappagata, assassinio. A me, proprio a me, offrì, guardandomi, la sua merce di sgomento, prima che il terrore, pochi istanti dopo, mi facesse chinare lo sguardo come una pudica verginella.

 

L’orrore di essere guardato si sposta ora nella assai meno esotica città di Torino, qualche decennio prima. Al Ristorante “Giappone”, aveva già finito il pranzo da un bel pezzo un cliente che attendeva il conto, seduto, solo nella sala vuota, a un tavolo d’angolo dal quale poteva scrutare, con occhi di ferro, l’intero scenario. 

 

Quando entrammo noi il dado era tratto: uscire subito sarebbe stato il peggio, dato che quello lì era un più che riconoscibile sgherro della Gestapo. Capimmo che il predatore era a caccia perché ci seguì con lo sguardo fino a quando fummo tutti seduti a un tavolino poco discosto. E nemmeno troppo vicino, tanto quanto bastava a sembrare indifferenti all’acciaio che seguiva la nostra famigliola torinese, due bambini con mamma e papà, da due mesi alla macchia, clandestini, nel novembre del 1943.

 

Appena seduti, mentre il poliziotto con davanti a sé un piatto di noci già mangiate consultava con eccessiva pazienza il conto, con un braccio accavallato allo schienale della sedia e il foglietto spiaccicato agli occhiali da presbite sulla cima del naso, il papà bisbigliò fra i denti, nel dialetto ebraico piemontese: “Davàr!”, guardandoci implorante. Una sola parola che in ebraico vuol dire “parola”, mentre in dialetto significa: “Pericolo! Controllare quel che si dice”.

 

Il tedesco si allertò come un cane che sente un frullare di ali: poggiò il foglietto del conto ma si dedicò nuovamente alle noci che aveva finito prima che noi entrassimo. Gusci di noci.

 

“Come sei andato oggi a scuola?” mi chiese il papà sapendo che a scuola non andavo da settembre.

 

“La maestra ci ha insegnato le divisioni e la prova del nove. Si fa una crocetta, ma poi dopo non ricordo più bene come si fa…”. La mamma, che sapeva dell'estrema difficoltà del mio papà nel campo delle divisioni, intervenne con calma e incominciò una lunga spiegazione sbagliata sulla prova del nove, prova che conoscevo benissimo e fingevo di non capire, mentre ingollavamo minestrone e angoscia.

 

Il presbite predatore aveva ormai rizzato orecchi da licaone e intanto, a cinque centimetri dal piatto, con il dito indice della mano sinistra (ma allora era mancino, e me ne accorgo solo ora) frugava fra i gusci infranti alla ricerca di quei pezzettini di gheriglio, quelli tanto piccoli che li si lascia sempre nel piatto. Ogni volta che ne trovava uno, lo pizzicava e, mentre inutilmente masticava il nulla, ci guardava di nuovo. Poi arrivò la ragazza a farsi pagare il suo conto. Lui estrasse dal pastrano di pelle nera, dal suo amato pastrano d’ordinanza, il portafoglio, pagò e poi tornò a fissarci.

 

Non so quanto sia durato questo orrore, forse mezz’ora, ma alla fine l’assassino si arrese, si alzò e se ne andò. Sospettabili lo eravamo, eccome! Ma procedere a catture frettolose era assai sconveniente in quel ristorante che forse frequentava ogni giorno. Uno stimato cliente “germanico” che estrae all’improvviso l’elegante pistola Luger P08 e porta fuori dal locale preferito due signori di mezza età e due bambini a braccia alzate non risulta carino, neppure per la Gestapo, specialmente se poi dovesse rivelarsi un sempre possibile errore.

 

Finalmente se ne andò. Uscì dal ristorante, il lucido pastrano di pelle nera, la scriminatura dei capelli scuri fatta con il righello, gli occhiali di ferro; il quarantenne, che non so come facesse a essere quattrocchi così giovane, ammesso e non concesso che fosse presbite sul serio, finalmente se ne andò. Il papà quasi svenne picchiando la fronte sulla tovaglia candida e gemette: “Salvi! Siamo salvi! Ma avete visto come frugava il bastardo nel piatto?”. Intanto la mamma lo sgridava sottovoce: “È tutta colpa tua, tutta! Ti ho detto mille volte che i nazisti ricevono lezioni di ebraico e tu hai detto “davàr”. 

 

Occhi di pecora, sguardo d’odio, occhi d’acciaio, piatti di noci frantumate, pastrani di pelle nera, laticlavi di lana bianca, pazienza maniacale del cacciatore alla posta, comportamento guardingo della preda. Lo sapete l’effetto che fa essere una quaglia? Io sì. Quanti labirinti servono per far capire, a chi non sapesse, l’effetto che fa? Uno solo, “davàr”: terrore.

 

Il giorno dopo la sua elezione, il 30 gennaio 2015, il nuovo Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha visitato le Fosse Ardeatine, e ha rilasciato questa dichiarazione: "L’alleanza tra Nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso. La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore."

 

Questo racconto è stato pubblicato la prima volta nel 2015 in "La Rassegna Mensile di Israel", che ringraziamo.

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